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sabato 20 febbraio 2021

Avevo vent'anni

 Sara ha 24 anni, laureata brillantemente la scorsa estate. Aveva tanti progetti, Sara, un corso da seguire a Roma, dove si era trovata così bene, magari anche uno stage. Arriva settembre, carico di promesse dopo una folle estate di libertà. Arriva settembre e il corso a cui si era iscritta, stabilisce, vista la situazione incerta, di partire on line. Neanche trovare uno stage è così facile, a Roma Sara trova solo porte in faccia.
Reclusa a casa davanti a uno schermo, Sara decide di approfittare della laurea di un'amica e di partire per Milano. E' viva Milano ad ottobre, aperitivi, feste, tanti amici, finché Sara si accorge di non sentire più gli odori. Dal timore alla certezza il passaggio è breve, così con la macchina se ne torna nella sua città natale al Sud dove la famiglia le mette a disposizione l'appartamento disabitato dello zio per fare la quarantena.
I mesi passano, Sara non è più positiva, continua a vivere nelll'appartamento dello zio, frequenta il suo corso on line e ha trovato anche uno stage: lo può fare da casa.
Una sua cara amica partirà per andare a vivere all'estero. Ha fatto il tampone, come consuetudine vuole prima di un volo e la sera è passata da lei per salutarla. Cenano assieme. La mattina dopo Sara scopre che l'amica è risultata positiva: le tocca una nuova quarantena, stavolta con tamponi tutti negativi.
Sara è di nuovo libera e domani ha un'altra festa di laurea. Vuole andarci, nonostante la famiglia sia contraria  e le abbia detto che a questo punto è meglio che non passi più da casa a trovarli.
Sara ha 24 anni, è sempre stata una ragazza in gamba. Da oltre un anno vive senza aver vissuto. Segue le lezioni attraverso uno schermo. Fa uno stage a casa, analizzando i documenti che le vengono inviati. Tutto in completa solitudine, senza potersi confrontare con persone in carne e ossa. La sera non può andare a mangiare una pizza, alle dieci ha il coprifuoco e adesso anche i genitori hanno timore a stare con lei, non tanto perché potrebbe contagiarli, lei il covid l'ha già avuto, ma perché potrebbe far finire anche loro in quarantena impedendogli di lavorare. Chissà lei quando potrà lavorare.

Quando parliamo di questi ragazzi non facciamo che ripetere che sono egoisti. Degli egoisti il cui unico interesse è fare assembramenti pur di non rinunciare all'aperitivo. Degli incoscienti che non rispettano le regole. Ma diciamocelo, in un anno che alternative abbiamo dato loro? Ce lo ricordiamo cosa vuol dire avere vent'anni? 

Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita. (P. Nizan)

martedì 24 settembre 2019

Bilancio della prima settimana di scuola, o giù di lì, secondo una madre (1)

