Alcuni anni fa, nei suoi percorsi e studi da storico, Barbero ha incontrato una storia che non poteva essere racchiusa in un saggio. Ed è quella di "Alabama", che pur non essendo nato come reazione alla storia recente ne anticipa i motivi profondi, scandagliandone l'oscurità delle viscere. È la vicenda di un eccidio di neri, di «negri», durante la Guerra di Secessione, la prima grande lacerazione nazionale che divide il paese tra chi vuole bandire la schiavitù e chi non ne ha nessuna intenzione. Ed è la storia di bianchi pulciosi e affamati che vanno in guerra per pochi spiccioli e che sentono il diritto naturale di fare dei negri quello che vogliono. Tutto questo diventa il racconto fluviale, trascinante, inarrestabile, dell'unico testimone sopravvissuto, Dick Stanton, soldato dell'esercito del Sud, stanato e pungolato in fin di vita da una giovane studentessa che vuole ricostruire la verità. Verità storica e romanzesca, perché Barbero inventa una voce indimenticabile, comica e inaffidabile, logorroica e irritante, dolente e angosciosa, che trascina il lettore in quegli abissi che ancora una volta si sono riaperti. Il nuovo romanzo di Barbero va davvero a toccare i tratti del carattere americano che sono deflagrati negli eventi dell'ultimo anno e degli ultimi mesi: la questione del suprematismo bianco, il razzismo profondo che innerva persino le istituzioni, la mentalità paranoica, l'orgoglio e la presunzione di farsi giustizia da sé, la violenza che scaturisce dalla povertà, dalla rabbia, da ciò che si vive come ingiusto sulla propria pelle e che si rovescia su chi è ancora più debole.
Si laurea in lettere nel 1981 con una tesi in storia medievale all'Università di Torino. Successivamente perfeziona i suoi studi alla Scuola Normale Superiore di Pisa e nel 1984 vince il concorso per un posto di ricercatore in Storia Medievale all'Università degli studi di Roma "Tor Vergata". Nel 1996 vince il Premio Strega con il romanzo "Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo". Dal 1998, in qualità di professore di Storia Medievale, insegna presso l'Università degli Studi del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro". Oltre a saggi storici, è anche scrittore di romanzi. Collabora con il quotidiano "La Stampa", e lo speciale "Tuttolibri", la rivista "Medioevo" e con l'inserto culturale del quotidiano "Il Sole 24 Ore". Dal 2007 collabora ad una rubrica di usi e costumi storici nella trasmissione televisiva "Superquark". Il governo della Repubblica Francese gli ha conferito il titolo di “Chevalier de l’ordre des Arts et des Lettres”.
Il libro di Barbero è ottimo, un lavoretto brillante e difficile da incasellare. E' strutturato come un bolero: la voce narrante investe il lettore con una ridda di nomi di persone e nomi di luoghi, fulminei aneddoti incastrati l'uno nell'altro, e senza rendersene conto il lettore è già preso nel crescendo che corre verso il finale.
Per decidere cosa scrivere e cosa non scrivere in queste note ho perso il sonno, e alla fine sono giunta alla conclusione: meglio che leggiate le recensioni di @Paolo e @Albus, sono più complete e meno sbrodolate del mio sproloquio.
Questo libro fa sembrare la Storia una cosa piccola. I secoli sono cose immense, dovrebbero pesare come macigni, eppure con un po' di fortuna una persona può arrivare a percorrerne uno da un capo all'altro. Un tizio che avesse partecipato da giovinastro - diciamo vent'anni circa - alla guerra di secessione e che fosse riuscito a riportare a casa la pelle intera, agli albori della seconda guerra mondiale si ritroverebbe sulla soglia dei cent'anni. Non facile ma neanche impossibile, anzi, qualche caso ci sarà stato senz'altro. Ora che ci penso, la cosa vale alla stessa maniera anche al di qua dell'oceano: uno che da giovane avesse partecipato al Risorgimento, agli inizi della seconda guerra mondiale se ne starebbe lì con il peso dei suoi anni e dei suoi ricordi e potrebbe ben dire di averle viste tutte: se la guardi sotto questo punto di vista, la Storia sembra ripiegarsi su sé stessa, o meglio, sembra accorciarsi, proprio come con la teoria della relatività; e a proposito: ci sarà stato qualcuno che si sia preso la briga di andare a intervistare di persona, che ne so, uno dei mille di Garibaldi? Uno spunto interessante per future letture e/o ricerche.
