Alice Ceresa
La figlia prodiga e altre storie, Roma, LaTartaruga,
2005, pp. 331
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Alice Ceresa
/ La figlia prodiga e altre
storie |
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Questo volume raccoglie i romanzi
La figlia prodiga e Bambine insieme al racconto
La morte del padre. Tutti rappresentano un
esame attento e preciso, più da entomologa
che da scrittrice, di quel fenomeno incomprensibile
che sono i legami familiari. Il primo è un
travestimento del figliol prodigo, un personaggio
improbabile che scardina con la sua sola presenza
gli equilibri tradizionali. Ne "La morte del
padre", un funerale è l'occasione per
una radiografia poetica dei sentimenti di chi vi partecipa.
"Bambine", infine, è la storia di
due sorelle, una sorta di "piccole donne",
osservate nel loro passaggio dall'infanzia all'adolescenza,
fino al raggiungimento di una vita autonoma fuori
dalle mura domestiche.
Alice
Ceresa (1923-2001), nata a Basilea e cresciuta
in Ticino, si trasferisce a Roma nel 1950, dove lavora
come giornalista, traduttrice e collaboratrice della
casa editrice Longanesi. Con La figlia prodiga
(Einaudi,1967) ottiene un'immediata notorietà
letteraria e il Premio Viareggio Opera Prima. Pubblicherà
poi soltanto un secondo libro, Bambine (Einaudi,
1990) ed alcuni racconti su rivista, non cessando
tuttavia mai di lavorare alle proprie opere letterarie.
Le sue carte - ivi compresi numerosi manoscritti -
sono conservate presso gli Archivi di Letteratura
Svizzera di Berna (Biblioteca Nazionale).
La
figlia prodiga e altre storie, Roma, LaTartaruga,
2005, pp. 331
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Alice
Ceresa |
Alice
Ceresa, a.c. di Barbara Fittipaldi, Roma, 2004,
pp. 86.
Il volumetto, edito dalla
curatrice delle opere di Alice Ceresa, Barbara
Fittipaldi, raccoglie una serie di scritti di
e sulla scrittrice italo-svizzera: una lunga
intervista rilascita a F.Guardiani per "The
Review of Contemporary Fiction" (1991),
due testi inediti di Ceresa (Emily Brönte
e La scrittura e la mucca pazza),
gli interventi di Patrizia Zappa Mulas (Alice
Ceresa: l'esperimento di essere in due lingue)
e Juliane Cohen-Tanugi (La famiglia nelle
opere di Alice Ceresa), per convegni tenuti
a Brunico (2002) e Aix-en-Provence (1991), un
articolo di Alice Vollenweider sui "Quaderni
Grigionitaliani" (La macchina della
famiglia, 1990) e una bio-blibliografia
della scrittrice.
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A
écouter: Scène d'intérieur avec fillette (en
français) |
Alice
Ceresa (en français)
Scène
d'intérieur avec fillette (Bambine)
Traduit de l'italien par Adrien Pasquali
(Ed. Zoé, 1993) - Lu par Luisa
Campanile
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Dans un environnement historiques, social
et familial minimal, deux fillettes se débattent
pour échapper aux illusions et aux
contraintes paternelles qui les engluent.
Pourtant les mensonges et les tromperies qu'elles
forgent pour survivre concourent à
accroître un sentiment de faillite inexorable.
Sous son apparente banalité, la machine
familiale se révèle être
une machine infernale que l'auteur restitue
avec précision et froideur, en pratiquant
une sorte de dissection anatomique objective.
Véritable réquisitoire contre
le père ces Scènes d'intérieur
avec fillettes révèlent toute
la folie latente, l'horreur inexprimée
et la sourde violence qui lient les protagonistes.
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Da
ascoltare : La figlia prodiga (Raniero
Fratini) |
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La
figlia prodiga (in italiano)
"Inserto"
a.c. di Raniero Fratini
Radio Svizzera Italiana
Rete2
Con
le voci di
Alice Ceresa, Patrizia Zappa Mulas, Tatiana
Crivelli, Monika Schüpbach
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Documenti
d'archivio |
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Intervista
a Annetta Ganzoni e Monika Schüpbach (Pierre
Lepori) |
Le prime prove letterarie
di Alice Ceresa sono il racconto Gli altri
sulla rivista di Guido Calgari "Svizzera
Italiana" (1943) e Sabina e il fantasma
su "Botteghe Oscure" (1952): quali
le caratteristiche di queste prime pubblicazioni
di Alice Ceresa? La fortissima componente sperimentale
che troveremo nei due romanzi è già
rintracciabile precocemente?
Occorre dire, per cominciare,
che il materiale approdato nel 2003 presso l'Archivio
Svizzero di Letteratura non è ancora
stato studiato dettagliatamente.
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© Archivio
Svizzero di Letteratura
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Secondo le prime superficiali costatazioni
si può comunque notare che testi degli anni giovanili
sono composti in uno stile molto più tradizionale.
La scrittura sperimentale, per Alice Ceresa, fu il frutto
di un lungo lavoro personale di ricerca stilistica.
