mercoledì 26 novembre 2025

Dracula - l’Amore perduto: la nostra recensione della nuova incarnazione cinematografica del vampiro scritto da Bram Stoker, firmata questa volta da Luc Besson e con il volto di Caleb Landry Jones

La storia è nota e riprende molto da vicino le pagine di Stoker, ripercorrendo una visione estetica/simbolica vicina a quella di Francis Ford Coppola e lontana dalle produzioni vampiriche Hammer. L’occhio e il cuore di Besson però vanno altrove e scelgono di rileggere la materia nella chiave estetica e crepuscolare del fumetto europeo: attingendo a piene mani dalle atmosfere satiriche, barocche e sovraccariche  delle opere di JodorowskyMoebius, ma soprattutto dalla “favola medioevale amara”, Thorgal di Jean Van Hamme (lo stesso autore di Valerian).   

Su una scena sfavillante ma polverosa (una “polvere nobile” che ricorda le prime scene del Gattopardo), il mito del vampiro torna “fantasma” del potere aristocratico nel medioevo passato alle prese con l’epoca dei lumi dell’età moderna. Un Dracula autentico iconoclasta (in senso “molto più che figurato”, già dalle prime scene) che mette da parte armature lucenti e abiti polverosi di un potere secolare/morale ormai fuori moda e accoglie qui, come sua nuova casa, una Parigi “rinnovata e illuminata” da una “nuova cattedrale” edificata proprio per l’esposizione internazionale: la torre Eiffel

Un’opera simbolo di una Parigi moderna, sfavillante e inclusiva, per un Dracula ugualmente moderno. 

Un “succhiatore di sangue” per necessità, pragmatico e concreto: uccide di mala voglia per questioni di sopravvivenza genetica e senza particolari vanti. Una creatura che predilige nella caccia usare le arti di seduzione e consenso  (come un profumo che porta all’euforia dionisiaca/cannibale, che pare uscire da un romanzo di Suskind) più che sguainare denti aguzzi. Un uomo che sa mettersi in gioco sul piano emotivo, che con lucidità vuole indagare su se stesso e sul significato più profondo della sua esistenza/condanna di non morto. Un Dracula che combatte Van Helsing (Christoph Waltz) non con le trasformazioni e canini sguaiati ma impostando un dialogo intellettuale, quasi psicanalitico, sul senso della fede e sul valore delle relazioni umane. E in questa pellicola Van Helsing  non è più “solo” il classico “uomo di scienza”, ma anche un “sacerdote” che si affaccia al pensiero freudiano.

Dracula ammette di essere stato un giovane “sanguinario per motivi di stato”, è consapevole della sua forza ancora devastante, ma ora agisce quasi solo per difesa. È pure un ottimo datore di lavoro per gli inservienti del castello tra i Carpazi e quasi una sorta di “padre” (aspetto originale e molto interessante) per un piccolo esercito personale di buffi bambini sperduti / gargoyles che sembrano usciti dall’Isola che non c’è.  

È un Dracula che ha a cuore i “freak” e gli emarginati, che teme solo l’ipocrisia. Soprattutto, a differenza del Nosferatu di Murnau e poi di Eggers, è un “principe delle tenebre” che non fugge come Kriptonite dall’amore. Un innamorato che esprime nel senso più moderno, quasi “femminista”, un sentimento sincero e non possessivo per la sua eterna compagna (Zoe Bleu): comprendendone intimamente paure e dubbi, riconoscendone sempre il punto di vista, lasciando libertà e autonoma sottraendosi da qualsiasi vecchia manipolazione narcisistico/vampirica.


È un Dracula del 19simo secolo che già si adatta benissimo al 21esimo, ma tuttavia rimane, anche e ancora, un “mostro”. Il più eccentrico, terribile e pericoloso dei combattenti: per la narrazione illuminista di Van Helsing geneticamente “frutto di una specie nuova”. Una creatura dall’aria dolce quanto sinistra: a partire da occhi intensi, profondi e a tratti febbricitanti come quelli di Klaus Kinsky, ma che appartengono al bravo 
Caleb Landry Jones

Un Jones, già protagonista per Besson nel bellissimo Dogman, che ormai è diventato per il regista francese la  sua “massima ispirazione”, come lo fu per Kevin Smith il compianto Michael Parks (Red State, Tusk). Besson cuce tutto Dracula intorno al talento di Jones e lui sa ripagarlo indossando il ruolo con enorme disinvoltura, esprimendo in modo teatralmente grandioso quanto umanamente sincero la complessità d’animo e la fisicità, affascinanti e al contempo distorte, di un Dracula che ancora non avevamo incontrato. 

Il film diventa subito per Jones un “one-Man show” come lo era stato Dogman, con lui che da autentico vampiro sa divorare letteralmente ogni scena: ammaliando e commuovendo.

A parte un serafico Christoph Waltz che a tratti sembra un disilluso Django di Franco Nero e a tratti sfoggia un sorriso da Terrence Hill, gli altri uomini sulla scena sono quasi macchiette, a partire da un Jonathan Harker con l’aria buffa da venditore di pentole che gli dona l’attore Ewens Adib: forse felicemente vicino al modello del Fracchia contro Dracula. Sul lato femminile della pellicola la Elizabeth/Mina di Zoe Bleu “convince”, ma è soprattutto la vampira Maria de Montebello della nostra brava Matilde De Angelis a “conquistare la scena”. Una De Angelis che fissa voluttuosa chiunque come un gatto sornione, mentre sorride e gioca con i suoi canini da vampira in modo sensuale, facendoci ballare intorno la lingua come fossero pali da lap dance. Un puro concentrato di passione, solare e autoironica. Una donna dall’animo indipendente e sarcastico: tutto fuorché ripercorrere il ruolo della “vittima designata” già vista in troppi adattamenti di Dracula. 


Suo lato dello spettacolo Besson guarda invece molto al cinema per ragazzi del passato. 

L’azione è sempre concitata, ma mai centrale o troppo sanguigna. Il passo narrativo e visivo scelgono di cavalcare il romanticismo, proprio citando i fumetti europei, ma anche il fantasy anni ‘80 di pellicole come Legend, Lady Hawk (e se vogliamo Fantaghirò). Le scene di cappa e spada con protagonista l’armatura del giovane Dracula Dragone appaiono invece lucenti e scintillanti come quelle dell’Excalibur di Boorman.

C’è una colonna sonora firmata da Danny Elfman potente, gioiosamente pomposa e altisonante, come quella che il compositore aveva confezionato per L’armata delle tenebre di Raimi.

C’è l’horror, lo splatter, ma solo nelle parti ineludibili dal racconto originale. Come solo in parte alla fine si confermano similitudini e simmetrie visive e narrative con il Dracula di Coppola. 

È un Dracula decisamente diverso dal solito, che può anche per questo lasciare parte del pubblico spiazzato, ma che sentiamo di amare anche al di là dei suoi difetti. Difetti come un ritmo a tratti blando, scenografie a volte fin troppo “polverose”, personaggi a tratti poco a fuoco come il gruppetto degli “Ammazzavampiri” e un conflitto finale, quasi dalle parti della fotografia fredda del Dottor Zivago, che funziona forse di più sul piano simbolico che su quello dello “spettacolo”. 

Ma quando il Dracula di Caleb Jones fissa la camera e per questo tramite arriva ai nostri occhi, sa davvero ipnotizzarci.

Talk0


lunedì 17 novembre 2025

Chainsaw Man - La storia di Reze: la nostra recensione del romantico e super splatter film dello studio di animazione MAPPA, che racconta l’arco narrativo seguente alla prima stagione dell’adattamento cinematografico del manga dark fantasy di Tatsuki Fujimoto.



Premessa

Il film si colloca cronologicamente dopo i 12 episodi della prima stagione della serie animata (che si possono trovare in streaming su Crunchyroll e in home video da Anime Factory), ma presenta un arco narrativo che possiamo considerare quasi del tutto autonomo e autoconclusivo. 


Un piccolo ripasso 

In una Tokyo distopica dei giorni nostri. pervasa dalla violenza e dalla disperazione, sembra che il mondo terreno e inferno siano luoghi sempre più “vicini”, con esseri umani e diavoli che convivono ormai a strettissimo contatto. Tra contratti “faustiani”, esperimenti genetici che mischiano sangue di angeli e diavoli creando creature ibride, demoni che si nascondono nel corpo di persone di potere, i concetti di bene e male qui più volte si confondono e nascondono.

Per ripagare i debiti contratti con una associazione malavitosa dai propri genitori, il giovane e ingenuo Denji è ormai ridotto ai margini della società, quasi alla stregua di un animale. 