Torno da Barbero: leggere Alabama a distanza di poco tempo da Via col vento (o viceversa) è un valore aggiunto per entrambi i libri, si arricchiscono a vicenda proprio grazie alla diversità tra i due. Grazie alla Mitchell in Via col vento abbiamo già fatto qualche conoscenza con i bianchi più poveri che possiedono solo uno schiavo o due, e con quegli straccioni bianchi che nella seconda metà dell'Ottocento negli stati del sud in America coltivavano una mezza biolca di cotone nei pressi di paludi mefitiche, terreni che nessun altro avrebbe mai voluto, e svolgevano occasionalmente qualche lavoretto per i grandi proprietari terrieri. Barbero racconta nuovamente la storia della Guerra di Secessione entrando più nello specifico nel punto di vista di personaggi come questi, guardati dall'alto in basso dai bianchi più facoltosi perché da essi ritenuti poco di più che un ingombro, e odiati dai neri perché lo schiavo nero si identifica con il suo padrone, la sua tenuta e il suo "clan", e dunque in ogni caso si reputa migliore e più utile di quei poveracci. Arruolarsi per la Sacra Causa rappresenta per questi bianchi un'occasione di ribadire la loro superiorità sugli odiati neri e così via di questo passo si sprofonda nei gironi infernali di un'autentica guerra tra poveri, che è quella che ci aveva già ottimamente illustrato la Mitchell, e che è quella che grossomodo vediamo e viviamo ancora oggi sia negli Stati Uniti con episodi di soprusi e intolleranze, ma tutto sommato anche in Europa con tutto quello che concerne i migranti provenienti dall'Africa. In questa illustrazione della guerra tra poveri sta la vera attualità del libro, più che nel riferimento al "rigurgito" di suprematismo bianco i cui recenti eventi più rappresentativi ed eclatanti mi pare di capire siano successivi alla redazione del libro (un po' come era avvenuto con il libro di Houellebeq, che se non ricordo male era uscito appena prima o forse appena dopo un attentato terroristico, dunque scritto in tempi non sospetti, ma che era automaticamente stato eletto a simbolo dei discorsi e dei dibattiti che si facevano in quei giorni). La questione razziale è centrale nel libro, se ne parla anche quando sembra si stia parlando d'altro, eppure rimane in un certo qual modo in sottotraccia: è un trama che si mimetizza con l'ordito. "Speriamo che adesso mi parli di quei negri, pensò la ragazza; e tutt'a un tratto realizzò che il vecchio stava parlando di negri fin dal principio, dei negri che avevano lasciato a casa a lavorare i loro campi quand'erano partiti per la guerra e che li conoscevano fin da bambini, e dei negri che erano lì con loro al campo e cucinavano e facevano il bucato per i soldati..."
Questione razziale al centro del discorso anche quando riesce a spiegare - con semplicità e con sincerità - quello che, ancora una volta, ci aveva già mostrato la Mitchell: che i neri erano ugualmente detestati sia da una parte che dall'altra, sia dai nordisti che dai sudisti.
Il vero intento del libro, il vero esercizio è quello del calarsi in un punto di vista: un punto di vista che noi in maggioranza e a parole ci rifiutiamo di condividere ma che per la seconda metà dell'ottocento era assolutamente normale, che nella prima metà del novecento sopravviveva a livello istintivo nelle persone anche a costo di farle ritrovare in situazioni contraddittorie ed incoerenti (posizione, questa, rappresentata con la studentessa-intervistatrice) ed infine che ancora oggi non è per nulla estinto. Direi che l'esercizio è riuscito perché lo scrittore si è calato nei panni e ha ricostruito ottimamente il suo personaggio. E sempre in tema di punti di vista, è estremamente centrato quel che osserva @Paolo nella sua recensione laddove dice che uno dei temi principali del romanzo è la fuorvianza del testimone oculare, il quale per forza di cose non ha la percezione dell'importanza dell'evento che vive (che ha vissuto), e sempre per forza di cose manca della necessaria prospettiva per rimettere insieme tutti i fatti dando loro il significato che invece sa attribuire ad essi lo storico. Aver saputo creare un personaggio il cui chiacchiericcio è perfettamente plausibile come resoconto di testimone oculare, e per di più un testimone non istruito ed ormai anziano, quindi anche un po' arteriosclerotico, tutto questo lavoro dimostra che Barbero non se la cava niente male neanche come romanziere oltre che come storico. Altro punto a favore di Barbero è quello di non (s)cadere nel tranello dell'info-dumping, rischio che era più che mai concreto per uno storico e ancora di più per un popolare divulgatore, e che invece viene assai abilmente scongiurato: in bocca al reduce qui protagonista non viene mai messa una parola fuori posto, egli non racconta mai un aneddoto o un evento o un'informazione che nella realtà non possa competere a quella che è la sua figura come la conosciamo sin dalle prime righe; l'autore è puntuale-preciso nel non distrarsi mai dal tenere ben presenti i confini del punto di vista del suo narratore. Una narrazione apparentemente semplice ma che rientra in quella categoria del "semplice non vuol dire facile".