L'esordio narrativo (in volume)
avviene nel 1967, due anni appena dopo il secondo congresso
di Palermo (in cui il Gruppo '63 aveva discusso del Nouveau
Roman): ma La figlia prodiga attendeva d'essere
pubblicato già da alcuni anni (un estratto viene
pubblicato da "Menabò" nel 1965). L'influsso
delle nuove teorie romanzesche è evidente in quest'opera
meta-narrativa che anticipa i maggiori titoli degli autori
della neoavanguardia italiana: Il gioco dell'oca di
Sanguineti (1967), La vita eterna di Camon (1972)
Pinocchio, un libro parallelo di Manganelli (1977),
Se una notte d'inverno un viaggiatore di Calvino
(1979). Quali furono i contatti con questi esponenti della
cultura italiana dell'epoca? Quanto Ceresa ne fu influenzata
e quanto invece la sua conoscenza della letteratura tedesca
e francese le consentirono un accesso diretto agli autori
dell'avanguardia europea (Esercizi di stile di Queneau,
che in Italia Eco traduce solo nel 1983)?
C'è chi sostiene che Alice
Ceresa avesse spesso insistito sul fatto di non appartenere
all'avanguardia letteraria. Al contempo, tuttavia, non si
può dimenticare il sostegno che la scrittrice ricevette
da parte di alcuni rappresentanti del Gruppo '63. E va detto
che Ceresa partecipò di persona al quarto incontro
del Gruppo, che si svolse a La Spezia, nel giugno 1966:
si trattò di un incontro di lettura, a cui presero
parte, presentando il loro lavoro, oltre ad Alice Ceresa,
anche alcuni grandi nomi del movimento d'avanguardia come
Alfredo Giuliani, Adriano Spatola, Antonio Porta; ed anche
alcune donne, come Patrizia Vicinelli e Amalia Rosselli;
altri scrittori presenti furono Vincenzo Accame, Nanni Cagnone,
Roberto Di Marco, Luciana Marucci, Cesare Milanese, Rossana
Ombres, Renato Pedio, Lamberto Pienotti, Gaetano Testa,
Luigi Tola, Vincenzo Torricelli. Tuttavia: dalle testimonianze
presenti all'archivio bernese, abbiamo più spesso
l'impressione di una scrittrice che aspirava ad una grande
autonomia, a tutti i livelli, soprattutto dal profilo letterario.
Alice Ceresa cercava il pensiero e l'azione indipendenti
dagli altri. Nemmeno i libri della biblioteca personale
dell'autrice (non tutti si trovano a Berna) lasciano trasparire
uno rapporto troppo stretto col Gruppo. Certo, si trovano
alcuni volumi degni di nota, in questo senso, come Ma
noi facciamone un'altra poesie 1964-1968 di Nanni Ballestrini,
oppure Il ragazzo morto e le comete, Sillabario 1, Sillabario
2 di Goffredo Parise. A questo si aggiunga che nel lascito
si è potuta rinvenire anche una modesta collezione
di articoli (una buona decina)sull'avanguardia; sono articoli
che l'autrice stessa raccolse e collezionò, da cui
si evince dunque un sicuro interesse per la questione.
Il romanzo d'esordio vinse il
Premio Viareggio Opera prima: quanto questa repentina consacrazione
letteraria ha contato per Alice Ceresa? E' stata anche in
qualche modo un'inibizione, oppure la decisione di pubblicare
con tale parsimonia è totalmente interna all'esigenza
estrema dell'autrice?
Il prestigioso premio fu una tappa
importantissima e un'affermazione inattesa nella carriera
letteraria della giovane scrittrice. All'epoca era convinta
che la "trilogia" non le avrebbe preso più
tanto tempo: lo dice lei stessa in un'intervista televisiva
con Eros Bellinelli, nell'agosto del1967. Fu festeggiata
tra l'altro da alcuni "padrini" letterari, quali
Italo Calvino o Ignazio Silone e il suo lavoro venne da
subito riconosciuto e valorizzato dalla critica. Evidentemente
Alice Ceresa era esigentissima e dotata di un forte senso
dell'autocritica. Se il premio invece sia stato anche un'inibizione
non è ancora chiaro, perché mancano ricerche
approfondite su questo aspetto. La letteratura era tuttavia
per Ceresa un bisogno quasi innato e il Premio Viareggio
non cambiò probabilmente il suo modo di fare e di
scrivere.
Il sottotitolo de La figlia
prodiga è Edificazione e sistemazione di un
personaggio; si tratta in effetti di un personaggio
femminile, anzi di un capovolgimento voluto della figura
evangelica del figliuol prodigo. In che misura Alice Ceresa
fu influenzata dalle teorie femministe dell'epoca, da quali
autrici in particolare, attraverso quali canali?
Non è ancora possibile, oggi,
dire niente di concreto: gli aspetti biografici della vita
di questa scrittrice sono ancora da studiare. Si può
tuttavia notare almeno che Alice Ceresa, in quanto donna,
non si sentiva membro della società a pieno titolo,
e questo deve averla molto offeso. Si pensi solo che il
padre non volle sostenere finanziariamente i suoi studi:
già tale decisione, per una ragazza energica, decisa
e interessata come Alice Ceresa, deve essere stata molto
umiliante e difficilmente accettabile (si veda la lettera
al padre citata nell'articolo
di Jacqueline Aerne).