Privato sistematicamente di ogni tipo di affetto e socialità, contento del solo fatto di “avere un tetto e poter mangiare qualcosa di buono a fine giornata”, viene costretto con la forza a occuparsi della caccia ai diavoli che si contendono il potere del territorio con la yakuza. Un giorno Denji incontra sulla sua strada un piccolo e tenero cane/diavolo di nome Pochita. Una creatura quasi simile a un Pokémon, ma grado di far emergere dalla sua testa una terribile motosega. I due hanno fin da subito l’impressione di essere molto simili e decidono di non combattersi, di diventare amici, magari “partner di lavoro”. Per un po’ funziona, ma in un mondo che non ammette alcun tipo di smancerie, dove la tragedia è la corruzione sono sempre dietro l’angolo, Denji viene presto tradito e ucciso in un modo brutale quanto “indifferente”. Pochita, in un disperato tentativo di riportarlo in vita, sceglie di sacrificarsi e fondersi con lui in un unico nuovo corpo. Da allora Denji, tirando una catena che pende dritta dal suo cuore, si può trasformare nell’uomo motosega: un giustiziere quasi indistruttibile, in grado di ricomporsi dopo ogni sventramento e di sprigionare da ogni parte del suo corpo, testa compresa, delle terribili e affilate motoseghe. Una mutazione durante la quale anche il carattere del ragazzo sembra cambiare profondamente: rendendolo di colpo scurrile, pazzo, crudele e inarrestabile. I diavoli iniziano a tremare al solo sentire il suo nome e il suo talento viene presto notato dai tutori dell’ordine. Con la prospettiva di “un vitto e alloggio migliore”, Denji si arruola felicemente come Devil Hunter dell’Ufficio 4 di Pubblica Sicurezza, sotto la guida della misteriosa Makima. Una unità speciale creata per trovare e distruggere il terribile Diavolo Pistola.  Makima è manipolatoria, sfuggente, nasconde enormi quanto oscuri segreti. Ma “l’imperterrito ingenuo” Denji si innamora di lei al primo istante, come di fatto “al primo istante” si innamorerà in pochi istanti di ogni ragazza prosperosa che si avvicinerà a lui. Questa “cosa delle ragazze” dall’arrivo alla quarta sezione sembra interessargli quasi di più di un vitto e alloggio decenti. 

Makima decide di assegnare a Denji un appartamento in condivisone con due suoi colleghi di lavoro: il riservato Aki e la violenta Power. Il primo ha stipulato patti con vari Diavoli che deve continuamente gestire con freddezza e quasi paranoia. La seconda ha spesso in corpo del sangue di diavolo che ne altera l’umore, rendendola di fatto una irritabilissima mina vagante. Questi due pazzi sono per Denji a tutti gli effetti la cosa più vicina a una famiglia che abbia mai avuto. Ma soprattutto, con qualche “piccolo sforzo”, questo “momento fortunato” può essere la sua prima e unica occasione di vivere una vita normale. Il segreto sta tutto nel riuscire a sopravvivere, con i poteri di Chainsaw Man, a centinaia di scontri mortali con creature sempre in grado di radere al suolo interi quartieri in pochi minuti.  



Sinossi

Dopo una serie infinita di spettacolari quanto tremendi scontri con entità terribili come il Diavolo Pomodoro, il Diavolo Zombie, il Diavolo Pipistrello, il Diavolo Sanguisuga, il Diavolo Fantasma e altri, Denji ha finalmente ottenuto il suo primo, agognato incontro galante con la misteriosa Makima. Una intera giornata al cinema, per vedere di filato tutta la programmazione disponibile e parlarne nelle pause caffè tra una proiezione e l’altra. Dai film horror ai romantici, dai drammatici alla fantascienza, tutti sparati uno via l’altro. Seppur costantemente stimolata dalla visione di storie di tutti i tipi, Makima come sempre non tradisce la minima emozione. Denji cerca di osservarla per scorgere qualcosa ma è tutto impossibile, tutto è “super misurato”: Makima rimane un “muro emotivo” al punto di non renderlo capace di capire se l’incontro stia andando effettivamente bene o male. Ma visto che Denji è un tipo super positivo, alla fine propende che tutto sia andato bene. 

Quando  i due si separano sta per iniziare un piccolo temporale e un Denji “super zuppo” trova un riparo di fortuna in una cabina telefonica. In quella stessa cabina, pochi minuti dopo, irrompe Reze.

È bellissima, solare e divertente. Al primo sguardo sembra già innamorata persa di Denji e questo atteggiamento travolge il ragazzo in un modo nuovo, che prima non aveva mai sperimentato e ora gli fa battere forte quel cuore da cui pende la catena di una motosega a benzina.

È una ragazza di origine straniera che lavora in un bar poco distante, proprio a un paio di curve dalla cabina, dove si  servono un caffè e dei piatti cattivissimi. Il posto si chiama “Il Confine” e Denji, nonostante il pessimo menù, inizia a frequentarlo il più possibile, cogliendo l’occasione di ogni pausa pranzo, dopolavoro, mattina presto.  

Alla quarta sezione le cose vanno bene, nonostante l’arrivo non richiesto di un nuovo stranissimo partner di nome Beam: un rompiscatole ossequioso fino a essere molesto, ma in grado di trasformarsi in una utilissima specie di squalo/ragno in grado di scalare i palazzi in verticale. Mentre la pista del Diavolo Pistola prosegue a rilento, si fa sempre più  molto confusa e “apocalittica”, Denji ha in testa altro. 

Nonostante abbia giurato di poter amare solo ed esclusivamente la freddissima e anaffettiva Makima, nonostante pure Power ogni tanto lo solletichi e in fondo lo solletichino un po’ tutte le donne che vede, Reze lo ha conquistato. Denji lo ha capito prima ancora di saperlo, come era successo con Pochita: tra lui e Reze ci sono tantissime cose in comune. Tantissimi rimpianti soprattutto: come non aver mai potuto avere una adolescenziale “normale”.

Insieme sono andati così una notte nella vicina scuola, per poter almeno immaginare per la prima volta quella “normalità” che non hanno mai potuto sperimentare, tra i banchi e le lezioni di giapponese, l’ora di nuoto, le pause pranzo sul tetto dell’edificio. Una notte infinita quanto bellissima, splendidamente “normale” in un mondo di Diavoli. 

Ma non erano soli. 


I Diavoli avevano ingaggiato per l’eliminazione del Chainsaw Man un killer di Devil Hunter caro, veloce, affidabile quando spietato. Un maestro del travestimento e delle lame che non si sarebbe fatto scrupoli nel seminare con sangue di innocente interi palazzi, pur di arrivare alla sua preda. 

Mentre Denji quella sera appare sempre più confuso dagli strani effetti che l’amore gioca nella sua testa per la prima volta, facendolo oscillare tra sogni erotici, mille ripensamenti, sincero romanticismo e nuovi sogni erotici, il killer ha già nel mirino Reze, che si è assestata da lui solo per un attimo. Ma chi sarà alla fine, tra i due, la vera vittima? 

Forse Reze e Denji sono davvero molto più simili di quanto il ragazzo sospetti. Il Chainsaw Man, tutta la sezione 4 di Pubblica Sicurezza e l’intera Tokyo dovranno presto avere a che fare con un incubo di devastazione totale per mano del terribile Diavolo Bomba e del Diavolo Tifone.


Tatsuki Fujimoto, un grande autore pulp

Nato nel 1992 a Nikaho, nella prefettura di Akita, Tatsuki Fujimoto si dice abbia iniziato a dipingere con pittura a olio fin da giovanissimo. Già nel 2011, tre anni prima del conseguimento della laurea in disegno occidentale presso l’università di Tohoku, era attivo nelle produzioni di opere brevi che realizzava in pochissimo tempo, anche nell’arco di una sola giornata. La celebrità arrivò nel 2018 con l’inizio della serializzazione dell’opera in otto volumi Fire Punch (edito in Italia da Planet Manga) e continuò nel 2018 con l’inizio della sua opera più lunga, Chainsaw Man, che presto divenne un successo internazionale sancito anche dalla produzione di una serie animata realizzata da MAPPA. In un’intervista del 2022 Fujimoto ha dichiarato di ispirarsi per i suoi lavori allo stile narrativo dei film d’azione, dall’Indonesiano The Raid  del 2011 al coreano The Chaser, diretto nel 2008 da Na Hong-jin. Pellicole in cui non esiste mai una netta demarcazione tra bene e male, in cui anche i protagonisti sono carichi di forti contraddizioni morali che li perseguitano durante tutta la vicenda. Contraddizioni morali, spesso legate a un sottobosco criminale carico di nichilismo e autoironia, che si ritrovano spesso anche nei lavori di un regista giapponese che Fujimoto stima particolarmente: Takashi Kitano. Un’altra passione dell’autore sono i film horror carichi di autoironia, come il mitico e divertentissimo crossover tra Ringu e Ju-Oh del 2016: Sadako vs Kajako

Tutte influenze che si possono ritrovare in Chainsaw Man: un’opera che mischia il soprannaturale con vicende legata al mondo della malavita, ambientato in un contesto sociale pieno di disperazione ma anche di autoironia. 

Da fan dello studio MAPPA, considerando che ha sempre visto la sua opera vicina alle atmosfere di Dorohedoro e Jujutsu Kaisen, Fujimoto è stato subito entusiasta all’idea dell’adattamento animati di Chainsaw Man. Per lui MAPPA, con il suo stile ricercato e dinamico, avrebbe potuto espandere al meglio le scene d’azione più estreme e truculente che lui era riuscito solo ad accennare nel manga. 



Lo Studio MAPPA

Fondato nel quartiere Suginami di Tokyo nel 2011 dal produttore e  co-fondatore del celebre studio Madhouse Masao Maruyama, lo studio MAPPA, famoso per i suoi reparti di animazione in computer grafica e tecnica mista, in breve tempo è diventato uno dei principali nomi di riferimento nel settore. Famoso per opere come Terror in Resonance, Vinland Saga, Dorohedoro e l’ultima stagione de L’attacco dei giganti, lo studio ha aperto la sua attività proprio in supporto a Madhouse, con il film di Sunao Katabuchi In questo angolo di mondo ( edito anche da noi da Dynit). Dal 2016 la direzione dello studio è passata a Manabu Otsuka, prima dipendente dello studio 4C. Per il film di Chainsaw Man, la cui lavorazione è stata annunciata nel dicembre del 2023, sono stati riconfermati gli animatori che si sono occupati della serie tv, compreso il compositore della colonna sonora Kensuke Ushio (Space Dandy, Dandadan, Devilman CryBaby).