«lasciateci attraversare il fiume e riposare all'ombra degli alberi» (Thomas “Stonewall” Jackson). Mentre nel Pacifico divampa lo scontro tra Stati Uniti e Giappone, a Magnolia, in Alabama, Dick Stanton, vecchio contadino, reduce della Civil War, racconta ad una giovane ricercatrice della sanguinosa battaglia di Chancellorsville. Seduto sulla sua cigolante sedia a dondolo e masticando tabacco, Dick racconta degli episodi della battaglia, vissuti da lui e dai suoi commilitoni, soldati dell'Armata Confederata della Virginia Settentrionale. Stanton racconterà dell'attraversamento del fiume Rappahannock da parte dell'esercito unionista la mattina del 27 aprile 1863, di Hazel Grove, della Foresta di Wilderness, dei tanti episodi di sangue (alla fine, si conteranno circa 30.000 vittime, tra morti e feriti), della morte di Thomas “Stonewall” Jackson che, ferito da fuoco ‘amico’ e dopo l’amputazione del braccio sinistro, muore il 10 maggio 1863. Si narra che le ultime parole del generale furono: «lasciateci attraversare il fiume e riposare all'ombra degli alberi». Novant’anni più tardi, Hemingway intitolò un suo romanzo Di là dal fiume e tra gli alberi. Stanton descriverà episodi e fatti di sangue, visti naturalmente attraverso gli occhi di un giovane del Sud degli Stati Uniti della metà dell’Ottocento, dove gli yankees sono gli invasori e dove per un bianco il possedere degli schiavi era vissuto come un diritto e l’inferiorità dei “negri” come una cosa ovvia. Ed è proprio di un fatto di sangue che riguarderà dei “negri” che la giovane intervistatrice vorrà sapere... Confesso di non aver letto niente di Barbero, e di aver invece ascoltato con interesse alcune sue affabulazioni storico-letterarie, ma ammetto che questo primo incontro mi ha incantato. in un’intervista del 2019, il professore afferma: «La storia è la capacità di studiare capendo le ragioni degli uni e degli altri, senza paura di dire che qualcuno ha più ragione.». E nel 2020 dice: «La storia è fatta dalla gente. La storia racconta la nostra vita.». Ecco, questo bel libro parla di questo.
Siamo durante la seconda guerra mondiale (lo si capisce da un paio di dettagli) ed una studentessa prepara la tesi di laurea che ha per argomento un atroce fatto di sangue di cui si è quasi persa traccia. Durante la guerra civile americana uomini di colore, ex schiavi, vengono trucidati barbaramente da soldati confederali. La laureanda scova un testimone (facendo i conti, quasi centenario) per avere notizie sui fatti. Dick Stanton (questo il nome del reduce) ricorda quella lontana guerra, narrando a ruota libera una congerie di fatti e citando una miriade di nomi- commilitoni, compaesani . Per quasi tutta la durata del libro elude le attese della ragazza soffermandosi su un sacco di altri particolari, che per lui erano ben più rilevanti, come la carenza di tabacco da masticare, le piaghe ai piedi per le lunghe marce e le scarpe scassate, il furto di un mulo. L'eccidio di un gruppo di negri evidentemente non aveva maggiore rilevanza per lui. Nella scheda si legge che è un libro che tocca l'attualità ed il rigurgito del suprematismo bianco che ha dato il meglio di sé nell'affare Floyd ed in occasione dell'assalto al Campidoglio. Sinceramente questo aspetto l'ho colto poco o nulla e se c'era non mi è sembrato granché interessante. Molto di più mi ha interessato il tema - caro agli storici - della differenza, anzi della contraddizione tra memoria e storia e quanto possa essere fuorviante la figura del testimone oculare. Il testimone oculare non ha nessuna percezione dell'importanza dell'evento che vive. I suoi ricordi sono sensoriali, vissuti e personali, ma non dicono niente circa la portata storica di un evento. I soldati che hanno combattuto a Waterloo, non sapevano perché Waterloo era così importante. Come la laureanda della storia, che si sorbisce gli sproloqui di un vecchio per avere la preziosa conferma di un evento importante, anche Barbero immagino abbia rovistato con pazienza documenti, memoriali, manoscritti pieni di nomi dimenticati ed avvenimenti ininfluenti in cerca della notizia fondamentale che può cambiare il senso della Storia. Complice l'ambientazione sudista, Barbero si traveste da Faulkner e scrive un racconto in presa diretta senza alcun preambolo, nel quale il lettore si trova calato del tutto impreparato e spaesato. Chi apprezza il lato rassicurante del divulgatore purosangue verrà preso in contropiede, ma con me la storia ha funzionato.
La Storia sembra andare avanti e invece "fa dei giri immensi e poi ritorna". E in questi corsi e ricorsi storici ecco che il cammino fatto dagli Stati Uniti d'America negli ultimi 150 anni sembra essersi contratto in un punto, per tornare ineluttabilmente al punto di partenza: l'omicidio di George Floyd, il movimento Black Lives Matter e l'assalto a Capitol Hill sono gli indicatori di questa retrocessione. Dove sono andate a finire tutte le battaglie combattute per l'affermazione dei diritti dei "negri"? A che è valso tutto il sangue versato in 150 anni di storia americana? Temi come il razzismo, la schiavitù e la violenza sono ahimé ancora attuali.