Tutta l'opera di A.Ceresa ruota
intorno ad alcuni temi centrali: l'infanzia, la femminilità,
la famiglia patriarcale. Un retroterra autobiografico è
facilmente immaginabile, sebbene filtrato da una costante
ironia, da una sorta di luce gelida e beffarda. E' possibile
ricostruire dei riferimenti autobiografici nelle opere di
questa autrice?
Si può facilmente rintracciare
un "retroterra autobiografico" all'opera di Alice
Ceresa, ma non è questo che le interessava. Anzi,
ella stessa ha dichiarato (nell'intervista di Bellinelli
per la Televisione Svizzera Italiana) che la propria non
è mai stata una scrittura autobiografica. Uno dei
motivi per cui ha ripetutamente rielaborato il primo romanzo
era proprio il tentativo di trovare una forma di espressione
valida in generale (e non per il caso singolo). Nel paratesto
della Figlia prodiga si trova la seguente citazione di Alice
Ceresa: "Ho tentato di narrare un'avventura individuale
nella sua parabola vitale, sostituendo non solo a un personaggio
credibile un personaggio artificiale, ma anche al tessuto
narrativo convenzionale e "probabile" un testo
astratto, che fosse tuttavia in condizione di svolgere lo
stesso ruolo educativo e sensibile solitamente e per altro
genere di avventure affidato ad elementi quali la descrizione,
il dialogo, la sospensione ecc.". E' chiaro però
che l'esperienza personale della vita di famiglia e dell'essere
donna la segnarono profondamente. In una nota retrospettiva
sulla sua attività letteraria, la scrittrice costata:
"Scrivo da sempre, ho pubblicato poco. L'unico argomento
che mi interessa nello scrivere è la questione femminile:
ma non ho ancora capito se questo sia un bene o un male,
poiché investe anche il mio rapporto contrastato
con la letteratura" (Nascere già emigrata,
"Tuttestorie", n° 2, 1994, p. 38). Una
cosa è certa, però: Alice Ceresa detestava
l'autobiografismo e dal profilo letterario cercava ben altro.
Cercava anzi di "tener fuori" o di eliminare gli
elementi più personali nei suoi testi (difficile
- allo stadio attuale delle ricerche - dire se ci sia riuscita
o meno).
Il volume recentemente pubbicato
da La Tartaruga raccoglie la quasi integralità della
produzione di Alice Ceresa. La scrittrice non ha tuttavia
mai smesso di scrivere e all'Archivi Svizzero di Letteratura
sono depositati diversi manoscritti. Che cosa ci rivela
questo materiale? Esistono testi che sarebbero ulteriormente
pubblicabili? La figlia prodiga e Bambine
erano i due primi elementi di una "trilogia",
che la scrittrice non ebbe il tempo di terminare: esistono
abbozzi o versioni della terza parte di questo trittico
romanzesco?
All'inizio della sua carriera Alice
Ceresa ha pubblicato anche vari racconti in versione tedesca.
Nell'archivio si trovano inoltre dei manoscritti e dattiloscritti
di vari testi a cui ha lavorato per anni, che però
non ha ritenuto pronti per la pubblicazione. Uno è
Il ratto delle Sabine, sviluppato negli anni 1945-1953,
probabilmente ispirato al film di Totò dallo stesso
titolo, uscito nel 1945. In questi materiali troviamo delle
prove teatrali in francese e in italiano, ed anche prose
nelle due lingue. Negli anni 60', dopo la Figlia Prodiga,
Alice Ceresa ha lavorato a Stratificazioni e negli
anni 70'-90', ad intervalli irregolari, al Piccolo dizionario
dell'ineguaglianza femminile. Quest'opera era incentrata
su una serie di "voci di dizionario" che - completate
- avrebbero offerto una summa concettuale sulla questione
femminile. Singole voci sono state rielaborate e utilizzate
in altri testi (Grammatica in Tuttestorie
6/7, 1996/1997, pp. 45-46), ma l'impresa del Piccolo
dizionario è stata poi completamente abbandonata.
È probabile che a scoraggiare Alice Ceresa sia stata
tra l'altro la pubblicazione del Sillabario dell'amico
Goffredo Parise, uscito nel 1972 e nel 1982; anche quest'opera,
oggi considerata il capolavoro di Parise, parte da voci
da dizionario, seppur con stile e intenzioni assai diversi.
Pur non essendo stato portato a termine, l'inedito dizionario
può essere considerato un'importante tappa stilistica
nel lavoro di scrittura che puntava a quel registro scarno,
preciso e sintetico che oggi ritroviamo in Bambine
(si veda il Facsimile 2004 degli Amici dell'Archivio
svizzero di letteratura). Per quanto attiene l'annunciata
trilogia, la terza parte non è facile da individuare
con certezza tra le sue carte; esistono varie ipotesi al
riguardo.
La lingua romanzesca di Alice
Ceresa è al contempo estremamente precisa e inattesa
(soprattutto sintatticamente): quali le sue caratteristiche
e quanto debbono al bi-linguismo dell'autrice (nata a Basilea,
formatasi poi in Ticino)? Quanto l'attività di traduttrice
ha influenzato uno stile che sembra "dato" una
volta per tutte sin dal principio?