Il tema musicale del film, l’adrenalinica Iris Out, è stata realizzata da Kenshi Yonezu. Nei titoli di coda la malinconica Jane Doe, composta da Yonezu insieme a Hikaru Utada.



In Sala

Lo studio MAPPA, il regista Tatsuya Yoshihara e lo sceneggiatore Hiroshi Seko (tra i suoi lavori Vinland Saga, Jujutsu Kaiser, Dorohedoro, Mob Psycho 100,  il prossimo già attesissimo Rooster Fighter), aiutati da un team di prim’ordine, hanno dimostrato in questo film di aver colto a pieno tutta la dirompente e disperata poetica di Fujimoto. L’arco narrativo di Reze offre una perfetta sintesi dell’anima tormentata del manga originale: momenti di tenerezza e dramma frutto di una caratterizzazione non banale del mondo narrativi e dei personaggi che lo abitano, seguiti da concitate quanto folli scene d’azione dal sapore a tratti psichedelico, in cui tutto si fa vorticoso come sulle montagne russe, con così tanto splatter ed esplosioni che i palazzi sembrano progressivamente colorarsi di secchiate di sangue.   

Anche quando non si parla delle bellissime scene d’azione “a rotta di collo”, cariche e a volte pure “sovraccariche” di personaggi folli, in cui la computer grafica sa colorarsi di schizzi cromatici quasi dipinti con una audacia da pop art, Chainsaw Man non fa sconti alla sua voglia costante di estremo. Le scene sentimentali più romantiche (quasi eteree, come l’adolescenza raccontata da Madhouse nell’anime tratto dal manga Beck) non hanno paura a trasformarsi in esplicitamente erotiche (stile l’Egawa più “anarchico” di Golden Boy). Scene quasi sarcastiche (come quelle con protagonista l’Angelo/Diavolo, un comprimario molto interessante), con una punta quasi di orgoglio non hanno vergogna a lanciare invettive di stampo “politico” (spesso incentrate sul modo in cui troppo spesso una società sceglie di “rimanere immobile”, pur disponendo di poteri incredibili). Denji quanto Reze appaiono sul grande schermo speculari quanto complicati, anti-eroi meravigliosi alla ricerca di un dialogo (im)possibile in un mondo in cui tutti devono urlare e ogni cosa deve esplodere. Ci si affeziona infine a entrambi, anche perché entrambi si divorano giustamente da soli tutta la storia e la scena: Aki, Power, Makima e forse pure il folle ed esageratissimo Beam, giocano un po’ in panchina pur ritagliandosi dei momenti sfiziosi. 

Il film descrive un bellissimo balletto a due: un amore che si fa lotta, che si fa ideale, poi disillusione/rivoluzione, poi forse ancora amore. Alla fine del balletto di Reze e Denji, come la poetica di Fujimoto impone, si esce dalla sala con un rospone amarissimo in gola. Ma contenti di aver insieme a loro ballato e imparato a nuotare in una piscina all’aperto sotto la pioggia, per poi aver ricoperto un’intera Tokyo di una pioggia rosso sangue/passione, come se tutto il resto del film fosse destinato a tramutarsi in un Jackson Pollock (ho già detto di quanto è bella l’animazione “pittorica” degli scontri?).


Conclusioni

Il film di MAPPA è una gioia per i fan della serie, ci è piaciuto tantissimo e ve lo consigliamo anche se non conoscete Chainsaw Man, ma siete comunque amanti del cinema horror orientale più estremo, delle atmosfere dark fantasy e delle storie d’amore maledette. 

Tanto il comparto narrativo che quello visivo sono ai massimi livelli e poter godere di animazioni di questa caratura sullo schermo gigante di un cinema è davvero molto appagante, un'esperienza unica. 

Certo a parte Reze e Denji gli altri personaggi sulla scena potrebbero apparire un po’ oscuri o oscurati, ma su Crunchyroll o in home video con Anime Factory è possibile recuperare tutti i 12 episodi da 24 minuti della prima serie, vedendoli comodamente in una piccola maratona.

Preparatevi a esaltarvi, ridere e a commuovervi nello stesso tempo, con il perfetto sincronismo che si ricerca da una delle migliori pellicole animate che si possono vedere in sala. 

Talk0







martedì 21 ottobre 2025

Black Phone 2: la nostra recensione del nuovo capitolo della saga horror di Scott Derrickson, con protagonisti Mason Thames, Madeleine McGraw e Ethan Hawke, basato su un racconto di Joe Hill

Premessa 

C’era una volta un rapitore di bambini che la stampa locale aveva soprannominato “il Rapace” (in originale “The Grabber”, impersonato da Ethan Hawk). Operava in una America dei primi anni '70, depressa e carica dei fantasmi del Vietnam, dalle parti di una piccola e sonnacchiosa Denver di periferia, dove da poco era arrivato nelle sale Non aprite quella porta

Il Rapace aveva già fatto scomparire alcuni ragazzini i cui volti ormai capeggiavano in bianco e nero ovunque, dai manifesti ai bordi delle strade ai cartoni del latte, oppure sulle prime pagine dei giornali locali consegnati a domicilio la mattina presto da un ragazzino in bici. 

Mentre la polizia brancolava ancora nel buio, la piccola Gwen (Madeleine McGraw) giurava di vedere il Rapace nei suoi sogni, aiutata dalle preghiere. Una facoltà ereditata dalla madre, che forse stava rovinando anche la sua vita, ma che la polizia locale riteneva molto utile per le sue indagini. Gwen nelle visioni vedeva il Rapace vestito di nero, con un mantello e un cilindro da prestigiatore, il volto coperto di bianco da una maschera strana o dal cerone. Lo sognava portare i ragazzini in un luogo oscuro pieno di palloncini neri e gas anestetico. Da lì non tornavano più. Aveva già riconosciuto tra le sue prede anche dei compagni di scuola del suo timido e introverso fratello Finney (Mason Thames). Uno di loro era Robin (Miguel Mora), il suo migliore amico. Non avrebbe mai immaginato che presto proprio Finney, che lei ogni giorno difendeva dai bulli come una leonessa, si sarebbe trovato da solo, nelle mani di quel mostro, rinchiuso in uno scantinato spoglio di cemento, insonorizzato. Con solo un materasso logoro per giaciglio e un piccolo finestrino sbarrato per far entrare la luce del giorno. La porta blindata sarebbe stata sempre aperta, ma come “trappola”: solo perché al piano di sopra il Rapace restava in attesa che il ragazzo tentasse la fuga, facesse il “bambino cattivo”. Solo così, secondo le sue “regole”, avrebbe potuto punirlo fino a ucciderlo. Come gli altri. Ma Finney era davvero un “bambino troppo bravo”, forse nemmeno in grado di tentare di scappare. Essere stato per tutta la vita “una vittima”, dei bulli e di recente di un padre violento e perennemente ubriaco (Jeremy Davies), poteva forse ironicamente allungare la sua sopravvivenza in quel buco. Certo non all’infinito. 

Ma proprio al fianco del materasso di Finney, c’era un telefono nero. A muro, con cavo arricciato estendibile, trillo metallico, “vintage”: un cimelio rimasto forse dimenticato dalla precedente proprietà, ma prontamente silenziato dal Rapace con un netto taglio del cavo. Mutato per sempre, come chi entrava in quel sottoscala. Tuttavia ogni tanto, forse per uno scherzo dell’elettromagnetismo, paranoia o per colpa di terribili poteri ereditati dalla madre, quel telefono Finney lo sentiva suonare. All’altro lato della cornetta, le voci ovattate delle precedenti vittime del Rapace. Sussurrate o urlate, spesso confuse, arrabbiate come si conviene alle voci dei fantasmi. Ma più spesso intenzionate a spronare il ragazzino a non fare la loro fine, fuggire da quella cantina. Pronte a  suggerirgli vie di fuga, strategie e fallimenti che loro stessi avevano tentato. Come a poche miglia di distanza Gwen stava suggerendo alla polizia nuovi posti in cui cercare il fratello, guidata dai sogni e forse dalla fede. 

Ma tutto questo non sarebbe bastato, se  Finney non fosse riuscito ad affrontare quel demone seduto al piano di sopra. Rinunciando all’etichetta di “vittima”, che la società gli aveva cucito addosso e lui troppo spesso aveva indossato. 


