L'ultima notte
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L’ULTIMA NOTTE
Era sua moglie da più di dieci anni, e l’amava. L’amava ancora con tutto l’ardore della passione e il tenero affetto che viene dalla convivenza.
Era un uomo eccentrico.
I terrazzani lo chiamavano il filosofo. Della sua giovinezza aveva goduto ben poco: era nato con l’orrore del disordine. Da ragazzo, una sedia sposta lo faceva piangere. Da uomo, bastava lo spettro di una posizione irregolare per farlo rabbrividire.
Fra tutti gli studi aveva prediletto l’agricoltura; non perchè gli piacesse molto, ma perchè dopo lunghe riflessioni s’era persuaso che quella sola era la scienza vera, la scienza utile.
Sposando Maria, una fanciulla della sua condizione, buona e gentile, l’aveva prevenuta che sarebbero andati a vivere in campagna.
Lei accettò perchè lo amava e gli bastava di vivere con lui.
Vivevano nel Valdarno dove egli aveva quattro grandi poderi riuniti.
Erano felici. Da principio lui diceva che l’inverno l’avrebbero passato a Firenze; ma poi quando l’inverno venne, non ebbero cuore di staccarsi dal loro nido. Il secondo inverno Maria era incinta; il terzo, allattava il suo bimbo. Negli inverni che vennero poi non ci pensarono più.
Non lavorava la terra nel senso stretto della parola, ma aveva l’occhio a tutto. Faceva esperienze, univa la scienza alla pratica.
Maria l’aiutava. E per conto proprio coltivava i fiori che amava.
Ma nessun fiore era bello come lei, diceva Riccardo. E oltre a essere così bella, possedeva quello spirito facile e geniale che mette della poesia in tutte le circostanze della vita.
Vicino a lei quell’uomo d’ordine aveva imparato a comprendere anche le squisitezze dell’armonia. Era merito di lei, se in quella esistenza solitaria, lontana dalla società, sempre a contatto coi campagnuoli, non s’era mai infiltrata una sola abitudine triviale.
Oltre alla felicitá del cuore, Riccardo aveva la grande soddisfazione di essere perfettamente contento di sè medesimo.
Come l’aveva indovinata, lui, la vita! Come aveva saputo sciogliere l’enigma della sfinge! Si sentiva crescere in dignitá ai propri occhi, era pieno di un nobile orgoglio. Quando riceveva qualche lettera de’ suoi antichi amici era preso da pietá magnanima. Ah se avessero imitato il suo esempio! Maria lo ammoniva, lo trovava troppo orgoglioso; e, badasse, l’orgoglio era una passione che conduceva al disordine.
Ah sì, lo sapeva anche lui che sua moglie aveva ragione: non doveva essere orgoglioso perchè senza di lei non sarebbe mai arrivato a quell’altezza; e forse peggio, sarebbe precipitato con gli altri nella comune miseria.
Insomma, un’idillio, ecco.
Ma anche gl’idillii hanno un fine. Maria ammalò.
Il medico campagnolo non ci capiva nulla di quella malattia, e per cavarsi d’impiccio ordinò un piccolo viaggio per cambiar aria. Cosí, dopo dieci anni andarono finalmente a passare l’inverno a Firenze.
A primo aspetto, Maria sembrò rimettersi. La distrazione della vita cittadina le faceva bene. Il nuovo medico dava il male per bell’e vinto. Tuttavia lei era sempre magra e pallida.
Era di carnevale e il medico ordinò qualche distrazione piú forte; secondo lui, non era vero che i balli facessero male alle donne, anzi era come la luce del sole di cui tutte avevano bisogno.
Riccardo si lasciò persuadere a condurre sua moglie nelle società.
Quella nuova vita del resto non gli dispiaceva. Aveva tutto l’incanto delle cose nuove per lui, e ciò gliene faceva dimenticare le noie. Quelle tremende noie contro le quali aveva giá tanto declamato una volta. E poi, bisogna dire, c’erano amici che non aveva piú veduti da anni, e vecchie conoscenze che lo festeggiavano e gli facevano passar presto il tempo.