Se per Ieie la prima settimana di scuola media non ha evidenziato granché di rilevante, vista dagli occhi di un genitore, o meglio di una madre, pare invece una fucina di scoperte e illuminazioni.
Sarà che alla fine abbiamo dovuto cedere sul cellulare e questo ha proiettato il figlio nel mistico universo delle chat di classe, sarà che comunque è un capitolo nuovo per lui come per me, fatto sta che non passa giorno che non provi stupore o una certa indignazione che mi fa tanto sentire un po' retrò, un po' superata.
Cominciamo con il telefono. A parte l'illuminante scoperta dell'applicazione di Google che consente di controllare e all'occorrenza bloccare lo smartphone del pargolo under 13, ricordandogli che dopo una certa ora l'uso del suddetto gli è vietato, la prima settimana col telefonino è andata meglio del previsto. Ieie ha sì il vizio di andare a controllare i messaggi, ma a un certo punto se ne stufa, al punto che spesso toglie la suoneria e ciao.
Ma veniamo a quello che ho scoperto osservando Ieie e la chat della sua nuova classe.
1) I ragazzini hanno l'irritante abitudine di intasare la chat di messaggi vocali. Una normale conversazione per decidere la qualunque, si sussegue a ritmo di decine di messaggini nei quali, come in un dialogo vis à vis, ognuno si inserisce dicendo la prima cosa che gli passa per la testa, intercalari ed esclamazioni comprese. Il tutto con i sottofondi più vari, dalla Tv al ruminare cibo fino agli sproloqui materni in secondo piano. Semmai qualcuno dica qualcosa di importante da ricordare, sarà impossibile rintracciare il messaggio in quel mare magnum, sempre che lo si sia ascoltato: Ieie per primo, se il vocale è lungo va avanti senza sentirlo perché, dice, ci vuole troppo tempo.
2) Una chat di undicenni è quanto di più vicino alla torre di Babele. Ognuno si inserisce con un argomento diverso mentre il precedente non è stato ancora esaurito, creando un guazzabuglio dal quale è arduo ricavare un senso. Ci sono poi i molestatori, ovvero quelli che intasano volontariamente la chat con la stessa immagine anche per 200 volte di seguito (visto con i miei occhi), rendendo la conversazione, già frammentaria, praticamente impossibile. La sensazione che se ne ricava è quella di una classe alla mercé di se stessa, che necessita di un insegnante a riportare ordine e un minimo di filo logico. Ma certo, mi si dirà, son ragazzini. Ma era proprio quello che dicevo io quando sostenevo che il telefono a questa età fosse superfluo.
3) I ragazzi usano la chat per riempire il tempo. Non sanno che fare? Messaggiano. La sera la mamma torna tardi dal lavoro (anche questo visto con i miei occhi)? Si sta a chattare finché non arriva. Ovviamente spesso e volentieri non hanno nulla da dire, il che rende l'ascolto dei 580 messaggi che uno si ritrova sconcertato, al mattino, mortalmente noioso.
La verità è che non hanno la più pallida idea di quello a cui serve un telefono. Per questo, quando lo scorso anno uno scolaro chiamò le forze dell'ordine nel corso del dirottamento del suo scuolabus, fu oggetto di così tanti elogi. A colpire non fu il fatto di aver avuto la freddezza di fare la chiamata, quanto che avesse capito a cosa servisse veramente un cellulare.
4) Le ragazzine sono peggio dei maschi. Perché questi sono ancora ingenui bamboccioni, mentre loro già si fanno le foto in pigiama, sul letto, con la bocca a papera, chiedendo quanto sono belle (visto anche questo). Fa un po' tristezza vedere come siamo scese in basso, che poi per carità, le foto in pigiama, o mentre ballavamo, ce le facevamo anche io e le mie amiche, per ridere, ma erano foto fatte col rullino e quindi ce n'era una copia sola e non doveva assolutamente essere mostrata ad altri, che altrimenti ci saremmo sotterrate per la vergogna.
C'è da dire che i maschi, al momento più attratti dalle notizie di calcio che da immagini femminili, non paiono dare il minimo riscontro a queste foto. Resta il fatto che chi le manda costruisce un'immagine di sé, vera o falsa che sia, che le rimarrà appiccicata anche in futuro.
5) I ragazzi non sanno cosa si può o non può fotografare. L'altro giorno ho dovuto bloccare Ieie che stava per immortalare la sorella mentre, in farmacia, le facevano i buchi alle orecchie. Nulla di sconveniente, per carità, ma non c'era necessità di registrare un momento comunque personale e che, tra l'altro, non meritava di essere divulgato. 
6) Cari genitori, attenti a quello che scrivono i nostri figli, perché come niente ci fanno fare una bella figuraccia. Come la mamma che ha sbagliato a cliccare la sezione al momento di ordinare i libri si testo su Internet, notizia che la figlia ha reso di pubblico dominio sulla chat, senza malizia, ma solo per chiedere le foto dei titoli corretti. Ora però tutti sanno del pasticcio combinato dalla signora che, magari, avrebbe fatto a meno di balzare agli onori della cronaca scolastica.
7) Nelle chat della classe i ragazzi si dividono in due categorie. Quelli che scrivono in continuazione e a tutte le ore e quelli che scrivono solo se hanno qualcosa da dire o da chiedere.
E da questa dicotomia, a mio avviso, ognuno può trarre le sue conclusioni.