Sinossi

Finney (Mason Thames) ha affrontato il Rapace e vinto, ma la terribile esperienza lo ha segnato. Siamo nel 1982, vanno di moda i Duran Duran e presto saranno a Denver con i biglietti già esauriti. Sono passati quattro anni e il ragazzino timido che doveva costantemente essere difeso dai bulli si è trasformato in uno che li picchia per primo, una specie di giustiziere, stimato ma più spesso temuto. Una trasformazione che Robin, che sempre lo spronava a reagire, avrebbe comunque apprezzato. Ma Finney non ha più voluto avere niente a che fare con il paranormale. Quando si trova davanti a strani telefoni che squillano tira dritto o risponde “avete sbagliato persona”. Sua sorella Gwen (Madeleine McGraw) crescendo non è più un “maschiaccio”, si è ingentilita e ha forse trovato il ragazzo ideale: il fratello di Robin e amante dei Duran Duran, Ernesto (Miguel Mora in questo film torna interpretando Ernesto, dal carattere opposto rispetto a Robin). Continua però ad avere strani sogni, durante i quali ha iniziato a spostarsi anche molto lontano da casa, in stato di trance. Durante l’ultimo sogno si è spinta fino allo scantinato che era del Rapace, attirata dal trillo del telefono nero. Aveva sollevato la cornetta e parlato con Hope, sua madre, scomparsa in circostanze tragiche 7 anni prima. Solo che la voce al telefono era più giovane di come la ricordava. Era la voce di una ragazzina che chiamava sotto la neve da un telefono pubblico nero del 1957, davanti a un lago ghiacciato, a pochi metri da un campo invernale per ragazzini cattolici tra le Montagne Rocciose. Per trovare risposte e forse un lavoro temporaneo, Gwen, Finney ed Ernesto faranno domanda come educatori per quella colonia invernale.

Dopo un lungo viaggio tra le zone più impervie e isolate del Colorado, tra fitti boschi e tornanti di montagna stile Shining, arriveranno in una struttura ancora deserta, in allestimento, sorvegliata solo da alcuni guardiani e riscaldata da piccoli vecchi generatori elettrici a fianco delle brande di legno. 

Una struttura che davanti al lago ghiacciato ha ancora una cabina telefonica con un telefono nero, ma che i custodi dicono non funzionare più  dai tempi in cui è arrivata la disco music. O almeno non funziona per contattare “chi è ancora vivo”.  

Questa volta sarà Finney a proteggere Gwen, a costo di tornare a rispondere alle chiamate di spettrali telefoni neri. Ma questa volta, dall’altro capo della cornetta, Finney sarà costretto a parlare solo con un fantasma: il Rapace. Un Rapace che ogni volta gli ricorda di come all’inferno non ci siano tizzoni ardenti, lapilli, fuoco. All’inferno si gela e presto porterà Finney a fargli compagnia. 



Sinister e Black Phone : storie di bambini fantasma e adulti assenti 

Nel 2012 usciva per Blumhouse nelle sale Sinister, un film horror scritto e diretto da Scott Derrickson e da C.Robert Cargill, “piccolo ma cattivissimo”, intelligente quanto geniale, che presto sarebbe stato considerato da molti come un cult movie. Nato a Denver in Colorado come i personaggi di Black Phone, Scott Derrickson, classe 1966, dopo gli studi in comunicazione, cinema e teologia aveva esordito alla regia nel 2000, con il piccolo, interessante e un po’ “acerbo” Hellraiser. Si era poi fatto notare dalla critica nel 2005 per il bellissimo, misurato e sfaccettato  horror a sfondo religioso (forse ispirato dai suoi studi teologici) L’esorcismo di Emily Rose, scritto come Hellraiser 5 insieme a Paul Harris Boardman, con cui avrebbe realizzato in seguito un altro ottimo film sugli esorcismi, Liberaci dal Male, nel 2014. Nel 2008, con un enorme apparato produttivo alle spalle (che forse lo ha un po’ condizionato…), portava nelle sale un remake un po’ sbiadito, ma pieno di spunti visivi e narrativi interessanti:  Ultimatum alla terra con protagonista Keanu Reeves. 

Nasceva invece a Austin California C.Robert Cargill, classe 1975, che come figlio di militari aveva passato gran parte della sua infanzia spostandosi continuamente, di base in base e di scuola in scuola. Da adulto era stato commesso viaggiatore finché trovò impiego come commesso in un negozio di videocassette, seguì una breve carriera d’attore e poi l’esordito come sceneggiatore, proprio nel 2012 con Sinister

Cargill si racconta che incontrò Derrickson una sera in un bar di Las Vegas, grazie a un amico comune. Si avvicinò al tavolo con coraggio presentando al regista di Emily Rose proprio la bozza di Sinister, che disse essergli stato ispirato dalla visione di The Ring

Si dice che ricevette in pochi minuti l’approvazione del regista e poi telefonicamente pure quella del produttore Jason Blum. 

La sua sceneggiatura era davvero speciale e Derrickson e Cargill fin dai primi scambi in quel bar scoprirono di avere molto in comune: dalla passione per le letture al cinema horror, dalla musica “vintage” a un'adolescenza vissuta nel cuore degli anni '70, per lo più ai margini di “difficili” cittadine di provincia che all’epoca vivevano in un clima di grande tensione, tra Vietnam e crisi economica. Una adolescenza tra bulli, ubriachi, reduci e famiglie distrutte, per molti versi simile a quella di molti giovani protagonisti dei libri di Stephen King come It e Stand by me. Un'adolescenza  che avrebbero voluto approfondire nei loro lavori insieme, proprio a partire da Sinister

Sarebbero tornati a lavorare con lo stesso spirito nel 2015 per Sinister 2, per poi nel 2016 fare qualcosa di completamente opposto (e forse “meno personale”, come nel caso di Ultimatum alla Terra) per il colossal Marvel Doctor Strange, per in seguito ritornare a temi a loro più vicini, “Kinghiani”, nel 2021 per Black Phone e ora nel 2025 per Black Phone 2

Ma restiamo un attimo al 2012 e ai motivi del grande successo del primo Sinister: perché in fondo sono molto simili a quelli del successo del primo Black Phone. 

A fianco di attori esordienti giovani e già bravissimi come Clare Foley e Michael Hall D’addario, protagonista assoluto della vicenda era Ethan Hakwe, che sarebbe stato di nuovo protagonista in Black Phone. Ethan Hakwe aveva esordito giovane e già bravissimo nel fantasy cult per ragazzi Explorer del 1985, per poi prendere parte ad alcune delle più importanti pellicole degli ultimi anni: il drammatico L’attimo fuggente del 1989, il thriller basato su una storia vera Alive nel 1993, la trilogia romantica di Before Sunshine, il fantascientifico Gattaca di Andrew Niccol. Era stato un sex symbol, ma anche un attore generoso ed eclettico, spesso legato a progetti indipendenti a volte molto “arditi” (come Boyhood di Linklater, iniziato nel 2002 e conclusisi nel 2014), che arrivato alla soglia del quarant’anni stava iniziando a flirtare sempre di più con il genere horror (con il “vampirico” Daybreakers) e che un anno dopo Sinister, nel 2013, sempre per Blumhouse, avrebbe inaugurato la grande saga di The Purge dell’esordiente James De Monaco, come primo protagonista. 


In Sinister, Ethan Hawke impersonava un pessimo giornalista di inchiesta e pessimo padre di famiglia, che per scrivere un controverso libro/inchiesta si trasferiva, con la moglie ignara e prole al seguito, in una casa maledetta dove erano avvenuti terribili fatti di sangue. Ossessionato dalle vicende di quel luogo, l’uomo si calava insieme ai suoi cari in una realtà da incubo con al centro una demone per certi versi simile a uno “strano Peter Pan”, con al seguito tanti “bambini perduti” fantasma: arrivati a lui in quanto “delusi” da dei genitori incapaci. Piccoli fantasmi intenzionati e diventare amici dei suoi figli. Bambini fantasma che sarebbero “tornati”, seppur con intenzioni diverse, anche in Black Phone. Come sarebbe tornato in Black Phone il tema-cardine della difficile comunicazione tra genitori e figli. Un argomento probabilmente per Derrickson e Cargill molto importante, che tornerà in seguito, spesso sviluppato con una complessità tale da rendere imprevedibile, ma pur sempre “credibile”,  l’esito di una storia. 

Le influenze da King erano tantissime, il lavoro finale era brillante, originale e soprattutto faceva davvero paura: a partire dalla scelta “ispirata da The Ring” di mettere al centro della narrazione alcune sequenze terrificanti girate in formato super 8, super sgranate, quasi mute, con in sottofondo solo il rumore della pellicola che gira meccanicamente sui rulli di un proiettore. 

Si parlò subito di trilogia, ma il secondo Sinister, ancora più complesso e forse più  filosofico che spaventoso, fallì la prova con il pubblico. Forse fallì anche perché nei suoi confronti Cargill e Derrickson si comportarono per lo più solo come produttori, quasi come i “genitori distratti” che venivano “puniti” in Sinister. Affidarono la regia e quasi tutto il resto all’irlandese Ciaran Foy, in quando occupati sui set di Doctor Strange e Liberaci dal male. Il film che uscì fu sfortunato e “non capito”, ma i temi e i personaggi di Sinister erano ancora molto importanti e “vivi” per i suoi autori; solo in attesa di trovare una “nuova forma”. 