Una sera erano in casa Celaschi. Maria, piú bella che mai. La malattia le dava un incanto speciale. Era corteggiata e festeggiata. Pareva una fanciulla nella sua veste turchina, coi bei capelli biondi e gli occhi celesti, sfavillanti di quella luce misteriosa che sembra venir dal cielo, e si vede qualche volta in chi è vicino a morire.
Riccardo stava in un salottino attiguo chiacchierando con dei vecchi amici. Improvvisamente si fece un gran silenzio e un bisbigliare sommesso: „cos’è, che si fa?“
Si trattava di una signorina forestiera che doveva esordire alla Pergola.
La chiamavano Irma Plinovich: una meraviglia polacca, educata a Vienna. Alcuni uomini seri tra i quali Riccardo, cercarono di mettere la cosa in ridicolo, ma la curiositá fu piú forte. A poco a poca tutti entrarono nella sala, e lui rimase solo.
Era seduto sopra un canapè, e si lasciò andare a fantasticare, come gli accadeva tante volte. Intanto cominciò il canto.
Era un cantico slavo, una musica dolce, lenta, piena di speranza e di affanno. La voce era una carezza piena di fascino. A lui pareva il canto di una creatura divina che si rivelasse ai mortali.
Col suo accento esprimeva tutti i sentimenti umani, ma idealizzati. Gli pareva che gli strappasse dal cuore i più riposti secreti; e forzandolo a guardare nel suo intimo, gli rivelasse come un essere nuovo, con nuovi bisogni e nuove aspirazioni.
Il suo passato gli sfuggiva come un quadra dissolvente. E un desiderio indefinito, ma vivissima lo spingeva per una nuova strada. La melodia diveniva più appassionata, la voce più calda più molle. Finalmente cessò.
Riccardo si guardò intorno come trasognato. Rimase qualche momento immobile. Ma un nuovo desiderio lo fece balzar dalla sedia. Voleva vederla. Corse alla porta. Non si poteva passare per la gran folla. Si spinse avanti; s’alzò sulla punta dei piedi. Sovrastava a tutti gli altri, e vide una donna vestita a bruno, alta e snella con lunghi capelli inanellati, neri, lucenti. Gli voltava le spalle, e da lontano quelle spalle parevano di marmo.
Lui si sentiva una strana eccitazione: avrebbe dato qualcosa di molto caro perchè quella donna si fosse voltata. Ma non sì voltò, non la vide in faccia. E a poco a poco si calmò: sorrise del proprio entusiasmo. Decisamente la città gli agiva sul sistema nervoso. Ci sarebbe mancato anche questa che mentre sua moglie guariva, lui avesse perduto il cervello!
Ma sua moglie non guariva. Il medico fiorentino come quello di Valdarno cominciava a perderci il suo latino. Faceva ordinazioni sopra ordinazioni, ma tutte inutili.
Da principio Riccardo insisteva per ritornare in campagna, dicendo che probabilmente avvicinandosi la primavera, quell’aria le avrebbe fatto meglio. Ma poi a poco a poco non ne parlò più. S’andava ammalando anche lui. Pochi giorni dopo quella sera passata in casa Celaschi s’era accorto che la bella cantatrice abitava nella stessa casa di lui, sullo stesso pianerottolo: uscio a uscio.
Prima ne aveva riconosciuta la voce, poi la figura. Finalmente l’aveva vista anche in viso. Una mattina mentre lui scendeva le scale, l’aveva incontrata che saliva. Colpito, imbarazzato, l’aveva salutata quasi meccanicamente, poi era rimasto lì duro, a guardarla. Da quel giorno in poi, s’incontravano assai spesso, e la signora era quasi la prima a salutarlo col suo sorriso.
E Maria intanto aveva peggioramenti improvvisi, e una sensibilità, una lucidezza d’idee che lo spaventava. Una sera che sedeva vicino a lei accanto al fuoco, non potevar per quanto si forzasse, vincere certe distrazioni improvvise. Maria lo guardava sempre e pareva leggergli nell’anima. Quegli sguardi gli mettevano sgomento: gli facevano un senso come se la sua coscienza avesse preso forma, e lo contemplasse.