Alessandro Barbera fa tornare i lettori durante gli anni della Guerra di Secessione, negli anni settanta dell'Ottocento: "Scrivere un romanzo storico vuol dire ridare voce alla gente vissuta nel passato, in un mondo lontanissimo dal nostro, come quello di questi fantaccini sudisti che sono i protagonisti della mia storia. Oddio, lontanissimo dal nostro! Questo è quello che pensavo fino a quando i seguaci di Trump non hanno dato l’assalto al Campidoglio sventolando bandiere confederate."
E così la storia del soldato Dick Stanton è un invito a non far ritornare quel passato così doloroso, a non far continuare a versare sangue per dei diritti che sono stati a fatica conquistati. Il ruolo chiave della giovane studentessa che cerca di ricostruire la verità, è metaforico: la fiducia nelle giovani generazioni che fanno tesoro del passato per non ripeterlo.
“La ragazza aveva finito di riordinare i suoi appunti, e ora aveva chiuso gli occhi. Dentro di sé li rivedeva tutti, Dick Stanton e gli altri, grigi e stracciati, col cappello in testa e il fucile in spalla, marciare ostinati nella polvere, all’inseguimento di qualcosa che non si era mai lasciato afferrare. E che era stato meglio non raggiungere, no?, si disse esitante. Deglutì. Certo che era stato meglio. Com’erano quei versi? Voltati a guardare... no, volgi gli occhi:
volgi gli occhi all’arrogante passato; volgiti all’inscrutabile fanteria che si leva, demoni sorti dalla terra – essi non dureranno.”
Un’abile e credibile racconto dei ricordi di un soldato del sud degli Stati Uniti durante la guerra civile; tutto ruota intorno alla rievocazione di un episodio in particolare, ma la cosa che più ho trovato interessante ė soprattutto il flusso incontenibile e disordinato del racconto di questo personaggio sui suoi compagni e sulla vita quotidiana. Complessivamente direi riuscito.
Essendo il libro di uno dei più importanti ed apprezzati divulgatori attuali ma non certo di un romanziere di professione, "Alabama" riesce a dire molto sul periodo di cui tratta (la guerra di secessione) ma anche sulla cattiveria umana che si nasconde dietro ogni guerra; il tutto senza però avere un forte intreccio avventuroso. Il fatto peraltro che lo scontro tra nord e sud di storie da raccontare ne avrebbe eccome, fa capire come ad Alessandro Barbero interessasse in fondo molto di più mostrare un mondo ed affrontare un tema etico che non raccontare una storia.
Siamo nel 1943. In piena seconda guerra mondiale una studentessa di storia del midwest si sposta in Alabama per intervistare un ormai vecchio e semidemente veterano dell'esercito sudista, alla ricerca di testimonianze sullo scandaloso e fantomatico massacro perpetrato dai confederati su prigionieri di guerra di colore dopo una battaglia vinta. Idea grandiosa che ne mette al fuoco parecchia, di carne. Dal racconto di come vivevano i soldati nella prima guerra di sterminio della storia alle tematiche razziste, dalla mescolanza tra storia e memoria ad una riflessione sulla natura del male. Forse un carico davvero troppo pesante da portare per libri anche più ambiziosi di questo "Alabama", ed in effetti molto viene lasciato al lettore. Ma che questo sia un libro che scivola via senza lasciare nulla, decisamente no.
E' il fronte della guerra di secessione, ma avrebbe potuto essere Babij Yar. O Katyn. Il male e la disumanizzazione del diverso che porta allo sterminio sono sempre gli stessi, e fanno parte della natura umana. Partendo dalla ingenua impazienza della studentessa, Barbero ci ripropone il tema arendtiano della banalità del male. La ragazza sbuffa frustrata di fronte all' incoerente divagare del vecchio soldato (bellissima la scelta del lessico e della sintassi!), che tergiversa prima di arrivare al punto che è il massacro di prigionieri negri. Salvo poi rendersi conto che sin dall'inizio dell'intervista il vecchio non ha fatto altro che parlare di negri, in tutte le forme. Non esistono i cattivi delle favole. Le peggiori bestialità umane si manifestano gradualmente, nella vita di tutti i giorni, e sempre strettamente interconnesse alla parte migliore di noi stessi; nessuno può guardarsi allo specchio e dirsi che è una merda. Ogni uomo, anche il peggiore, deve potersi autoconvincere di essere giusto. Ed allora quei continui (bellissimi) scenari di vita contadina del sud che interrompono il racconto della guerra non sono divagazioni, ma contengono il messaggio vero, perchè mostrano come l'oggettificazione dello schiavo negro avesse infiltrato ogni aspetto della vita economica e sociale dell' Alabama e degli stati confederati, al punto che non solo questi non potevano più farne a meno, ma anche non erano più in grado di coglierne l'aspetto disumano. Per Dick Stanton ed i suoi commilitoni, una strage di neri è un po' come abbattere un cane divenuto idrofobo.
Un po' come quell'ufficiale nazista nella Polonia occupata che si infuriò nel ricevere l'ordine di non bruciare le case dei polacchi, perchè il soldato tedesco non fa di queste cose; a parte aver fucilato nei mesi precedenti quelle decine di migliaia di ebrei. Non poteva neppure accorgersi della drammatica inconguenza, a tal punto il suo sguardo era deformato che per lui gli ebrei non erano neppure uomini.