A sei anni di distanza dal 2015 di Sinister 2, Derrickson e Cargill decidevano così di portare in sala personalmente un racconto di Joe Hill, contenuto nell’antologico Ghosts del 2004 e scritto con toni felicemente vicini alla “poetica” del padre di Hill e mito di Derrichson e Cargill: Stephen King. Ne fecero un adattamento così  “personalizzato”, realizzato in solo cinque settimane, che lo avrebbero portato a essere quasi una “variante di Sinister”, forse più matura e “meno cattiva”. Forse con poche modifiche avrebbe pure essere quel Sinister 3 più volte invocato dai fan ma mai realizzato dopo il flop del 2, o quantomeno una “versione speculare del primo Sinister”, in cui ruoli e ambienti risultavano “nell’ecosistema/scena opposti”. A partire scenograficamente da quel setting centrale della “soffitta” di Sinister, che diventava/si trasformava nel “sottoscala” di Black Phone

Erano di nuovo al centro della vicenda dei bambini, interpretati dai bravissimi Mason Thames e Madeleine McGraw, ma non erano certo del “bambini cattivi” o quando meno dei “bambini ribelli”, anche perché lo scenario temporale era diverso, come i “ricordi personali” che gli autori volevano infondere nell’opera erano diversi. Ethan Hawke, che interpretava il “genitore assente” di Sinister, qui assumeva il ruolo di carnefice/demone. Se vogliamo l’immagine distorta di un genitore iperpossessivo, “carceriere” e instabile, che non vedeva l’ora di “punire per sfogarsi”. Un ruolo che sarebbe risultato al pubblico tanto, “troppo simile” a quello del personaggio del padre dei due ragazzini, interpretato dall’ottimo Jeremy Davies, generando un vero e proprio “cortocircuito narrativo”, davvero intrigante quanto amaramente “plausibile”.  Per diventare il Rapace, Hawke si era spinto a cambiare più volte voce e postura del corpo, farsi a tratti muscoloso e a tratti esile, usare una gestualità estrema quanto eclettica, ora teatrale ora contenuta. Doveva essere un mostro tragico. Doveva saper esprimere e condensare in un singolo personaggio, che restava per la maggior parte del tempo con il volto coperto, come il V per Vendetta di Hugo Weaving, almeno cinque personalità e caratteri diversi. Un po’ “stremato”, ma contento di aver rivestito per la prima volta il ruolo di “cattivo”, Hawke diede vita con una performance  semplicemente incredibile al suo personale Freddy Krueger: uno dei suoi personaggi più cattivi, divertiti e iconici degli ultimi anni. 

Un demone che, tornando al “gioco degli specchi” con Sinister, era espressivamente l’esatto opposto del muto, monolitico e giudicante “Peter Pan” di Sinister

Tornava in Black Phone da Sinister, insieme a una messa in scena curata sul piano visivo e sonoro, un montaggio quasi “chirurgico” nel ricercare la massima chiarezza e leggibilità dell’azione e degli spazi. Tornava una rappresentazione della violenza cruda quarto realistica: consapevole dell’impatto visivo ed emotivo del mostrare la sofferenza umana, senza che questa apparisse “gratuita”. Tornavano le scene che spaventavano con un semplice cambio di inquadratura veloce e innalzamento del volume (i cosiddetti “bus”), improvvise “ma necessarie”. Tornavano “specularmente” scene realizzate tecnicamente come immagini di una telecamera da 8mm: che in Sinister venivano usate per riprodurre la bassa qualità di documenti filmati reali, mentre in Black Phone descrivono la percezione visiva durante i sogni. 

Tornava soprattutto una storia con dialoghi dal forte impianto drammaturgico, in grado di valorizzare la bravura degli interpreti, anche attraverso citazioni colte prese dal teatro greco: ne è un esempio la bellissima maschera dalle “parti umorali intercambiabili” del Rapace, realizzata dall’artista Jason Baker, che richiama proprio le maschere di scena del teatro classico. 

Soprattutto, tornavano protagonisti centrali della vicenda bambini fantasma e gli adulti assenti. 

Bambini “fantasma” in quanto defunti, ma pure invisibili a chi dovrebbe prendersene cura, costretti a “parlare da soli” (Gwen) o annullarsi (Finney). Specchio di una infanzia tradita in scuola dove regnava il bullismo, su strade dove da mesi imperversava un maniaco, in case dove c’era ovunque violenza domestica, a meno che il genitore non fosse morto in Vietnam. Nelle interviste, Cargill e Derrickson ricordano da piccoli di aver visto centinaia di foto in bianco e nero di bambini scomparsi nel nulla. 

Gli adulti invece erano “assenti” in quanto troppo concentrati sui rispettivi drammi personali, da quasi non accettare la presenza di una voce (e di un dolore) che non fosse esclusivamente loro. Adulti di conseguenza “assenti per alcol” (il padre), assenti “per indifferenza” (gli insegnanti), “pazzi” (il fratello del Rapace), se non ovviamente “assenti per cause di Stato” (come il padre di Robin partito per il Vietnam senza fare ritorno). 

Bambini fantasma e adulti assenti che convivono/si scontrano, in Sinister come in Black Phone, all’ombra di una rispettiva “entità maligna”, che si fa forse metafora del mondo stesso che stavano vivendo. 

Un’entità che però forse, a opinione dello scrivente, può funzionare in quanto rimane un misterioso deus ex machina, quando in realtà il seguito di un film horror va troppo spesso (e spesso con incoscienza) a indagare proprio sulle origini di un male che deve restare senza nome, in quanto spesso simbolo di qualcosa di diverso da un semplice “personaggio”.

La realtà è che il primo Black Phone funzionava proprio in quanto specchio di Sinister: era quasi lo stesso film da punti di vista opposti e come Sinister era diventato un piccolo cult.

Il grande dubbio, prima della visione in sala, era che si fossero fatti per Black Phone 2 gli stessi errori di Sinister 2



In sala

Black Phone 2 sceglie fin da subito di portare la narrazione al di fuori di uno stretto “ecosistema familiare/trappola”, come lo erano la soffitta di Sinister e lo scantinato del primo Black Phone

L’azione qui si svolge in una colonia invernale per ragazzi davanti a un piccolo laghetto: un luogo in grado “con una sola mossa” di rievocare, per i fan dell’horror più accaniti, tanto il lago e il campus Crystal Lake (Venerdì 13), quanto l’isolamento invernale “feroce” dell’Overlook Hotel (Shining). Un setting davvero ben realizzato, “sospeso” tra passato e presente in un istituzionale “immobilismo forzato”, che sulla scena appare davvero molto evocativo. Un luogo ghiacciato anche emotivamente, ammantato di bianca neve che spesso si tinge di rosso sangue, in cui un Rapace sempre più vicino a Freddie Krueger e “nuovi” bambini fantasma possono sguazzare come dei matti, tra realtà e piano onirico. 

Un “luogo nuovo”, che permette a Derrickson e Cargill di raccontarci quanto potessero essere spaventose (e “omertose”) le colonie per ragazzini negli anni '70 (non è certo il campus estivo di Polpette, film del '79 con Bill Murray..), che porta anche i due protagonisti, Gwen e Finney, ad assumere un “ruolo nuovo”. Un ruolo che li vede più adulti e quasi nei panni di “detective del soprannaturale”. In questi ruoli Mason Thames e Madeleine McGraw ci sono piaciuti moltissimo, dimostrando un grande talento nella “ri-costruzione emotiva” dei rispettivi personaggi dopo gli eventi trascorsi. Come ci è piaciuto rivedere in un “nuovo ruolo” il bravo Miguel Mora, come ritrovare Jeremy Davies alle prese con un personaggio, quello del padre, che effettivamente nel corso del tempo dimostra anche lui di essere cambiato, cercando di rimettersi in gioco. 

Black Phone 2 ha meravigliose scene horror e liberatorie, scene prettamente splatter, un setting pieno di suggestione e ottimi attori che sanno proseguire emotivamente bene la storia iniziata nel primo film. 

Anche sul lato visivo, l’uso del “formato onirico” degli 8mm funziona molto bene, giocando in modo interessante con le peculiari scelte del direttore della fotografia Par M.Ekberg. È più facile confondere la realtà con il sogno, a meno di non stare a ricercare in modo analitico le “sgranature della risoluzione” sui bordi e ai margini della scena. A volte con la stessa ossessione con cui veniva analizzata l’immagine in bassa risoluzione delle telecamere digitali della saga Paranormal Activity, non a caso un’altra serie-simbolo della casa di produzione Blumhouse.

Tuttavia qualcosa di importante si è perso sul lato della scrittura: non si è data la “giusta voce” alle “nuove” vittime del Rapace e il tema del difficile dialogo tra giovani e adulti è stato messo un po’ da parte. 

Forse per non ripetersi e non trasformare di nuovo il tutto in una specie di Sinister 3

Forse per esplorare di più il lato investigativo della storia e di fatto fornire un gancio a pellicole future, ma c’è da dire che anche la “struttura delle investigazioni”, tra i sogni di Gwen e le telefonate di Finney, ogni tanto appare un po’ schematica. 

Ad ogni modo si avverte a livello narrativo una maggiore distanza emotiva, che rende il tutto più prevedibile e meno sfaccettato sul piano umano, pur all’interno di una pellicola in larga parte ben riuscita e divertente.


Finale 


Con Black Phone 2 Derrickson e Cargill riportano in sala personaggi e atmosfere di uno degli horror più intelligenti, originali e interessanti degli ultimi anni. La formula rimane accattivante: bravi gli interpreti, riuscite le scene oniriche quanto le scene “splatter”, il nuovo scenario si dimostra ricco di atmosfera, Ethan Hawke sempre più cattivo e sopra le righe. Ci si spaventa e diverte come prima, anche se nella storia avvertiamo una maggiore “freddezza”, forse anche in onore della nuova ambientazione. 

Talk0




mercoledì 1 ottobre 2025

Le città di pianura: la nostra recensione del tragicomico “western crepuscolare postmoderno e molto etilico” di Francesco Sossai


Ci troviamo nel Veneto quando ancora non era diventato lo “Zaiastan”, dalle parti di inizio duemila, prima della grande crisi.