giovedì 4 aprile 2019

Breve (si fa per dire) dissertazione sulla musica di oggi

Ultimamente, ascoltare musica alla radio risulta essere fonte di nervosismo piuttosto che di piacere. Le canzoni si susseguono uguali, monocorde, voci indistinguibili con ritmi tutti simili.
Mi sento un po' come mia nonna quando criticava i cartoni della mia infanzia perché ripetevano sempre "maledizione" e "dannazione", se non fosse che mia nonna era tutt'altro che il prototipo della vecchia bigotta, una lavoratrice piombata dalla Milano del secondo dopoguerra nel profondo Sud, che s'ingegnò per non rinunciare alle libertà con cui era cresciuta. A dire il vero, meriterebbe un racconto a parte. Ma, dicevamo, le canzoni.
Forse sono io che sono troppo fuori target per comprenderle, del resto i maggiori consumatori di musica sono i giovani, ed è giusto che a loro la musica si rivolga. Basterebbe questo a farci capire che contestare il sistema, sovvertire i valori, è il minimo sindacale del leitmotiv musicale. Diciamocelo, se Vasco avesse cantato il posto fisso anziché una vita spericolata, non sarebbe diventato Vasco, e del resto anche Venditti guardava con terrore all'idea che il suo compagno di scuola entrasse in banca (sebbene oggi, Zalone docet, il posto fisso sia diventato il sogno proibito di molti).
Ora, quindi, capisco che si contesti e non me la prendo per qualche parolaccia (son cresciuta con Masini che mandava tutti a quel paese); le "donnacce" si cantavano anche ai miei tempi, seppur con un che di doloroso e poetico assieme, e non mi scandalizzano le canzoni sul sesso, anche senza amore, sebbene Venditti non sarebbe d'accordo e Nek direbbe che si può fare ma non è lo stesso. Però, ecco, a forza di alzare l'asticella mi sembra che adesso non si sappia più dove andare a parare.
I test delle canzoni di questo periodo sono di un nichilismo imbarazzante, un elogio del vuoto pneumatico spinto. Esaltazione della fama fine a se stessa, del denaro come massima aspirazione per potersi permettere non una bottiglia di Moet ma tutto il bar (e magari distruggerlo anche, tanto chi se ne frega se c'hai il cachet?), o regali griffati da regalare alla prima bellona vistosa, disposta per questo a concedersi su due piedi.
I testi sensuali ci son sempre stati, si pensi a Danza sul mio petto di Antonacci, ma a quanto pare anche la metafora erotica è roba da museo. L'amore, ai tempi della musica di oggi, non solo è sesso fine a se stesso senza coinvolgimento e multipartner (e magari nel letto dei genitori giusto per sottolineare la giovane età dei protagonisti), ma è la morte civile di ogni sentimento, è, senza peli sulla lingua, solo scopare accompagnato da volgari giochi di parole, giusto per togliere ogni velleità di romanticismo. In più di un testo, uomini sognano grosse auto di lusso su cui far aderire il prosperoso posteriore della belloccia che li accompagna. Purché la signorina abbia una data di scadenza, perché tanto con lei due minuti e poi si arriva al dunque e quindi che non si sogni di essere richiamata, che d'altronde lui c'ha già pronto il rimpiazzo.
Trovo queste canzoni non solo di un maschilismo sfrenato, ma umilianti e offensive per il pubblico femminile. Foriere, a mio avviso, di una mentalità pericolosa.
Diglielo di usare un linguaggio giovane/Dillo a certa gente dai quaranta in su
cantava Ramazzotti, che in più di una hit ha parlato di conflitto generazionale, di incomprensioni con gli adulti (Ciao pa', Un cuore con le ali), rivendicando il diritto di seguire la propria strada e magari anche sbagliare. Ma qui siamo oltre, dimentichiamo la contestazione, adesso c'è solo un desiderio nichilistico di distruzione, magari guidando un meteorite sulla folla, per provocare un nugolo di macerie sopra le quali cercare il numero del pusher col proprio i-phone o sognare una fine come quella di Amy Winehouse.
Questo per quel che riguarda i contenuti, che se poi si guarda al cantare, la situazione non migliora.
Che poi, parlare di canto è forse un'esagerazione perché, a parte ritornelli che ti entrano in testa con un ritmo martellante, il resto è più un racconto in "rima" (se far rimare una parola con se stessa può definirsi rima, roba che ogni volta che Mogol la sente ha un mancamento), un susseguirsi di melodie magari accattivanti, intessute di un parlato fatto da voci tutte uguali, un unico lunghissimo pezzo che pare essere stato diviso in più brani per allungare il brodo.
Per carità, non è che tutti i cantanti di noi agée fossero degli usignoli però, a cantare, almeno ci provavano, e possedevano sonorità che li rendevano distinguibili gli uni dagli altri, uno stile personale che si rifletteva in testi cuciti sulle loro capacità. Accendevi la radio e subito riconoscevi il cantante, ti veniva in mente il suo nome: oggi è difficile pure quello, perché nessuno ha il coraggio di metterci il suo, di nome (e forse su questo gli darei anche ragione).
Ora, di tutto ciò non m'importerebbe un fico secco, ho una scorta di canzoni, vere, sufficiente a dilettare i miei attempati padiglioni, il fatto è che le radio (quelle che un tempo contribuivano a diffondere la Musica), solo questo propongono e i miei figli, come la maggior parte dei loro coetanei, questo cantano allegramente, blaterando, è vero, parole a casaccio senza capire, ma comunque introiettando contenuti che faranno parte del loro background. Se si pensa poi che le nuove generazioni sono numericamente sempre più esigue e che, per campare, le etichette musicali devono reclutare pubblico fin dalle elementari, ben si comprendono le mie perplessità.
La musica è il linguaggio dei giovani, ma un linguaggio dovrebbe veicolare un messaggio e io qui non trovo nulla che valga la pena diffondere, men che meno conservare.
Sarà questa la colonna sonora della giovinezza dei miei figli? Veramente non è possibile proporre loro qualcosa che li rappresenti in maniera più costruttiva?
Due sono le cose. O i giovani di oggi non hanno ideali, non hanno una visione personale, seppure in contrasto con la nostra, da proporre e propugnare, oppure la musica leggera è morta, ma, se così fosse, e qui termino, lo prometto, sarebbe triste perché
un mondo senza musica non si può neanche immaginare.