Si potrebbe rispondere citando direttamente
Alice Ceresa, che sulla questione del suo bilinguismo -
e sull'emigrazione in particolare - si è espressa
molto chiaramente: "Mi è dunque successo
di nascere per così dire già emigrata. Come
spesso succede nella Svizzera quadrilingue, la mia famigliola
di lingua italiana si era trasferita nella Svizzera tedesca,
dove io appunto venni al mondo. Per cui, benché a
casa si parlasse la nostra lingua, la vita intorno a noi
si svolgeva nell'altra. E così immagino che ho incominciato
a capire quanto si diceva, e a parlare, in due lingue contemporaneamente
senza nemmeno rendermene conto. I bambini sanno sopportare
questo ed altro. La mia vita privata si svolgeva in italiano,
la mia vita sociale (giochi, asilo infantile e prime classi
elementari) in tedesco. Non ricordo traumi e difficoltà
apparenti, direi anzi che la cosa mi sembrava normalissima.
Le complicazioni incominciarono quando la famigliola si
ritrasferì nella sua terra di origine, anche le scuole
subentrarono in italiano, l'intera comunità si esprimeva
come noi a casa, e io mi ritrovai con una lingua in più
che non solo non serviva a nulla, ma aveva pure degli strascichi
estremamente fastidiosi: per esempio pronunciavo automaticamente
l'alfabeto in tedesco per il grande sollazzo della classe
[
]. Il problema linguistico mi si pose dunque in qualche
modo all'inverso, ma pur sempre come problema, e senza dubbio
mi diede da riflettere, non so con quanta fortuna per la
correttezza dei miei ragionamenti; so però che tentai
in tutti i modi di dimenticare quella seconda lingua che
non mi poteva e non mi doveva corrispondere più.
Incominciai perfino ad aborrirla, al punto di rifiutare
qualsiasi lettura in tedesco: il che per un topo di biblioteca
che ero rappresentava un sacrificio immane. Suppongo che
ero incappata in un problema di identità. [
]
Ho poi imparato altre lingue, ho abitato in svariati paesi,
non ricordo estraniamenti di nessun genere se non sempre
riferibili alla lingua" (Nascere già
emigrata, in: Tuttestorie. Racconti Letture Trame
di donne, nr.2 nuova serie, novembre 1994, pp.38-39).
Quali contatti Alice Ceresa mantenne
con la Svizzera, i suoi intellettuali, gli scrittori? Ci
fu uno scambio, un influsso, una nostalgia?
Alice Ceresa ha certamente mantenuto
dei contatti con la Svizzera e con i rappresentanti della
Svizzera a Roma. In primo luogo, ogni estate andava in "pellegrinaggio"
a Cama, in Mesolcina, per rivedere la famiglia. Inoltre
in alcuni scritti ha spiegato la sua visione del paese natio.
Era però piuttosto schiva e non viaggiava volentieri.
In Svizzera tornò tuttavia anche per motivi letterari:
nel 1992 accettatò l'invito alle Giornate Letterarie
di Soletta e prese parte al Battello per tra-durre,
organizzato della Collana CH, nell'edizione del 1998.
Dal carteggio possiamo evincere poi una serie di contatti
epistolari con singoli autori, dalla psicanalista Aline
Valangin, a Gerold Späth (di cui tradusse Commedia,
per la Sellerio), da Maja Beutler a "datori di lavoro"
come la Pro Helvetia, senza dimenticare i critici letterari,
come Alice Vollenweider e Heinz Schafroth (che riceveva
volentieri a Roma). Non si trovano note nostalgiche nel
lascito: sembra che Alice Ceresa non si sia mai pentita
della sua emigrazione.
Intervista raccolta da Pierre Lepori
© Le Culturactif, mars 2005
* Annetta
Ganzoni è conservatrice dei fondi italiani
e romanci dell'Archivio Svizzero di Letteratura (ASL), presso
la Biblioteca Nazionale di Berna, ove sono depositati dal
2003 gli archivi personali di Alice Ceresa, attualmente
in corso di riordino.
** Monika
Schüpbach, ricercatrice, lavora attualmente
a una tesi di dottorato sull'opera letteraria di Alice Ceresa.
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Ritratto
della figlia prodiga (Patrizia Zappa
Mulas) |
Ci sono scrittori per lettori, e
ci sono scrittori per scrittori. Non è una distinzione
pedante. Alla seconda categoria appartengono tutti i giganti
che i sondaggi non registrano nelle classifiche dei più
letti ma che possono sempre diventare fatali per un lettore
appassionato. Ci vuole il tarlo, la tara, la pazzia letteraria.
A questa categoria appartengono anche scrittori contemporanei
che hanno scelto la strada in salita dell'esperimento. Alice
Ceresa è tra questi autori di cui si innamora soprattutto
chi scrive o chi ha con la letteratura un rapporto serio,
sostanziale, non di puro passatempo.
Ho conosciuto Alice Ceresa nel 1989, pochi mesi prima dell'uscita
del terzo e ultimo testo che ha consegnato alla stampa,
Bambine. L'ho conosciuta nell'unico modo in cui era
possibile conoscerla - attraverso un'amica comune. Pochi
scrittori ho visto rifuggire con tanta cura dall'esposizione
pubblica, la mondanità, la vita sociale. Mi ricordo
lo sguardo dell'amica, mentre salivamo le scale di via S.