Ai tempi Cavalieri e megadirettori si spostavano in elicottero, con orgoglio sopra i loro operai e impianti/ruderi “ma ancora validi” dell’era industriale, dispersi per i campi e i sassi come vecchi accampamenti indiani. Un elicottero scende a terra per alzare in modo spettacolare un piccolo tornado di sabbia e per riconoscere il valore vero di un operaio, prossimo alla pensione ma che lavora per loro instancabile dall’inizio, “il primo”, di nome guarda caso Primo. Il premio, un orologio con dedica, oro, abbinato a grandi sorrisi, pacche sulle spalle e forse una rivelazione importante, solo per le sue orecchie, tipo il senso della vita. Ma la rivelazione viene “dispersa” dal rumore di fondo assordante delle pale dell’elicottero che iniziano già a girare. Di sicuro girano già da molto pure le “pale” di Eugenio, detto “il genio” (Andrea Pennacchi). Operaio della stessa ditta leader nella produzione di occhiali, ma a tempo sempre più pieno contrabbandiere a giro internazionale dei medesimi. La crisi si avvicina quanto il suono delle manette e l’Argentina diviene per il Genio la meta tra sogno e realtà da inseguire. Debitamente “viaggiando leggero”, dopo aver lasciato il frutto del contrabbando sepolto in un luogo segreto come un tesoro dei pirati, in attesa che le acque si calmino. 

Gli anni passano e le acque si sono così calmate da essersi svuotate: si parla ora solo di vino, birre e superalcolici. Due amici di sempre, complici/colleghi di lavoro del Genio hanno già bevuto tutto l’inimmaginabile nelle ore d’attesa che li separano dall’arrivo all’aeroporto con il vecchio amico. Per un attimo hanno pure scoperto il senso della vita forse sussurrato a Primo anni prima. Ma il tempo di attesa di un volo dall’Argentina è ancora tantissimo e tantissimi sono pure i bar, bettole, Night club et similia lungo il cammino al terminal, a patto di ricordarsi se l’aeroporto giusto è Treviso o Venezia. Dopo essersi autoinvitati a un paio di feste e addii al nubilato, la coppia, al secolo il baffuto Carlobianchi detto “Charlie” (Sergio Romano) e l’intraprendente Doriano detto “Doriano” (Pierpaolo Capovilla), decidono di imbucarsi pure a una festa di laurea. La ragazza con corona d’alloro in testa è bellissima, ma il ragazzo che più spasima per lei, lo studente di architettura Giulio (Filippo Scotti), è tristissimo, un uomo devastato dalla timidezza, dalla imbranataggine e un po’ dalla sfiga. Quando la serata passerà per lui dalla tragedia allo psicodramma, Doriano e Carlobianchi decideranno di “adottarlo” come un cagnolino raccolto dalla strada sotto l’acqua, per innaffiarlo con loro on the road, nel resto del giro etilico programmato a caso in attesa del “Genio”. Giulio è così devastato a livello esistenziale che accetta al volo qualunque cosa, pure Doriano e Carlobianchi. I tre sperimentano effluvi alcolici in luoghi e posti assurdi ma verissimi per almeno un paio di giorni. Alla ricerca di un “Genio” , di un “Tesoro sepolto”, di un amore che forse è già perduto a vantaggio di spasimanti meno timido. Alla ricerca di un futuro, di se stessi e forse di una spalla a cui appoggiarsi e continuare fiduciosamente, insieme e insonni, a camminare lungo una lunga notte. Tra vecchie osterie, castelli che forse diventano autostrade, monumenti funebri post-moderni meta turistica di giapponesi e lungo così tante strade e bar desolati e desolanti che pare di stare nel Texas. O altri luoghi che forse non esistono se non nell‘immaginazione. Come Rovigo. 

Esiste sempre più, grazie al coraggio di alcuni amabili pazzi contemporanei, un cinema che va a esplorare il nord est dell’Italia per quello che è sempre stato anche se poco ci è stato raccontato: è il nostro personale Far West, pieno di miti e leggende ancora troppo poco raccontate. Si è innamorato pochi anni fa dei suoi spazi sterminati, rigogliosi di verde ma quasi sinistri, il regista e cantante Zampaglione, raccontandoli come “casa nel bosco” di un Freddie Kruger tutto nostrano nell’ottimo e mai abbastanza celebrato Shadow, nel 2009. È da sempre cantore degli infiniti silenzi delle sue città “abbandonate e abbandonabili” arrancate sui monti, da frontiera quasi metafisica, l’ottimo Lorenzo Bianchini, che nel 2013 firma il suo capolavoro, Oltre il Guado. Autori come Silvio Soldini (con La lingua del Santo, del 2000), Matteo Oleotto (Zoran, il mio nipote scemo, nel 2013, la serie tv Volevo fare la rockstar) come Emilia Mazzacurati (Billy, del 2023) hanno cercato di incanalare l’animo vivace, sognatore, romantico e sarcastico proprio del nord Est e su questo stesso solco va a collocarsi oggi Francesco Sossai per la sua irresistibile commedia on the road ad altissimo tasso etilico. Un film, che Sossai scrive insieme a Adriano Candiago, che è più Paura e deliro a Las Vegas di Terry Gilliam che Via da Las Vegas di Mike Figgis. Un film generoso e ondivago che insegue un’infinita “ora dello spritz” come momento massimo, quasi sciamanico, per mettere a nudo i sentimenti umani migliori, come l’amicizia e la comprensione, senza tutti i legacci delle inibizioni. Non però uno stordimento da super alcolico costante, cosa che forse ci porta in territori più bonari e meno autodistruttivi del film di Gilliam, quanto una “giustificazione liquida bassa gradazione”, per prolungare la voglia di stare insieme a tirare tardi, allontanando la testa e il cuore dai drammi di tutti i giorni quanto più si riesce. Sossai dietro il giallo paglierino delle pinte i drammi non li nasconde per niente, anzi dà voce con la sua macchina da presa a scenari fatiscenti, ristoranti con la serranda abbassata, sui personaggi tutti i segni di una vita che tira avanti con pochi lussi e tanti sacrifici. Scenari e vite che parlano da soli di un tempo di crisi ormai diventato troppo lungo, in cui persino i campi e gli stabilimenti chiusi in breve sono diventati non lontanissimi dall’Australia di Mad Max. Scenari sui quali i nostri protagonisti, tutti perdenti, un po’ codardi e un po’ truffatori, ma molto romantici, non hanno la forza di camminare dritto. Preferendo “barcollare” tra sogni, alcol e realtà, ma sostenendosi a vicenda, amici e complici, senza perdere quello stato mentale collettivo, quasi fanciullesco, che forse rende meno gravoso il loro incedere. 


Anche se la meta è fosca e il tragitto pieno di deviazioni, è quindi un “naufragare dolce” perdersi con Doriano, Carlobianchi e Giulio nel loro on the road a zonzo tra Venezia e la realtà, senza capo né coda pieno di strade aride ma pure di meravigliosi bar con musica dal vivo, sempre perfettamente azzeccata alla descrizione di stato d’animo generale e disgrazie varie. 

Grazie a un’ottima scrittura e ottimi interpreti, il viaggio si fa presto anche per il pubblico, chilometro dopo chilometro, birra dopo birra, l’immagine cristallina del solo, primordiale bisogno di “state insieme”. Uno “stare insieme” che riesce a filare bene nello stomaco dello spettatore come un buon digestivo: appagante, dolce ma anche debitamente amarognolo. Al netto di qualche “flashback narrativo” che forse non convince in pieno, la storia dei nostri eroi sa sempre trascinarci nel loro mondo in modo cristallino, generoso e stralunato.

Un piccolo grande film. 

Talk0

lunedì 22 settembre 2025

Demon Slayer: il Castello dell’Infinito - la nostra recensione del primo dei tre film che chiude la saga animata realizzata da Ufotable, tratta dal manga di Koyoharu Gotoge

Premessa 

Demon Slayer: il Castello dell’Infinito è il primo di tre film cinematografici con cui lo studio Ufotable ha scelto di raccontare in forma animata l’ultimo arco narrativo del manga scritto da Koyoharu Gotoge. Gli eventi narrati in questo primo capitolo seguono direttamente quanto raccontato nella quarta stagione dell’anime, andata in onda la prima volta su Fuji Tv nel 2024 dall’inizio di maggio alla fine di giugno. 

Il secondo film, salvo cambi di calendario è previsto in uscita nel 2027, il terzo nel 2029. 

Tutto l’anime è reperibile in italiano sul canale streaming di Crunchyroll, con la relativa versione Home Video già disponibile negli store curata da Dynit. Il manga, uscito originariamente in 23 volumi dal 2016 al 2020, è stato integralmente portato in Italia da Panini, sotto l’etichetta Planet Manga.


Sinossi

Sembra ieri che Tanjiro, ritornando a casa in una giornata assolata, trovava tutta la sua famiglia trucidata da un demone dopo una notte di mattanza. Sua sorella Nazuko era miracolosamente sopravvissuta, ma il mostro l’aveva morsa, dando inizio alla sua fase di mutazione in demone. Il cacciatore di demoni che era sulle tracce di quella sanguinaria creatura, il “Pilastro dell’acqua” Giyu Tomioka, era arrivato troppo tardi, ma aveva comunque il dovere di eliminare il nuovo demone che stava nascendo. Tanjiro, solo su una distesa di neve coperta di sangue con Nazuko in grembo, commosse il guerriero. Se esisteva, Tanjiro avrebbe cercato una cura. Ad ogni modo, sarebbe diventato anche lui un cacciatore di demoni: avrebbe provveduto personalmente a ucciderla al termine della metamorfosi. 