venerdì 2 novembre 2018

2 novembre

"Chi è questa mamma?".
"Una zia del nonno, una sorella di mio nonno".
"E quella?".
"E' la zia L. non te la ricordi Ieie?".
"Me la ricordavo diversa".
"Perché negli ultimi anni era malata, ma io la ricordo così".
"E quest'altra signora che ha il suo stesso nome?".
"La mamma del nonno, mia nonna".
"E chi sono questi tre che si chiamano tutti Vito?".
"Uno è il nonno del nonno. L'altro è mio nonno...".
"Si chiamavano allo stesso modo?".
"Sì".
"Il papà del nonno è nato...nel '98!?".
"Nel 1898".
"Milleottocento!!!??? E l'ultimo Vito?".
"Era mia fratello".
"Perché non c'è la foto?".
"Perché è morto appena nato".
"Appena nato?".
"E certo Lolla guarda: 24 marzo 1980-11 aprile 1980 nemmeno un anno".
"A dire il vero, Ieie, nemmeno un mese".
"Se non fosse morto avrei uno zio".
"Già".

lunedì 26 marzo 2018

Pausa pranzo

Sono nove, affiatate, si conoscono da buona parte della loro vita. Sono giovani, qualcuna veste più sofisticata, qualcun'altra casual, ma tutte di tendenza, tant'è che indossano tutte delle polacchine.
Sedute nella luce diafana di questo marzo pazzerello, una finestra a illuminare il tavolo sul quale consumano il pranzo, chiacchierano. Di maschi. Di coppie che popolano altre stanze del posto in cui trascorrono quasi ogni mattina assieme.
"Giulio sta con Sara".
"Ma lui è più piccolo di lei".
"Già".
"E voi -  mi intrometto tra quei nomi per me sconosciuti - siete fidanzate?".
Qualcuna alza la mano, "Io sì" dice una sillabando un nome.
"No non so come fai a stare con lui - dice un'altra - io l'ho avuto vicino ed era insopportabile".
"Lascialo - sentenzia una terza - si scaccola!".
"Anche io ero fidanzata" mi rivela quella che riteneva insopportabile il fidanzato dell'amica "ma poi mi sono lasciata e ora sono single".
"Che significa single?", mi domanda la Lolla.

Sono nove, si conoscono da quando avevano più o meno tre anni e la più grande di loro sta per compierne otto. Hanno percorso già cinque anni assieme, crescendo e cambiando tra i banchi di scuola.
Sono le compagne della Lolla. Averle tutte a pranzo, e sentirle parlare, è un'esperienza indicibile. Sono piccole donne, sono la proiezione di quello che potranno e vorranno essere.