Importante e molto bello il lavoro svolto da Alessandro Barbero sul linguaggio del veterano. E' un tema che ho incontrato tante volte nelle mie letture, risolto a volte meglio a volte peggio. Vista l'ovvia necessità di scrivere in una lingua italiana corretta, quando a parlare è un personaggio fortemente caratterizzato dal punto di vista storico e culturale occorre alterare il lessico e la sintassi in modo tale da rappresentare un modo di parlare, di vedere e pensare compeltamente diverso dal nostro. Il successo di Barbero da questo punto di vista è clamoroso e mostra lo spessore dello storico di professione, anche se a volte la lettura ne emerge appesantita.
Molto ben sviluppata anche la struttura del libro, con i continui cambi di scena, di tempo, di punti di vista. In un divagare sapientemente costellato di imprecisioni e menzogne, che rappresenta bene quel perpetuo confrontarsi tra storia e memoria, tra fatti e cultura collettiva, tra rimorso ed autogiustificazione che caratterizza l'umanità quando guarda al passato. Il rapporto tra storia e memoria è fondamentale nell'opera sia letteraria e che divulgativa del grande storico piemontese, e compare in continuazione.
Alcune persone sono rimaste insoddisfatte dalla lettura di Alabama, lo hanno trovato poco avvincente. Bisogna fare attenzione, perchè è un libro che sembra ambientarsi durante una guerra, ma non parla di guerra. Qui si sta parlando di ben altro, di qualcosa di dannatamente meno visibile e più serio.
Un libro particolare nello stile narrativo che, mi rendo conto, non può piacere a tutti ma per me affascinante. Una giovane studiosa, intorno al 1941, intervista un veterano della guerra civile americana poiché è interessata a un evento specifico che ha visto protagonista l'esercito confederato ma non riportato nei manuali di storia ufficiali. La nostra giovane storica lascia parlare il veterano, ormai novantenne, a ruota libera sperando che spontaneamente racconti i fatti che intende approfondire: non vuole influenzarlo nel racconto né, tantomeno, evitare che scientemente eviti di parlare di fatti non proprio edificanti neanche nel contesto della guerra. Così noi lettori ci troviamo immersi nei fatti, grandi e piccoli, della vita militare di quel tempo: l'organizzazione dell'esercito, i processi di scelta dei leader, la spiritualità battista, i valori diffusi in buona parte della società sudista ma anche il cibo, le armi e l'abbigliamento in dotazione a ogni soldato. Barbero in questo modo ci fa conoscere, da un punto di vista soggettivo, il lavoro dello storico, che, nel compierlo, deve costantemente tener conto dei rischi indotti da bias culturali e cognitivi. Insomma, se vi piace la storia e, soprattutto, se siete fan di Barbero, allora questo libro fa sicuramente per voi.
A scrivere di storia bisogna essere molto bravi, e lui lo è. A scrivere romanzi bisogna avere un altro tipo di bravura, e no, lui questa bravura non ce l’ha.
Alessandro Barbero, scrittore e accademico, oltre che grande storico, in "Alabama" racconta il più grande eccidio di neri avvenuto nella storia e che si è consumato durante la guerra di Secessione americana. Il lettore conosce questo eccidio che occupa soltanto le ultime pagine grazie alla voce di reduce di guerra, ovvero Dick Stanton che ha deciso di parlare e raccontarsi grazie a una studentessa che scrive la sua tesi su questo argomento. Un monologo, un flusso di coscienza in cui Stanton racconta quel periodo disseminato dalla schiavitù, dal razzismo e anche dal rapporto con i superiori e i commilitoni. Il reduce di guerra sembra non arrivare mai al fulcro della discussione, ma tutti i preamboli sono un modo per prepararsi al massacro. Ciò che colpisce è l'efferatezza e crudeltà con cui tutto è successo, dove la morte sembra un fatto assolutamente normale. Nonostante siano passati tantissimi anni, il divario tra bianchi e neri è sempre più forte e pare che nulla sia cambiato.
Alabama è soprattutto un esercizio di stile. Barbero va ben oltre il suo ruolo di storico, e perfino quello di romanziere storico, per diventare prima di tutto scrittore, letterato. L'intera opera è il lungo monologo di un vecchio ex combattente sudista, scritto cercando di ricostruire nel modo più credibile la narrazione orale di un contadino. La tecnica utilizzata, che prevede periodi lunghissimi infarciti di intercalari, digressioni, innumervoli "fa", "dice" "e insomma", all'inizio è interessante e divertente, ma diventa ben presto terribilmente noiosa. Lo scopo - quello di raccontare "dall'interno" la cultura sudista - è egregiamente raggiunto, ma il prezzo da pagare per il lettore è davvero troppo alto. L'immersione nella vita rurale degli stati confederati, con il suo razzismo profondo e radicato, è indubbiamente notevole e, vista la caratura storica dell'autore, non si può dubitare della sua accuratezza. Ma l'esperimento letterario, nella sua scelta formale, è decisamente eccessivo. Sarebbe potuto essere un bellissimo racconto, è diventato un pesantissimo romanzo.