Erasmo, che mi avvisava del valore di quella occasione,
di quel privilegio - me ne sarei accorta pochi minuti dopo:
Alice era poco accessibile perché era davvero preziosa.
La sua casa le somigliava in modo puntuale: piccola, armoniosa,
centrata intorno a uno studiolo caldo di legno, imbottita
di libri, di edizioni originali che disegnavano una specie
di mappa dei suoi vagabondaggi nella lingua tedesca, italiana
e francese e riflettevano la sua storia di lettrice coltissima,
di traduttrice accurata, di europea rifugiata a Roma. Una
casa di classe, insaporita dal tempo, comoda come una baita,
appollaiata sulla città e circondata da un'immensa
terrazza. Alice Ceresa era riuscita a trasformare il tetto
di un edificio romano in un vero rifugio letterario, nell'eremo
dello scrittore che ha bisogno soprattutto di silenzio,
di luce e di piccoli conforti.
La riservatezza con la quale Alice Ceresa ha protetto per
tanti anni la propria ricerca dopo l'esordio della Figlia
prodiga (premio Viareggio Opera prima '67) è
il riflesso di una passione intellettuale tanto forte da
non avere bisogno di nient'altro per alimentarsi. Il silenzio,
la tranquillità, la scelta di pochi e selezionati
contatti col mondo le erano indispensabili per concentrarsi
e affrontare l'unica cosa che le interessava: trovare una
forma adatta per scrivere la radice dell'esistenza femminile.
La radice, e cioè quella parte invisibile e decisiva
per la pianta. Stare nel cono d'ombra del proprio tempo
può significare aver intrapreso una strada siderale.
Era nata (a Basilea) in una famiglia patriarcale e soprattutto
in un paese statico (la Svizzera) dove questa parola costituiva
un solido sistema giuridico. Se ne era andata dalla casa
paterna di Bellinzona a sedici anni, nel 1939, e da quel
momento aveva cominciato a spostarsi tra la dolce costa
francese e l'intellettuale Zurigo (dove aveva stretto amicizia
con molti fuoriusciti italiani tra i quali Luigi Comencini,
Franco Fortini, e soprattutto Ignazio Silone che nel '50
l'avrebbe chiamata a Roma come redattrice di Tempo presente).
Le conseguenze interiori del distacco da quella forma di
famiglia e (di società) sono state il carburante
di tutta la sua ricerca. Alice Ceresa non ha mai sottovalutato
la rivoluzione femminile tanto da poterla liquidare col
vittimismo e tanto meno con la sociologia. Per trovare una
definizione di Alice Ceresa si potrebbe dire che era l'opposto
assoluto dello scrittore italiano di costume, oppure l'incarnazione
letteraria di una mente sistematica. La sua si potrebbe
considerare una fenomenologia poetica di alcune emozioni
e affezioni di base.
[
]
Ho il profondo e ottuso convincimento che le appartenenze
al proprio paese siano di natura essenzialmente linguistica.
A me è capitato di nascere già emigrata. Suppongo
di essere incappata in un problema di identità.
E' del 1994 l'intervista su Tuttestorie che anticipa
le grandi discussioni sull'identità linguistica.
Alice Ceresa scelse alla fine di scrivere in italiano dopo
aver provato col tedesco e il francese. Si potrebbe dire
che scrivesse in italiano il suo essere poliglotta, e questo
non denuncia solo la sua storia di svizzera italiana in
fuga verso la luce di Roma passando per il tedesco e il
francese, ma soprattutto la sua originale combinazione di
sensibilità lirica e ironia. Il suo italiano è
una pura invenzione, una maschera linguistica del tutto
personale, come se a parlare fosse un personaggio che ha
con questa lingua e (questa identità) un rapporto
dislocato, del tutto creato dall'intelligenza. C'è
forse l'ombra della costruzione latina (fu Maria Corti a
indovinarla) ma Alice Ceresa non aveva col latino nessun
rapporto. In realtà il suo italiano ha un inconscio
fondo germanico, una durezza d'acqua calcarea, una eccezionale
profondità concettuale, è un italiano in bianco
e nero, senza fragranze dialettali, senza l'immediatezza
del linguaggio spontaneo. Un italiano aureolato di tedesco.
Ciò che preserva l'opera sperimentale di Alice Ceresa
dal formalismo, e cioè dalla vanità, è
proprio l'ironia radicata che sottrae ogni sentimentalismo
al suo problema esistenziale. Non è mai un esercizio
di stile, è una necessità morale. La novità
della condizione della donna reclama una nuova definizione,
cioè un modo adeguato di formularla. Una presa di
distanza del genere è tutta al servizio di una visione
lucida. I temi letterari e i generi sessuali, la famiglia
e l'infanzia si stagliano contro un cielo metafisico nel
quale l'ovvietà del mondo è completamente
svanita.
In realtà Alice Ceresa ha sempre l'aria di essere
incappata nell'età del diluvio universale e di essere
capace di ignorarlo. Un mondo è finito, la letteratura
ha liquidato gran parte delle proprie forme, non si può
che voltare pagina, immaginare il futuro e per farlo è
indispensabile estrarre le radici della nostra dissestata
esistenza e sottoporle a un esame lucido fino alla crudeltà.