martedì 7 novembre 2017

Il litigio nell'era digitale

La preadolescenza è quel periodo in cui i rapporti con le amiche del cuore/compagne di scuola possono prendere spesso la strada dell'incomprensione, vittime di quell'amplificazione dei sentimenti tipica dell'età.
Non sono mai stata una tipa litigiosa, però ricordo come io stessa, in quell'incubatore dell'adolescenza che è la scuola media, mi sentissi ferita dalla compagna che aveva più successo con i ragazzi o mi turbassi per un'amica che sembrava prestarmi meno attenzione del solito. Me ne sono ricordata quando, qualche giorno fa, mi sono imbattuta nel racconto di una undicenne alle prede con un litigio con l'amica del cuore. Niente di nuovo, tutte cose già vissute e sentite. Quel che mi ha colpito, però, è stato notare come nell'era dei social anche un litigio assuma contorni nuovi e un po' inquietanti.
Perché la discussione, banale, per i soliti banali motivi (Io sto week end esco con un'altra amica ma tu non uscire con un'altra. E perché? Perché sì. Tu non sei più la mia migliore amica, ecc.) non si è spenta là dov'era nata, tra i banchi di scuola, ma si è trascinata a casa, tra telefonate e whats app, in un tripudio infernale protrattosi per non so quanto tempo e terminato con una delle due che bloccava il numero dell'altra (che, tra parentesi, manco sapevo si potesse fare).
Ora, io me la sono immaginata questa scena, con un telefono che fischia o trilla ogni tre per due impedendoti di pensare ad altro, la trepidazione nel leggere la risposta, l'angosciosa attesa quando quest'ultima non arriva, le telefonate che si concludono con le parole che ti muoiono in bocca mentre l'altra chiude la conversazione fino al terribile, umiliante finale di vedersi banditi.
Ai miei tempi (lo so, fa tanto mia nonna, ma ci sta tutto), una cosa del genere era impensabile. Il telefono non solo costava, ma soprattutto era "della famiglia". C'erano orari e momenti in cui telefonare "a casa delle persone" stava male e nemmeno si poteva essere insistenti ché magari la nonna, la mamma o il fratello non erano proprio felicissimi di farti da centralinista. Il risultato era che la tua rabbia dovevi farla sbollire in altro modo e il tempo e la distanza certo aiutavano, oppure dovevi attendere di rivederti a scuola per chiarire, e il luogo richiedeva pur sempre un certo contegno.
Il fatto di avere un cellulare personale, una linea diretta con l'amica, oltre ad abbattere tutte queste barriere, che è una comodità, porta a un'esasperazione dei comportamenti, in quell'età così vorticosa e strana che è la preadolescenza. Non ci sono filtri, che vuol dire che non solo non c'è nonna Amalia a rispondere al telefono obbligandoti a essere cortese ed educata, ma non ci sono nemmeno il tempo e lo spazio per far decantare i sentimenti ed evitare che quel brutto pensiero che ti è venuto in mente si traduca immediatamente in un messaggio. Così il litigio scivola veloce lungo la china dell'odio, portando a conseguenze nefaste. Essere bloccati, alla fine, non è la cosa peggiore che possa succedere, quando con i social un insulto può avere una diffusione "planetaria".
Dopo tutto, non era tanto male essere adolescenti ai miei tempi, anzi a pensarci bene era decisamente più facile. Ma, soprattutto, noi genitori analogici sapremo gestire l'adolescenza digitale dei nostri figli che è ormai dietro l'angolo?

lunedì 23 ottobre 2017

La fatica di educare

"Figli piccoli problemi piccoli, figli grandi problemi grandi" ti ripetono quando ti lamenti delle notti insonni a causa dei pianti dei pargoli appena nati, lasciandoti intendere che, checché tu ne pensi, non saranno quelle le preoccupazioni peggiori che i tuoi bambini ti daranno.
La fatica di educare, in effetti, si incontra dopo. Dopo i terrible two, dopo l'inserimento all'asilo, dopo i capricci e le sudate per spiegare la differenza tra è ed e.
Si incontra, ad esempio, quando cerchi di far capire a tuo figlio di nemmeno nove anni perché non ritieni che uscire a passeggio da solo come fanno alcuni suoi coetanei, sia una buona idea. O, peggio, perché non è opportuno alla sua età, possedere e usare un proprio cellulare per scambiarsi messaggi con i compagni, sebbene gli altri già lo facciano.
E' allora che senti tutta la fatica di spiegazioni che non sai se andranno a segno.
Perché tu puoi pensare, e dire, che i telefonini sono pericolosi per la salute dei bambini, e lo sostengono persone molto più autorevoli della mamma; che lo smartphone è un'incredibile finestra sul mondo, ma anche una porta di accesso a situazioni pericolose per un "ragazzino" di neppure nove anni; che già fai fatica a tenere sotto controllo le ore di tv e videogiochi sul tablet, perché lui non è proprio in grado di staccarsi dagli apparecchi elettronici, figuriamoci se dovesse esserci di mezzo anche un cellulare.
Soprattutto, tu puoi volere che lui conosca abbastanza la vita vera, fatta di abbracci, litigi, partite di pallone, sudore, erba fresca e vento in  faccia, prima di lasciarsi assorbire da quella virtuale. Così da non deprimersi per una misera manciata di like e da capire che i veri amici non sono quelli che affollano i tuoi social, ma quelli che ti porgono una spalla, in carne e ossa, quando hai bisogno di piangere.
Tutte queste cose possono essere spiegate con un linguaggio kids friendly, come si dice oggi, ma la verità è che ciò che resterà, sarà solo il paragone tra gli amichetti trattati ormai da grandi e se stesso, il bambino.
E quindi puoi solo prenderti il tuo pesante fardello, tenere duro e seminare e sperare che un giorno tutta questa fatica sarà stata utile. Sarà stata compresa.