Barbero dal vivo, quando racconta la Storia, non mi annoia mai. Ma leggendo queste su pagine, peraltro scritte in modo ineccepibile, mi sono resa conto che, e non è la prima volta che mi succede quest'anno, quando i personaggi maschili raccontano la guerra mi vien voglia di saltare le pagine. Chissà perchè...
Scritto con la tecnica del flusso di coscienza, se ci aspetta un romanzo lineare é quindi meglio evitare. Io l'ho trovato godibile e fuori dagli schemi, anche se non semplice per chi come me forse non é ferratissimo sulla storia americana. Personalmente l'ho trovato originale e non ho vissuto la scelta stilistica dell'autore in maniera negativa, anzi, mi é parso un esperimento ben riuscito tutto sommato. Certo, avendo un punto di vista unico di un anziano signore che le vicende le ha vissute, rimangono molti interrogativi, ma credo che l'autore intendesse stimolare a una ricerca ulteriore da parte del lettore. Coraggioso.
Primo libro di Barbero che leggo. Scrittura ineccepibile, considerando anche la struttura particolare del romanzo. Non facile da leggere; personalmente non mi piacciono molto i lunghi monologhi che non lasciano spazio o respiro per chi ascolta. Però è sicuramente un buon racconto (mi ha ricordato a tratti Via col vento), ma lascia tanto di quell’amaro in bocca... Mi sono chiesta: ma la studentessa da che parte sta? È abbastanza obiettiva? Mica l’ho capito...
Davvero una grande delusione: mi sarei aspettata un saggio, invece si tratta di un romanzo poco coinvolgente e troppo sbrigativo. La struttura narrativa non ha molto senso, i "commenti" dell'intervistatrice servono solo a collocare il romanzo temporalmente, ma non aggiungono altro. Peccato, mi sarei aspettata qualcosa di più.
All'inizio non sembra una narrazione facile da seguire, ma quando ci si rende conto che viene riprodotto un discorso sconclusionato che rappresenta l'essenza di chi parla, allora tutto cambia. Si viene proiettati nel teatro della guerra di Secessione americana, se ne scorgono i personaggi e la mentalità che caratterizza i Sudisti e l'America ottocentesca in generale. Finale un po' stringato.
Premetto che amo molto Barbero, prima come divulgatore e poi come scrittore. Alcuni suoi libri per me sono pietre miliari e la mia formazione storica probabilmente me li fa gustare ancora di più. Su questo Alabama però ho sentimenti diversi. Soprattutto tutto perché non è un libro che narra la storia, come Barbero appunto sa fare magistralmente, ma un romanzo, narrato in prima persona, con quello che chiamerei un flusso continuo di coscienza, da un reduce della guerra di secessione americana appartenente ai confederati. L’intento è quello di raccontarci quasi in presa diretta, pur se la narrazione avviene molti anni dopo i fatti, uno squarcio del Sud schiavista fino ad arrivare ad un episodio drammatico e violento con il quale il libro di fatto si conclude. Il tema è interessante, lo sguardo molto lucido, ciò che ci viene detto di fondo è che la violenza e il razzismo si nascondono anche dietro delle persone apparentemente normali, dietro a ciò che è banale, come ebbe a dire Anna Arendt. Ma c’è un ma, la narrazione stenta a decollare purtroppo. La modalità scelta infatti è a tratti molto confusionaria e il lettore è costretto ad un certo lavoro per seguire l’anziano Dick nelle sue molte parentesi aperte e chiuse e a capire di chi sta parlando e a volte cosa c’entra con il racconto principale. Quando poi il lettore si è abituato e inizia a seguire il filo del racconto (io oltre la buona metà) il tutto è anche piacevole, ma che fatica! Barbero non lo fare più!
Non avevo mai letto niente di Barbero, pur conoscendolo da qualche documentario visto in tv, e confesso che questo libro mi ha un po’ spiazzata. Un reduce sudista della guerra di secessione americana viene intervistato da una laureanda che sta indagando sul massacro di alcuni neri, avvenuto ormai molti anni prima, nel profondo Sud. Il racconto però parte da lontano, dall’inizio della guerra, ed è infarcito di divagazioni su episodi e aneddoti che nulla sembrano aver a che fare con l’episodio chiave del romanzo. Lo stesso stile che Barbero adotta per far raccontare al vecchio la sua storia è composto di infinite frasi subordinate, periodi lunghissimi privi di punteggiatura, quasi a voler imitare il farneticare e il perdersi nei ricordi di una persona anziana. Non facile da seguire, lo ammetto, eppure capace di tener vivo l’interesse del lettore. Tutto sommato, una prima impressione positiva ma mi aspetto qualcosa di più lineare e di facile lettura dagli altri suoi libri, qualcosa che rispecchi di più lo stile divulgativo che me l’ha fatto apprezzare in altri contesti.