Non si può contare su nessun acquisizione, su nessun
luogo comune: neppure quello per cui un personaggio debba
avere un nome. L'uso del nome impersonale nei libri di Alice
Ceresa è una di quelle cartine al tornasole che rivelano
tutta la sua capacità di erosione linguistica.
Può sembrare paradossale che proprio il condizionamento
sociale dell'individuo possa costituire un aspetto astratto
di questo individuo: a me pare che sia un visione corretta
della realtà. Dopotutto, l'individuo vive nella società
ma con se stesso. Qui sono senz'altro in polemica con il
romanzo odierno tradizionale e il suo frivolo e ancora una
volta romantico accoglimento della persona sovrastrutturata
come "misura umana": dove poi la misura umana
ognuno la interpreta a modo suo, chi con il coefficiente
tecnologico, chi con quello politico, chi con quello sociologico,
mentre l'analisi psicologica è ormai entrata nel
sangue di tutti. Ma io non credo che la misura umana abbia
bisogno di interpretazioni: ha piuttosto bisogno di una
nuova e più aggiornata definizione. Altrimenti continueremo
ad avere il marito, la moglie, l'amante, l'impiegato, l'industriale,
non meglio differenziati di quanto lo fossero il buono e
il cattivo di una volta. A me sembra che non possa nuocere
essere un po' più realisti anche se la scrittura
dovesse riuscirne di più difficile e complessa natura.
Ecco perché anche in Bambine Alice Ceresa
ha continuato a accumulare le sue inversioni sintattiche,
le interruzioni e i rallentamenti ritmici, le disposizioni
abnormi di articoli e avverbi e digressioni che avevano
definito lo stile della Figlia Prodiga e le sue decisive
divagazioni a margine. Negli anni questa tecnica è
diventata così sicura da conquistare, senza perdere
tensione, anche i dettagli concreti della famiglia, anzi
delle sue figure. E il tono del racconto diventa tanto più
impersonale quanto più personale e allarmante si
fa il discorso: i passaggi più astratti e vertiginosi
sono proprio quelli che riguardano l'intimità di
un essere al cospetto di se stesso. Dopo Joyce e la Woolf
il flusso di coscienza siamo abituati a leggerlo in forma
di monologo, cioè nei suoi contenuti. Alice Ceresa
invece ha cercato di scriverne il contenitore. [
]
Patrizia Zappa Mulas
Estratto dall'Introduzione a
La figlia prodiga e altre storie
© La Tartaruga, 2005
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Rassegna
stampa |
Il primo libro di Alice Ceresa, La
figlia prodiga, faticò molto a essere publicato.
Eppure erano tempi di sperimentalismo. Nel dicembre del
'63, Elio Vittorini concludeva una sua lettera alla scrittrice
svizzera dicendole di avere "apprezzato"
il romanzo, ma aggiungendo: "Non lo ritengo, tuttavia,
un testo pubblicabile". Non aveva torto.
Tutto è La figlia prodiga fuorché un'opera
fatta per piacere ai lettori. "Spostando l'analisi
psicologica (di carattere) sul piano della pura logica formale,
- scriveva Vittorini nella stessa lettera - lei ha costruito
più che un racconto un "sillogismo narrativo"
apprezzabile, ritengo, solo da degli iniziati".
Sì, è vero. Maria Corti inserisce il primo
libro della Ceresa in quel filone neosperimentale (in cui
c'erano Manganelli e Vassalli) che rifiutando il romanzo
tradizionale adottava, per raccontare, un genere d'altri
tempi come il trattato. Rivisto dalla scrittrice sui consigli
dello stesso Vittorini e anticipato nel '65 dal Menabò,
il libro sarebbe uscito due anni dopo da Einaudi. Ritorna
ora in un solo volume con gli altri due soli "racconti"
che Alice Ceresa (1923-2001) pubblicò in vita. Una
vita passata per cinquant'anni a Roma (la Ceresa nasce a
Basilea da madre di lingua tedesca e padre ticinese, ma
dopo qualche esperienza giornalistica in Svizzera si trasfrisce
in Italia dove sarà, tra l'altro, ottima traduttrice
dal tedesco, per esempio di Canetti). Parlare di racconto
è un azzardo, perché la dimensione narrativa
viene ridotta ad analisi fredda dei legami familiari, tutta
costruita su nessi logici e astrazioni, un romanzo mentale,
senza intreccio né descrizioni né dialoghi,
che seziona infanzia, giovinezza e maturità di una
progatonista ipotetica e senza nome. La "figlia prodiga"
è colei che con un atto di rivolta butta via un patrimonio
sociale codificato da secoli.
Il "romanzo" affronta insomma, come ebbe a dire
l'autrice, "la condizione esistenziale femminile"
ma con moduli e punti di vista per nulla scontati o ideologici.
Il secondo testo è un'opera più breve ma più
matura, che esce nel '79 sulla rivista Nuovi Argomenti:
la curatrice del volume Patrizia Zappa Mulas evoca giustamente
Bacon. Qui il "referto anatomico" non è
così esibito cone nel precedente, sicché più
che il tessuto freddo della prosa si percepisce qualcosa
di agghiacciante nel racconto della cerimonia funebre che
segue alla Morte del padre (questo il titolo) vissuta
dalla moglie e dai tre figli (un maschio e due femmine).