P.S.
E poi è vero, è difficile per me accettare che il mio bambino non sia più tale, che sia troppo grande ormai per ricevere in dono un giocattolo, ma mi chiedo anche: se adesso esce da solo, quale nuovo traguardo si proporrà, per esempio, tra due anni?
Il discorso che i bambini di oggi sono più svegli dei loro coetanei di vent'anni fa, a me non convince. Forse saranno (ancor) più smaliziati, con più conoscenze, ma di certo non sono più maturi.
Veramente posso accettare che mio figlio talvolta si svegli ancora di notte piangendo, che non voglia restare in casa da solo il tempo necessario per percorrere i 50 metri che ci separano da scuola così da prendere sua sorella senza dover chiedere la collaborazione di qualcuno, che non sia disponibile a restare da "solo" (con la sorella) in auto mentre pago il parcheggio e poi permettergli di uscire senza un adulto?
Che c'azzecca?
C'entra eccome, perché crescere non può significare solo avere più libertà. Maggiori diritti comportano maggiori doveri e responsabilità, mi è sempre stato insegnato che le due cose vanno di pari passo: non basta credersi grandi, per essere trattati come tali.

sabato 22 agosto 2015

Amarcord

Accade che dopo un numero imprecisato di anni che hai paura a contare ché il numero a due cifre che cresce ti fa impressione, ti ritrovi a giocare a beach volley con gli amici di una vita. Non nel solito campetto dove un tempo trascorrevate gli spensierati pomeriggi estivi dell'adolescenza, e dove da anni ormai non montate più la rete, non per colpa dei bambini (stavolta), ma per motivi che nemmeno più ricordi (il lavoro? le vacanze più corte? le ferie in periodi diversi? o il porto che, chiudendo la spiaggia alle mareggiate, ha fatto sì che vi crescesse una foresta selvatica?), ma in una struttura a noleggio.
Accade che di tanti che eravate, solo alcuni rispondono all'appello poiché gli altri si sentono troppo vecchi per rinverdire i fasti del tempo che fu. Così con uno sparuto gruppo di amici, rinforzato da qualche coniuge sopraggiunto negli anni, ti lanci, è proprio il caso di dirlo, nell'avventura. E' solo un'ora, e vola via veloce, ma sul corpo lascia i segni di un intero campionato di serie A perché sì, i temerari avevano ragione, non siamo più quelli di un tempo, e il polso che ti duole per due giorni ne è la prova.
Però quell'ora di gioco, che entusiasmo!
E poi, rifare una cosa che non facevi da quando eri giovane, e rifarla esattamente come allora, ti fa capire quanto sei cresciuta, e cambiata. E, nell'ordine, ti accorgi
a) di muscoli del tuo corpo che avevi dimenticato di avere;
b) che la mente arriva alla palla, il corpo un po' meno;
c) che il tuo cuore non aveva mai avuto una frequenza così alta, nemmeno quando t'innamoravi;
d) che ci sono cose che un tempo non avresti avuto il coraggio di dire, e adesso lo fai, senza remore;
e) che sei un'adulta, perché, pur trovandoti nella stessa situazione di quando eri ragazza, vedi tutto in una prospettiva diversa.
E che ci sono amicizie che possono durare una vita.
Poi, finita la partita, raggiungi i tuoi figli alla Lega Navale del paesino, dove è in corso una festa per bambini.
E anche questo ti fa pensare. Perché in quella Lega Navale ci sei cresciuta. E' lì che hai conosciuto gran parte dei tuoi amici che hai appena lasciato, lì trascorrevi le mattinate di mare, i pomeriggi dell'infanzia a giocare a nascondino o strega comanda colori e le prime serate fuori casa da sola a raccontare barzellette e a fare il gioco della bottiglia. Poi il porto ha eliminato lo scalo per canoe e vele, ha ridotto i posti barca disponibili per i soci, ha cancellato la discesa a mare. Così, svuotata di senso e di iscritti, la Lega si è ridotta a un circolo serale per adulti di mezza età. Le giovani famiglie sono rimaste senza un posto comodo per andare a mare, senza un punto di aggregazione per le nuove generazioni.
Eppure, alla festa, t'imbatti in una cinquantina di pargoli, da 0 a 10 anni e pensi: ma dov'erano fino a oggi? Alcuni li conosci bene, altri scopri con sorpresa essere i figli di amici che hai perso di vista. Altri ancora non li hai mai visti, ma un dettaglio (un taglio degli occhi, una frangetta) ti fa capire subito chi sono i loro genitori, adulti che sono stati bambini insieme a te. 
E pensi che il cemento non si è mangiato solo il mare, la costa e i fondali con la loro flora e fauna.
S'è mangiato anche i legami umani.
La spiaggia dove giocavamo tanti anni fa
La spiaggia com'è oggi