Terribile, davvero. La narrazione è volutamente "sconclusionata" e vorticosa, in totale coerenza con la caratterizzazione del protagonista, ma la lettura è veramente impossibile da sostenere. Decine di nomi per ogni capitolo, che non portano nulla se non aiutare a descrivere il contesto sociale e storico nel quale si svolgono gli eventi e per quanto sia esattamente tale descrizione lo scopo della narrazione, da sola non è sufficiente a tenere in piedi un romanzo del quale si sa fin dalle prime pagine che cosa stia cercando di raccontare, peraltro, abbastanza male. Scritto più per cercare di offrire credibilità e realismo alla storia che per intrattenere il lettore. Aspettative altissime, delusione totale.
Sadly didn't like this. Barbero is one of my favorite historians and his non-fiction work is incredible, but this foray into historical fiction just didn't do it for me.
Dick Stanton, ex soldato dell'Unione confederata degli Stati del Sud, è costretto a rivivere i ricordi della Guerra di Secessione americana. Invitato da una ragazza a raccontare, inizia a narrare i momenti e i fatti della guerra che lui ha vissuto. Ci troviamo in un portico dell'Alabama quando la giovane ragazza intervista il vecchio Dick per indagare su un tragico eccidio di neri avvenuto durante la guerra. Il racconto di Dick inizia così dal presente, al passato recente fino a quello più remoto, come in un vortice di ricordi senza fine: descrive visi di amici, di schiavi e padroni e di innocenti e di criminali. La ragazza davanti a lui non può far altro che costringersi ad ascoltarlo, anche quando la sua voce si fa a irritante e logorroica. Con uno stile volutamente deciso e, in alcuni casi alienante, Alessandro Barbero porta il lettore in Alabama e ne racconta la sua storia. La conversazione, spesso a senso unico, tra Dick e la laureanda diventa anche lo scontro tra passato e presente, in cui il secondo chiede il conto al primo. Dick è il passato che non si può più cambiare e la ragazza è il presente, che però ha l'obbligo di essere critico nei confronti di un passato non troppo lontano.
Barbero dà voce ai racconti di Dick Stanton, ormai novantenne veterano sudista della Guerra Civile Americana, riferiti alla battaglia di Chancellorsville, grande successo del generale confederato Lee, intervistato da una ragazza per una ricerca universitaria nel mentre della Seconda Guerra Mondiale. L'autore è abilissimo a trasmettere nel linguaggio lo stile, la tipica parlata "strascicata" del Sud degli Usa, la mentalità, i sentimenti di un soldato sudista nei racconti del vecchio, lasciando che dai resoconti delle operazioni militari si divaghi costantemente verso continui riferimenti alle grandi tematiche sociali e culturali all'origine del conflitto. La contrapposizione dei modelli economici (l'accusa di "pigrizia" e poca produttività fatta da un uomo del Nord rivolta al sistema economico sudista, privo di grandi industrie), la questione della schiavitù. Il perno concettuale intorno a cui tutto il libro sembra ruotare è l'ambiguità, che si riflette in ciascuno dei diversi punti di vista. Ambiguità per cui, se da un lato si mostra come i sudisti ritenessero di potersi alleggerire la coscienza affermando come la condizioni degli operai, spesso immigrati europei, nelle fabbriche al Nord fosse materialmente ben peggiore che quella dei loro schiavi nelle piantagioni, dall'altro emerge in tutta la sua crudezza la loro visione dei neri come sostanzialmente oggetti da parte dei sudisti (si parla di "negri rubati"), nonché il terrore quasi isterico al pensiero di soldati neri in uniforme unionista, che una volta catturati, non sono, come i bianchi, trattati cavallerescamente come prigionieri di guerra, ma massacrati in modo sistematico (l'intervista era appunto mirata a far luce su questo episodio). Ambiguità del punto di vista nordista, perfettamente rappresentato dal litigio tra due prigionieri yankee, di cui uno, abolizionista, esprime tutto il suo sdegno morale per la schiavitù, mentre l'altro maledice la causa della libertà dei neri come ciò che ha motivato lo scoppio della guerra e il suo trovarsi al fronte. Ambiguità interiore della studentessa, di origine meridionale ma cresciuta negli ambienti progressisti e liberale delle università del Nord, frequentazioni che la ragazza scopre, nel suo ritorno al Sud, non siano riuscite a estinguere gli istinti e i pregiudizi razziali dell'ambiente d'origine, prova disagio e anche rabbia al pensiero che la domestica nera possa cenare con loro durante l'intervista o che ascolti i racconti del veterano sul massacro degli afroamericani nordisti, e al tempo stesso vergogna di provare quelle emozioni, incarnazione del conflitto tra razionalità e ideali assunti consciamente da un lato, contro istinti primordiali e irrazionali dall'altro. Infine, ma questa è un'ambiguità che non si traduce in contrasto o contraddizione, convivenza tra resoconto storico e narrazione di storie, miscela che centra l'obiettivo che in fondo ogni romanzo storico si prefigge, trasmettere la cultura, la mentalità di una civiltà del passato, non con l'analitico distacco del saggio, ma dal di dentro, dando voce direttamente ai protagonisti che l'hanno vissuta. Al tempo stesso, l'espediente del flash back consente di collegare l'epoca dei fatti, l'800, al più recente '900, dove i fatti sono raccontati, mostrando la permanenza delle dinamiche che li hanno determinate, rendendole il più possibile vicine al nostro presente, come effettivamente ancora sono. Gli intenti di Barbero appaiono così molto ben centrati.