Questa volta i personaggi sono personaggi, sia pure ancora
agiti, nonostante tutto, dal "patriarca" scoparso.
Ultima e anch'essa bellissima tappa di una trilogia che
la Ceresa avrebbe voluto perfezionare pubblicando un nuovo
libro, è Bambine (sempre Einaudi, 1990): c'è
anche qui la famiglia patriarcale, un padre percepito come
violento e una madre triste, c'è la figlia maggiore
e c'è la minore, c'è un'infelicità
che aleggia e forse un mistero da scoprire ma sorpattutto
c'è la "micidialità" della Ceresa,
una quotidianità talmente normale da apparire terribile.
Questo è Alice Ceresa, che scelse di scrivere in
italiano nonostante il suo bilinguismo. E questo scegliere
una lingua non propria, insieme alla forza micidiale della
sua prosa, la mette idealmente a fianco di un'altra "esule"
solitaria come Agota Kristof.
Paolo di
Stefano
23 gennaio 2005
In ihrem ersten Roman ging sie in
der Verfremdung so weit, dass sie in sein Zentrum eine Hypothese
stellte: Die verschwenderische Tochter ist das weibliche
Gegenstück zum "verlorenen Sohn" der Bibel:
eine mögliche, aber keine wirkliche Figur, eine Projektion,
die nicht mit realistischen Mitteln dargestellt werden kann.
Anderseits sind aber ihre Haupteigenschaft und ihre Geschichte
durch die Parallelsetzung zum "verlorenen Sohn"
so genau bestimmt, dass ihr Fall auch der Phantasie keinen
Raum zur Entwicklung bietet. Die "verlorene Tochter"
ist eine durch und durch künstliche Figur - sie lässt
sich höchstens durch Sätze einkreisen, in ihrer
Substanz aber per definitionem nicht erfassen - und zugleich
ein sozialkritisches Argument. Die blosse Tatsache, dass
sie verschwenderisch ist, macht sie zur gefährlichen
Einzelgängerin, die sich über die Verhaltensnormen
von Gesellschaft und Familie hinwegsetzt. Ihr Anderssein
impliziert die bedenklichsten Entwicklungen; sie ist eine
potenzielle Revolutionärin, weil ihre Geschichte -
im Gegensatz zu derjenigen des verlorenen Sohnes - noch
nicht geschrieben wurde. Ganz anders verhält es sich
bei Alice Ceresas letztem Roman, "Bambine", der
die beklemmende, aber reale Geschichte von zwei kleinen
Mädchen erzählt, die im Schoss einer Familie aufwachsen,
deren Zwangscharakter sich von Seite zu Seite deutlicher
enthüllt. Ihre schwierige Entwicklung zu Erwachsenen
vollzieht sich in einer Atmosphäre der Ungewissheit,
des Verdrängens und Verschweigens, die vom unbarmherzigen
Mechanismus des Familienalltags beherrscht wird. Unheimlich
und monströs ist auch der Blick in die Nachbarhäuser,
wo irre Mütter, debile Väter und kranke Töchter
leben, was man sich aus heimlichem Spionieren und den Anspielungen
der Eltern zusammenreimen kann. [...]
Alice Vollenweider
27. Dezember 2001
A quella "deformità"
rappresentativa ("introducendo cibo nelle varie bocche")
si aggiunge (sto sempre alla prima pagina) una sorta di
voluta trasandatezza, una sorta di "così nel
mio parlar voglio essere aspro" per dirla con il Dante
delle Rime per la donna Petra. Trasandatezza che si adegua,
è omologa alla natura di "sotto-vuoto"
che è la famiglia (come il salato del supermarket):
vedi "nell'espletamento delle singole funzioni",
"raccolte all'uopo". Dalle bocche che infornanon
cibo si può passare a "manine poco prensili",
dove il prensili sa di scimmiesco, non escludendo il pube
(p.91: "Specie se immerse nella vasca da bagno la peluria
può essere pettinata e munita di scriminature in
tutti i sensi...". Si può passare, in serrati
andirivieni, ai componenti stessi del "nucleo sotto
vuoto": alla madre per esempio ("Per la bambine
naturalmente è soltanto una madre e così senza
tanti complimenti non la vedono nepure."), al padre
("Quest'uomo comunque appare correttamente impantalonato
senza sfoggio di alcun pacchetto in vista, ma fieramente
inalberando baffi mostruosi". "Se le figlie non
avessero il problema dei denti e dei capelli non avrebbero
probabilmente il problema del padre."). Che libri come
Bambine e La Figlia prodiga siano stati publicati dalla
Einaudi à già una garanzia "esterna"
del valore di un scrittrice come la mesolcinese Alice Ceresa.
Scrittrice vittoriosamente impostasi oltre le nostre frontiere.
La perdita per le lettere della Svizzera italiana è
grande. La partecipazione nostra di lettori al dolore dei
congiunti è anche commisurata a quella perdita.
Giovanni Orelli
27 dicembre 2001
Dicono che non sia importante ficcare
il nasco nella vita privata di uno scrittore. Eppure, di
fronte a un libro soprendente e insolito come Bambine di
Alice Ceresa viene davvero il desiderio di saperne di più.