giovedì 16 luglio 2015

Dal paesello al paesino

Ancora qualche giorno e saremo nel paesino, l'unico paese nel quale avessi mai vissuto prima di trasferirmi al paesello, ché prima di allora la mia vita si era svolta solo in città.
Molto noto per la sua posizione geografica, il paesino è una piccola località di mare che d'inverno conta circa 800 abitanti, allungati, d'estate, da una miscela di villeggianti abituali e turisti occasionali. Come ogni piccolo centro che si rispetti, annovera una serie di personaggi tipici, un po' come i caratteristi dei film italiani anni '50, che ne fanno un mix tra la Stars Hollow di Gilmore Girls e la Wisteria Lane di Desperate Housewives (e lo so che magari ci sono riferimenti più recenti, ma purtroppo i figli hanno interrotto la mia dieta a base di serie tv).
C'è il giornalaio misantropo che esulta quando la stagione balneare è al termine, perché odia la confusione portata dai turisti, e poco importa se con quel che gli fanno guadagnare campa per tutto l'anno; c'è la sua commessa musona, a lungo da noi scambiata per la moglie e quella che credevamo la suocera, o la madre, e che invece si è scoperto essere la moglie. C'è, o meglio c'era perché è venuto da poco a mancare, il proprietario dell'alimentari più vecchio e fornito del paesino, nonché titolare di svariate altre attività commerciali, una sorta di Paperon De' Paperoni locale, in tutti i sensi, che, nonostante lavorasse tanto, girava ancora con una vecchia utilitaria e con abiti che avevano visto tempi migliori. Ci sono ex pescatori ed ex marinai, ormai famosi tra noi villeggianti. Alcuni socievoli e ciarlieri, altri dalla conversazione monosillabica, ché passare l'inverno in riva al mare, con la sola compagnia dello scirocco che sferza la pelle e increspa i capelli, ha conseguenze perenni sull'umore. Ci sono le vecchiette sedute sulla panchina del lungomare, sempre le stesse, sempre la stessa, e tu a stento sai chi sono, ma loro saprebbero ricostruirti il tuo albero genealogico fino alla sesta generazione.
Perché al paesino, ci veniva già la famiglia di mio nonno materno. E forse sarà stato per quelle barche a remi che tornavano a riva cariche di pesce guizzante che, dopo aver vissuto la fame e i bombardamenti di Roma, a mia nonna, originaria di Milano, sembrò il paradiso terrestre.
Ma anche mia madre ricorda passeggiate su scogli ricchi di una fauna e una flora da esplorare. E io, nel mio piccolo, racconterò ai miei bambini di quando con le cugine si raccoglievano ciottoli colorati, conchiglie, telline, gusci di patelle e scheletri di riccio dalla spiaggetta vicino casa.
Gli scogli dove un tempo si faceva il bagno...
Oggi niente di tutto questo ha più senso. Da oltre dieci anni il megaporto turistico pieno di barche per due mesi l'anno, e con la crisi anche di meno, ha fagocitato gran parte della baia, rendendo l'accesso al mare impervio e complicato e soprattutto poco a misura di bambino.
...oggi ospitano solo barche dismesse.
In compenso adesso imperversano i tour guidati alle grotte, che hanno riempito il paesino di un turismo mordi e fuggi che tutto consuma e nulla costruisce.
La baia ai tempi di mia nonna
miei
 e com'è oggi
Io al paesino ci torno perché c'è una casa che ci aspetta e perché c'è un bagaglio di affetti. C'è l'amica T., conosciuta per caso un giorno di 29 anni fa mentre portavo a passeggio il mio cane. Allora non sapevo che mi avrebbe presentato quello che sarebbe diventato mio marito. C'è l'amico M., vicino di casa, al quale un giorno presentai un'amica e ora è sua moglie. Ci sono persone entrate per casualità nella mia vita per non uscirne mai più, con le quali, senza accorgermene, filo dopo filo abbiamo intrecciato le nostre esistenze fino a costruire una trama di ricordi. E' soprattutto per questo che torno al paesino, anche se fa male vederlo ogni anno più trascurato, involgarito e sporco. Anche se è assurdo andare al mare e non sapere come fare per scendere a mare.
Cose che vedevo dalla mia finestra
Cose che vedo oggi
Ma ai miei bimbi ancora piace. E allora spero che anche loro trovino la loro dimensione, fatta di amici conosciuti per caso, di muretti, personaggi tipici e amici di amici. Dopotutto le cose più belle arrivano quando meno te le aspetti.