Non avevo mai letto un romanzo del Professor Barbero, ma affascinata dalle sue conferenze ho comprato questo romanzo appena uscito in libreria. È una lettura veloce, che racconta una parte fondamentale della storia d’oltreoceano che a me è tutt’ora sconosciuta. La scrittura del professore rende curioso anche chi la storia l’ha sempre trovata una noiosissima lezione obbligatoria a scuola.
Bel libro ed originale la forma che Barbero ha dato al dipanarsi della storia, in forma di intervista, o meglio di ascolto dei ricordi di un povero vecchio, che poi tanto "povero" non è. Una vecchiaia serena e lunga di un povero vecchio sempre un passo indietro alla piena presa di coscienza di chi è e chi è stato, lui stesso: o no? Fa un pó criminale nazista, per certi versi
Quando Barbero parla di storia lo ascolto sempre con piacere, ma scrivere romanzi è un mestiere diverso.
Il romanzo storico è piatto, non prende mai ritmo, continua sempre con lo stesso passo in maniera logorroica e noiosa. Credo che questo fosse l’intento di Barbero: rendere la narrazione realistica. Purtroppo lo stile realistico va a discapito dalla fluidità del racconto che risulta pesante ed inarrestabile. Il narratore, unico testimone sopravvissuto di una battaglia durante la guerra di secessione, Dick Stanton, soldato dell'esercito del Sud, viene pungolato in fin di vita da una giovane studentessa che vuole ricostruire la verità.
Mentre lo sfondo tematico della questione razziale e dell' America rurale potrebbe essere interessante, mettendo le parole in bocca ad un anziano smemorato che salta da un argomento all’altro senza avere un filo conduttore fa si che il racconto diventi presto illeggibile e sconnesso. Nell'oceano di nomi ed episodi che il vecchio racconta, piano piano si avvicinerà all’episodio che interessa alla ragazza. Il racconto è anche uno specchio della povertà e della rabbia di una parte della popolazione americana sudista, ma se devo pensare ad un romanzo che tratta tematiche simili consiglierei a mani basse "To kill a Mockingbird".
Non che ce ne fosse bisogno, ma in questo libro il Professor Barbero da l'ennesima prova di essere anche un superbo scrittore. Il primo impatto con il racconto del protagonista è quasi sgradevole, si fa fatica a seguire; è un flusso continuo di parole, di frasi spezzate, sgrammaticate, senza un ritmo apparente. Poi però si trova la chiave per entrare, si trova il ritmo giusto seguendo l'uso magistrale della punteggiatura e le parole di Dick Stanton, il vecchio soldato Confederato, acquistano vita. Il mondo dei soldati Confederati, poveri contadini la cui unica ricchezza erano i "negri"; la granitica convinzione che la schiavitù fosse nell'ordine delle cose; la battaglia in mezzo alla brutalità che solo una Guerra Civile può scatenare; ed infine, in fondo ad una spirale che ci trascina sempre più giù, l'eccidio dei prigionieri "negri" rei di aver osato sovvertire il mondo dei bianchi. .
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L’espediente che sorregge il libro (un vecchissimo reduce sudista della guerra civile americana racconta a braccio quello che ricorda dei suoi giorni al fronte a una studentessa universitaria) presuppone un lavoro sfiancante sulle fonti per raccogliere i dettagli della vita di un soldato semplice in quei luoghi e in quegli anni. Per quanto ammirevole sia questo sforzo accademico, però, il risultato è irritante. L’itinerario narrativo del racconto orale non vale la fatica che si fa a seguirne il filo. In sostanza, il lavoro sporco è lasciato ai lettori, i quali dovrebbero ricavare una storia coerente dal flusso di coscienza inevitabilmente sconnesso e scoordinato del reduce in questione. Così, tra razzismo esplicito e crude battaglie, si sviluppa un esercizio di stile complesso e senz’altro ambizioso ma, ahimè, perlopiù illeggibile.
È un buon libro ma non eccellente. La struttura narrativa e la scrittura è interessante e offre molti spunti di riflessione sulla storia e sulla storiografia. Ho trovato la trama e il contenuto quasi assente. Barbero ha spesso sostenuto che scrive romanzi per sperimentare la parte narrativa, non necessariamente la parte storiografica. La scelta di "parlare" della guerra civile americana sembra pretestuosa. I motivi e le dinamiche della guerra sono semplificate, trattate in modo superficiale ed esagerato. Se questo è (forse) comprensibile da un punto di vista del carattere del personaggio (un rozzo contadino ignorante del sud), è riduttivo collegare le complesse dinamiche della moderna società americana alla sola guerra civile.