[
] Che sia la sofferenza tenace del libro analoga
a quella dell'autrice? Chissà. L'enigmatica Alice
Ceresa fa di tutto per allontanare, distanziare, straniare.
Con procedure stilistica di calcolato manierismo, al limite
della stramberia espressiva, prossima alla disperazioen
dell'esistere, di cui, vicino agli anni '60, ci ha finemente
parlato Ludwig Binswanger (Tre forme di esistenza mancata).
Un linguaggio fittissimo di cerniere avversative auliche
e curiali: benché, sebbene, tuttavia, invece,
nondimeno, del resto; la sostenutezza pomposa degli
all'uomo, in vero, si sa, per così dire; la
linearità del periodo resa volutamente disarmonica
dall'improvvisa inserzione di gerundi che aggiungono al
resoconto il colore di un'enfasi stralunata. Come se nessuno,
al mondo, potesse raccontare in maniera attendibile la storia
delle piccole e grandi miserie della socità umana.
Epppure, dietro la maschera, il libro di Alice Ceresa ci
appare ben altro. Un lungo addio agli anni perduti - detestabili
ma fulgidi nella loro inesistenza - che soprattutto ci turba
e commuove. Un necrologio per le illusioni, le speranze
e gli affetti, dove l'autrice sembra accennare con la mano
al suo "doppio", un'esile figura-bambina a due
teste, che si perde lontano, verso la linea dell'orizzonte.
Lei sì, dimentica di un ultimo saluto
Giovanni
Pacchiano
13 maggio 1990
Perché Alice Ceresa ha scritto,
o ha pubblicato, così poco? Non saprei rispondere,
certo è che Ceresa sembra la più dotata e
insieme la più trascendentale esploratrice di quel
fenomeno umano che è il disastro di crescere. [
]
Una scrittura micidiale come quella della Ceresa si spiega
forse, in parte, alla luce della fenomenologia e della logica
di Husserl (per certi versi viene in mente Esperienza
e giudizio). MI stupirei se la scrittrice dichiarasse
di non aver mai letto il filosofo. Sebbene le sue narrazioni
non siano affatto analisi fenomenologiche, la parentela
con queste mi pare innegabile; e lo dico, sia ben chiaro,
per lodare la sua originalità, l'attitudine a trasformare
un metodo filosofico in uno stile di scrittura [
]
Che cosa racconta in realtà il libro [Bambine]?
L'inabissamento dell'infanzia, e dunque anche dell'età
adulta, nell'ottusità o nella dissimulazione della
memoria. Le formule che ricorrono nella traccia fantasmatica
del disegno sono formule di silenzi, mutismi, inconsapevolezze.
"Anche parlandone in seguito, le due sorelle non
trovarono nulla di speciale da aggiungere
"; "non
seppero o non vollero dire"; "qui si stenta una
volta di più a seguirlo": allo sbocciare della
pubertà "con grande sorpresa le vediamo restare
tale e quali, per quanto perlomeno riguarda la loro intelligenza
delle cose in particolare e in generale". Le due
sorelle pare si sposassero in giovane età, disderose
"anzitutto di cambiare casa". E questo
è tutto. Praticamente.
Alfredo Giuliani
7 aprile 1990
[
] Risposta ancora più
graffiante dà la stessa Alice Ceresa rispondendo
a domande di F. Guardiani per " Italian Fiction Today
" , autunno 1995 ( si veda il citato quaderno, pp.
3-10). Alla osservazione dell' intervistatore per il quale
" Il tuo stile è ostentatamente distaccato,
neutro, clinico (
) " , la Ceresa risponde
(tra l' altro: tutta la intervista è da leggere):
" Non mi interessavano i ricordi personali, e anzi
andavano banditi in favore di una descrittività pura
e semplice. Un poco come procede l' etologia con la sua
osservazione della vita degli animali: che mai potranno
dirci che cosa pensano loro non solo della propria vita
ma anche delle interpretazioni che noi ne ricaviamo. La
mia idea è che anche i bambini vivono in realtà
l' infanzia a questo modo, prima che possa essere trasformata
dal senno di poi " . Certo che un lettore della
Ceresa, come un lettore di Pizzuto, che nel suo " sperimentare
" si muove su vie completamente diverse, potrebbe anche
dire, e senza malizia, che " ci si stanca di ammirare
" . La Ceresa, e lo si è ricordato poco fa con
sue stesse parole, sa che " è difficile parlare
dell' infanzia in modo possibilmente oggettivo, vale a dire
osservante, perché è l' esperienza più
oscura di ognuno di noi viventi, credo " . Ma quando,
e salto, prima di chiudere, a La figlia prodiga ,
qui p. 120 e sgg., quando parla di simulazione e dissimulazione
con avvocateschi cavilli che si stendono per più
pagine, non si può non pensare alla sovrana, lucida
brevitas di un Francesco Guicciardini, che in tre righe
fotografava mirabilmente e simulazione e dissimulazione
( Storia d' Italia VI, ii). [
]
Giovanni Orelli
9 marzo 2005
Page créée le: 28.02.05
Dernière mise à jour le 10.03.05
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