Cose che vedeva mia nonna

sabato 11 luglio 2015

Vorrei cantare come Biagio

A cavallo tra giugno e luglio, Ieie è stato impegnato in un campo scuola naturalistico, tra boschi, animali selvatici, cattura di insetti, attività sportive e bagni nella piscinetta all'aperto. E' stata (credo e spero), un'esperienza piacevole, svolta assieme ad alcuni compagni di scuola che, oltre a dargli la possibilità di svagarsi all'aria aperta, gli ha permesso di rimanere in contatto con i suoi amici e di contrastare la sua indole timida sempre in agguato.
Ulteriore elemento di interazione sono stati i viaggi fatti a turno da uno di noi genitori per prendere o portare i bambini. Sebbene la mia macchina adesso somigli a una discarica di terra, aghi di pino e foglie varie (e non vedrà un autolavaggio fino a settembre, perché negli ultimi giorni stiamo aggiungendo la sabbia a questo miscuglio), quella di fare da autista a una combriccola di quattro sei-settenni sudati e scalmanati è stata un'esperienza antropologicamente interessante, soprattutto per una come me che, da bambina, viveva in un mondo fatto prevalentemente da amichette e cuginette.
Ho potuto infatti constatare che nell'universo maschile esistono degli evergreen, ovvero, il gioco del calcio ("Forza Milan!" "No, forza Juve!", "Inter schifo"), menarsi e prendersi in giro, fare a gara per chi è più bravo/intelligente/forte, ecc.
Ho inoltre potuto effettuare un'analisi musicologica dei sei-settenni di oggi. Quando Ieie ha messo tutto fiero le canzoncine che lui e la Lolla amano ascoltare in auto (ovvero musiche Disney e dello Zecchino d'oro), i suoi compagni gli hanno fatto notare che sono da bambini piccoli (ma và, e voi che siete? avrei voluto chiedere).
Invece, mentre Ieie ribatteva fiero che lui non è un bimbo piccolo, ho chiesto agli altri che musica ascoltassero.
"A me piace il rock", ha risposto il primo.
"C'è qualche cantante che preferisci?" ho domandato curiosa.
"..."
"A me piacciono Moreno e Biagio Antonacci" è intervenuto il secondo, il più grande di tutti, sette anni nuovi di pacca.
"Anche a me Moreno e Biagio Antonacci" ha ripreso il primo.
"Pure io Moreno e Biagio Antonacci" ha concluso il terzo.
Da questa breve conversazione sono emerse alcune riflessioni:
1) Oggi come ieri, in ogni gruppo c'è sempre un leader, più o meno consapevole del suo ruolo. Nessuno lo ha designato in maniera esplicita, ma tutti lo seguono quando propone, detta mode e tendenze, definisce le regole di un gioco.
2) Ogni generazione cresce più in fretta della precedente. Io e le mie amiche siamo andate avanti a compilation di Fivelandia fino ai dieci anni, oggi è già tanto se le ascoltano all'asilo.
3) Non so se mio figlio sia molto ingenuo o molto sicuro di sé. In ogni caso si candida a seguire le mie orme come bambino che sceglie quello che gli piace, anziché quello che piace al gruppo. Speriamo non ne soffra.
4) A quanto pare Biagio Antonacci sta alle nuove generazioni come Lucio Battisti stava alla mia. E questa non me la aspettavo.