È così che cominciò il viaggio di Tanjiro e Nazuko attraverso un Giappone sospeso tra incubo e realtà. I due avrebbero presto condiviso la strada con l’insicuro ma coraggioso Zenitsu e con il “ruvido” Insuke. Nazuko, diventata ormai una creatura notturna, avrebbe cercato di dominare i suoi nuovi poteri da demone senza perdere la sua anima, aiutata anche dalla scienza medica dell’epoca. I tre ragazzi si sarebbero uniti agli spadaccini Hashira, i più potenti cacciatori di demoni, diventando  ogni giorno più forti come spadaccini ed esorcista. Tra molte difficoltà e amare vittorie, sono tutti in breve tempo diventati adulti. 

Ormai è giunto il tempo del grande scontro finale tra i Demon Slayer e i demoni capitanati dal pericoloso Muzan Kibutsuji. Una autentica guerra destinata a compiersi nell’arco di una sola notte, che vedrà tutti in prima linea, maestri e reclute, contro migliaia di demoni e i loro potenti comandanti, le dodici Lune Demoniache. Una guerra che sarà combattuta in pieno territorio nemico, in un luogo in cui le regole del mondo fisico non hanno alcun valore: il Castello dell'Infinito. Una struttura sorretta da una magia ancestrale potentissima, in grado di espandersi o moltiplicarsi per interi chilometri, mutando continuamente i suoi spazi interni creando in un istante vicoli ciechi, trappole e baratri. 

Sarà uno scontro disperato, anche se i cacciatori di demoni hanno più di un asso nella manica per riuscire nell’impresa.

Dovranno però tenere i nervi saldi: non cadere nella pazzia e mettere tutta l’anima in ogni scontro. Dovranno accettare la possibilità di cadere in battaglia, pur di favorire la corsa dei loro compagni verso il terribile Muzan. 

Riusciranno gli Hashira e i membri della Demon Slayer Corp a sopravvivere? 



Breve storia di Ufotable 

Fondato nel 2000 nel quartiere Suginami di Tokyo, da ex animatori di TMS Entertainment guidati dal produttore Hikaru Kondo, lo studio Ufotable si dice abbia preso il nome dalla forma, definita “simile a un ufo”, dello stranissimo tavolo che Kondo si fece realizzare, proprio per il suo nuovo ufficio, da un celebre artista scandinavo. Con questo “simbolo” a guidarli, lo Studio non poteva che imporsi come qualcosa di strano, rivoluzionario e originale fin dal suo esordio. Una eccezione assoluta o, se vogliamo, proprio uno strano “oggetto volante non identificato” nel panorama dell’animazione Giapponese moderna. Commissionando quel tavolo, Kondo  non sognava solo di viaggiare verso “lo spazio profondo”. Dalla circolarità dell’oggetto voleva sollecitare nell‘osservatore anche “afflati Arturiani” che lo avrebbero reso idealmente vicino alla celebre Tavola Rotonda. Ufotable non avrebbe avuto una struttura lavorativa tradizionale: “verticale”, settoriale e granitica, con un solo capo al comando. Sarebbe stato prima di tutto un luogo di studio interdisciplinare “tra pari”, un posto in grado di favorire l’ascolto e confronto di animatori di età ed esperienze diverse. Una fucina di idee e progetti a cui tutti avrebbero dato vita  lavorando insieme, sostenendosi come un’unica squadra che a fine partita vanno a festeggiare insieme. Un po’ come in una bottega artigiana, ogni ufficio era studiato per permettere a quattro animatori di lavorare a stretto contatto, su un unico grande tavolo centrale, veterani a fianco di nuove leve. Un po’ come in un albergo, alle spalle di ogni animatore c’era il classico “spazio di riposo nipponico”: un tatami (lettino), per “stimolare a produrre” anche durante le ore notturne, senza rincasare, in caso di “scadenze imminenti” secondo il classico stile di dedizione al lavoro giapponese. Dal 2006 gli animatori in Ufotable hanno ottenuto anche un innovativo “spazio sindacale”, cosa per nulla comune nel campo dell’animazione nipponica. Potevano concretamente entrare nei comitati di produzione degli anime, per diventare parte attiva del processo e gestione di tempi e qualità del lavoro. 

Dal 2010 lo Studio si era reso del tutto indipendente, arrivando a curare nella sua sede tutti gli aspetti del prodotto finale, dal disegno a mano alla animazione digitale, dal montaggio alla colonna sonora, dal doppiaggio alla promozione. Per questo si era dotato di un nuovo “spazio”: un vero e proprio studio di incisione, in grado di scovare tra le nuove voci dei talenti come il gruppo “Kalafina”. Non poteva mancare giusto il settore della ristorazione e infatti al primo piano dello Studio di Suginami,  dal 2006 era già stato allestito un bar/ristorante, specializzato nel servire inizialmente piatti ispirati alle serie animate di Ufotable. All’inizio era una mensa per dipendenti ma presto si è aperto al pubblico come ristorante a tutti gli effetti, diventando in breve una meta turistica obbligatoria per le legioni di fan degli anime che si recavano e si recano tuttora in pellegrinaggio a Tokyo. Ad oggi esistono vari “Ufotable Cafe’ “ e pure un ristorante di lusso,  “Ufotable Dining”,con code anche di sei ore di attesa in caso di mancata prenotazione. Ma non dimentichiamo che il “piatto forte” di Ufotable, il motivo principale per cui è così tanto amato da pubblico e critica, specie in un periodo di forti “delocalizzazioni all’estero” e  “crisi interne” del settore anime giapponese, rimane pur sempre la cura che Ufotable ripone nella sua produzione animata.  


Agli esordi, lo Studio si è occupato tra le varie cose della parte animata legata alla produzione dei videogame delle serie Namco Tales of e God Eater: giochi di ruolo amatissimi in Giappone, che oggi stanno riscontrando uno straordinario successo anche a livello internazionale grazie alle animazioni dello Studio. Al contempo, Ufotable è stato scelto (forse non a caso) dal prestigioso Studio Ghibli come studio di sopporto per le animazioni del film di esordio di Goro Miyazaki, I racconti di Terramare, tratto dalla celebre saga fantasy di Ursula Kroeber Le Guin. Dal 2009 al sodalizio con Namco si è aggiunta la collaborazione con Aniplex, per il film tratto dalla serie-cult Puella Magi Madoka Magika, ma soprattutto è nata una duratura collaborazione con un’altra casa di videogame a tema fantasy: la produttrice di Light Novel Type-Moon. Per lei, Ufotable si è occupata della trasposizione della saga di Fate/Stay Night a partire dal 2011, con la serie prequel in 25 episodi Fate/Zero. Il grande successo di Fate/Zero ha portato poi alla messa in cantiere della trasposizione animata del “ciclo completo”, in 26 episodi, di  Fate/ Stay Night: Unilimited Blade Works. Un progetto che ha raccolto immensi consensi di critica e pubblico, a cui è seguito, dal 2017 al 2020, la trasposizione in animazione Fate/Stay Night : Heaven’s Feel. Una serie che la casa ha scelto di sviluppare in tre film cinematografici usciti a cadenza annuale. Inoltre, lo studio ha sopportato Type-Moon anche nella parte animata del gioco Fate/Grand Order, come da anni ha fatto con Namco. 

Proprio nelle produzioni legate a Fate, Ufotable inizia a esprimere davvero al massimo tutto il suo straordinario potenziale artistico e tecnico, distinguendosi anche per un modo di lavorare davvero “fuori dagli schemi”. Ci sono episodi che in barba alle convenzioni delle serie tv sono della durata di quaranta minuti o di un’ora, diventando a tutti gli effetti dei “mini film”: una scelta  per non spezzettare la forza evocativa del racconto originale. Nei film di Heaven’s Feel invece spesso vengono saltati a pie pari i passaggi narrativi di eventi già raccontati in Unlimited Blade Works: una scelta molto apprezzata dal pubblico dei fans, anche se percepita da altri come qualcosa di “criptico”. Ufotable non voleva “lucrare” in termini di minutaggio su qualcosa che aveva già prodotto in passato ed era ben reperibile.

Sul piano tecnico e artistico la “formula produttiva di Ufotable” ha permesso nelle sue opere un approccio così ricco di dettagli e sfumature da sfiorare quasi il certosino. Come se ogni componente del gruppo di animazione facesse a gara a mettere in risalto la sua professionalità. Sulla scena viene curato ogni singolo aspetto naturalistico e climatico del paesaggio. Viene riprodotto mattonella per mattonella ogni edificio. Viene considerata  la rifrazione del sole. Se il character design originale ha delle semplificazioni nel tratto, questo viene arricchito pur con tratti leggeri, quasi invisibili: per permettere di dare risalto a ogni piccola sfumatura emotiva dei personaggi. Una cura “ugualmente folle” viene riservata alla messa in scena dei combattimenti. Che siano con spade, fucili, pugni o raggi di energia, i combattimenti appariranno sempre chiarissimi, di facile lettura sul piano del montaggio e dell’impatto nonostante torme di lampi, detriti, vortici. Lo “stile di “ripresa dell’azione” sarà sempre dinamico anche quando corpi e colpi andranno a fondersi tra animazione classica a mano e tridimensionale. 

Tuttavia non di sole “botte da orbi” vivono gli anime, e quindi lo Studio sa anche costruire un regia accurata per un contesto drammatico: il ritmo dell’azione sa passare con un'ottima coordinazione dall’indiavolato al calmo, arrivando quasi allo spirituale. Non è raro che scene di stampo drammatico rubino a volte la scena a quelle più spiccatamente “cinetiche”. 

Pur se il prodotto finale è destinato alla visione domestica, si respira quindi in ogni istante una attenzione e cura non inferiore a quanto offre una grande produzione di stampo cinematografico. 

Nel 2019 sono iniziati per Ufotable e il suo fondatore dei guai finanziari protrattisi per qualcun anno e con qualche sentenza pesante…ma rimaniamo qui sul “piano artistico”.

Dal 2019 Ufotable si è occupata, in coproduzione con Aniplex, con tutta la cura e passione di cui è capace, quasi esclusivamente della trasposizione animata della saga di Demon Slayer. Di fatto “facendo sua” la già discreta opera di Gotoge, fino a renderla uno dei massimi punti di riferimento dell’animazione contemporanea. Contribuendo di riflesso, fin dall’inizio della serializzazione televisiva, a portare anche la piccola serie manga di Gotoge a inaspettate vette delle vendite, con felici ricadute anche a livello internazionale sul cartaceo. Ma questo forse non sarebbe stato possibile, se la piccola serie di Koyoharu Gotoge non avesse avuto al suo interno qualcosa di profondo e speciale.



Ufotable incontra Koyoharu Gotoge 

La giovane fumettista della prefettura di Fukuoka Koyoharu Gotoge, che nei suoi fumetti ama ritrarsi come un buffo coccodrillo con gli occhiali, a soli 24 anni partecipava con una storia breve alla 70esima edizione di un celebre concorso per esordienti della rivista Jump. Il racconto, intitolato Kagarigari, vinse il primo premio. Quella storia, dai tratti “delicati ma sanguigni” e dallo sviluppo semplice ma accattivante, nel 2016 divenne la base della sua prima serie lunga, Kimetsu no Yaiba (letteralmente “La spada dell’ammazzademoni”), conosciuta a livello internazionale come Demon Slayer. Si raccontava a tappe il lungo viaggio di due fratelli che, “colpiti da una maledizione”, da un piccolo mondo contadino arroccato sui monti, quasi bucolico, venivano spinti a confrontarsi con una società che, metro dopo metro, appariva sempre più complessa, crudele e forse “corrotta”, da forze misteriose. Una società che per sopravvivere aveva assunto contorni militareschi, trascinando anche i più giovani e indifesi in giochi di potere crudeli: situazioni in cui “il credo della forza” andava sempre a schiacciare ogni forma di umanità. Capitolo dopo capitolo Gotoge sviluppava una storia di formazione, dal sapore action forse convenzionale ma raffinata nei dettagli, dotata di un forte senso del drammatico e del malinconico. Una storia che non aveva paura di addentrarsi in territori squisitamente horror o in veri drammi sociali specchio della arcaica “società a caste” nipponica. Alla formula Gotoge aggiungeva geniali momenti ironico/surreali, che sapevano spiazzare quanto mettere in luce aspetti caratteriali  particolarmente originali dei personaggi. La presenza di una “maledizione” che incombeva sui due fratelli protagonisti, rafforzandone il legame e il senso di responsabilità reciproca per la vita dell’altro, diventava la forte matrice emotiva del racconto, con felici “assonanze” con il capolavoro Full Metal Alchemist di Hiromu Arakawa (che nei fumetti ama ritrarsi come una tenera mucchina con gli occhiali). L’ambientazione ricca di creature del folklore, dai tratti eterei quanto dall’animo animalesco, quasi ingenuamente crudele, ha offerto all’autrice l’occasione di sviluppare in modo piuttosto complesso anche i demoni, facendone figure tragiche affascinanti quanto sfuggenti, irrisolte. 

Tutto questo materiale stimolante è arrivato allo studio Ufotable, che sotto la guida del regista responsabile del progetto Haruo Sotozaki era chiamato a affinare, rileggere e semplificare il tutto per la tv. Uno degli obiettivi dell’adattamento è stato “sfoltire” una narrativa per vignette che appariva a tratti un po’ troppo concitata e “densa”. Un’altra sfida era conferire al tratto molto femminile della Gotoge delle linee più “dure”, ma che sarebbero state maggiormente funzionali ad offrire il giusto afflato cinematografico di una storia di samurai crepuscolari. 

La caratterizzazione grafica dei personaggi, affidata ad Akira Matsushima, aveva per questo come indicazione di dare maggiore enfasi ai tratti scuri dei disegni originali, a partire dall’intensità dei contorni dei volti, seguendo un approccio non dissimile da quello scelto dallo studio Wit, per la trasposizione in animazione de L’attacco dei giganti. Riprodurre con fedeltà gli elaborati kimono e i ricchissimi dettagli grafici di cui era infarcito il manga si sarebbe rivelato un lavoro particolarmente complesso, richiedendo più volte uno studio supplementare della scena per legare al meglio i movimenti con i tessuti. Per enfatizzare poi al meglio l’effetto dei colpi più spettacolari, al dipartimento di grafica tridimensionale capitanato da Kazuki Nishiwaki è stato chiesto di ispirarsi allo stile del movimento artistico Ukio-e: ibridando il disegno a mano delle onde con una colorazione digitale. 

Ad ogni modo, il regista Sotozaki ha dichiarato di essersi sempre fatto guidare nella costruzione delle scene, dalle più comprese e concitate alle più drammatiche, dallo storytelling lineare quanto preciso della Gotoge.

Demon Slayer proprio per questo non si più considerate “solo” come un ottimo anime a base di azione e mostri ricavato da un piccolo fumetto. 


In sala

Il Castello dell’Infinito si apre in modo vertiginoso, lanciando tutti i cacciatori di demoni in picchiata, lungo le pareti in continua mutazione di un Castello Infinito che appare come una struttura dove la gravità si confonde, uscita direttamente da un quadro di Escher. Il castello, spostando le sue stanze come fossero le carte di un mazzo da gioco, all’inizio ambisce letteralmente a “togliere il suolo sotto i loro piedi”, aprendo le pavimentazioni piano dopo piano, creando baratri fino a farli spiaccicare nel terreno alla base. Gli eroi devono cercare di arrampicarsi a qualcosa, per sperare di fermarsi almeno su uno dei livelli inferiori, ma a quel punto verranno assaliti da centinaia di demoni, che li ingaggeranno in veri e propri scontri campali a meno che gli eroi non si trovino nei pressi di uno dei “boss”, ossia le 12 lune. In quel momento inizia un vero e proprio duello, con il Castello che andrà a trasformare l’area in una specie di arena. Allora la narrazione si fa più convenzionale, come nelle puntate classiche della serie: scontri in cui gioca un ruolo importante la tattica più che la forza bruta, approfondimenti sui “motivi etici” alla base di ogni duello per ambo le fazioni, flashback che si allungano a volte come mini/episodi (ricordiamo che il film dura due ore e mezza) con “momenti drammaturgici” davvero riusciti. Tutto come sempre è rappresentato da Ufotable con enorme cura, dal piano narrativo al visivo, dall’ottimo comparto sonoro alla buona recitazione dei doppiatori. Ma il vero spettacolo, quello che ci inchioda dal primo all’ultimo minuto al maxi schermo del cinema, è vedere le tantissime scene in cui il Catello si muove e trasforma di continuo, con suggestioni alle mega-strutture di Inception di Nolan o le città “moltiplicate” in Doctor Strange di Derrickson. Scene a livello tecnico spettacolari e spesso mixate con scene in cui orde di demoni si gettano all’attacco di cacciatori che danno lustro a tutte le loro tecniche di lotta e sopravvivenza, come se fossimo in una variazione estrema del concetto alla base del film The Raid di Gareth Evans. Pura adrenalina. 

Naturalmente il film copre solo una parte della grande notte dello scontro con Muzan e i suoi accolti, ma il senso di appagamento dopo la visione di ogni “capitolo” rimane enorme, anche perché sulla scena compaiono alcuni dei “demoni più amati” dai fan. Dire di più sarebbe un peccato, lo spettacolo va scoperto in sala, ma mi sento di aggiungere che anche uno spettatore occasionale, che non conosce la saga e capita per caso nella sala di proiezione, non potrà che essere conquistato da una messa in scena che rimane sempre accessibile anche ai “non addetti ai lavori”. Magari uscendo dalla visione con la voglia di recuperare le puntate delle quattro serie che precedono gli eventi del film.

Finale 

Demon Slayer: Il Castello dell’ Infinito è uno degli anime action più belli degli ultimi anni, la riprova dell’immenso talento dello Studio Ufotable unita alla raffinatezza e profondità dei personaggi ideati da Gotoge. L’adrenalina scorre a fiumi nella concitata battaglia campale, che viene rappresentata su schermo con un uso incredibile di ogni tipo di tecnica di animazione, ma al contempo non viene mai sacrificata la complessità emotiva dei personaggi, che più volte si ritrovano al centro di momenti narrativi davvero di grande cinema.

Talk0