E veramente c’era di che.
Quella mattina aveva parlato la prima volta con Irma. Si erano trovati a salire le scale assieme: lui imbarazzato come un collegiale, lei fianca, piena di brio e di fascino. Andava in scena quella sera con la Lucia.
Naturalmente le fece qualche complimento. Allora lei gli chiese notizia della salute di sua moglie, e poichè erano davanti all’uscio di casa sua lo invitò a entrare un momento. Lui avrebbe voluto rifiutare, ma lì per lì non sapeva trovar termini. E poi come doveva fare a parlare mentre non pensava altro che ad ascoltarla, e lei lo guardava tra commossa e stupita, con certi occhi che scompigliavano tutte le sue idee?
In quei momenti di distrazione ripensava a tutte le cose gentili che quella bellissima donna gli aveva dette, e alla figura di stupido che doveva averci fatto. E poi pensava che quella sera avrebbe cantato, che una folla immensa sarebbe stata là ad ascoltarla in delirio, e che lui, lui solo non poteva andarci. Glielo aveva detto almeno quanto gli dispiaceva di non ci poter andare? Ah, sì. E, anzi, lei gli aveva risposto che per compensarlo il giorno dopo avrebbe cantati i pezzi piú applauditi, per lui solo, al suo pianoforte. Ora si ricordava di tutto il colloquio. E quel giorno sarebbe stato domani! Oh che paradiso...
Ma Maria lo guardava, e lo pregò di accostarsi un po’ di piú a lei.
Un dolce sorriso sfiorò le sue labbra e illuminò quel viso, che aveva giá un’espressione quasi immortale.
La baciò in fronte, ed ella gli rese il bacio stringendoselo al cuore.
— Non soffro, disse. Ma tu perchè sei tanto triste? Pensi forse alla mia morte vicina? Non accorarti, amor mio! La morte è una neccessitá, e io almeno muoio con la coscienza d’essere stata amata e felice. Chi sa se non è forse meglio che muoia?
Lui protestò quasi piangente e le chiese di che temeva.
Ma lei non temeva di nulla. Sapeva di essere amata. Conosceva il suo cuore, sapeva che piuttosto d’ingannarla si sarebbe lasciato morire. Ma nulla può durare eterno su questa terra; tutto muta e si trasforma: sentiva che anche la sua vita doveva trasformarsi.
S’arrestò un momento e lo guardò mentr’egli le baciava le mani in silenzio.
— Sono molti anni, riprese a dire, che vivo del tuo amore: un amore giovanile, ardente sempre eguale. Ma son molti anni! Se quest’amore si modificasse? Se divenisse un’affezione tranquilla, monotona, senza slanci? Se... un’altra donna animasse i tuoi sogni, accendesse il tuo sangue?... Io non mi ci potrei adattare. Mi hai troppo male avvezzata...
E sorrideva tristamente, e voleva guardarlo in viso. Ma lui non osava. Nascondeva la fronte sul suo petto che intanto baciava.
Porse, a lei questa risposta parve piú eloquente.
Dopo un poco tornò a parlare.
— Morire con tutto le mie illusioni, disse, senza aver provato un momento d’amarezza, senza sapere che sia il disinganno! A trent’anni sentirmi il cuore giovine e pieno di fede come a quindici! E morire prima che l’inverno arrivi, il brutto inverno della vita! Ti sembra poca fortuna? Iddio mi ha benedetta, ma d’altra parte mi ha resa inetta a combattere. La mia vita è stata come un giorno sereno; se la sventura venisse ora a battere alla mia porta, non potrei resistervi. E una voce mi dice che deve venire, per questo io, egoista forse, ho ansia di morir prima.
Parlava cosí con voce febbrile, rapida, appassionata. Lui cercava calmarla con le sue carezze; ma la febbre le ardeva il cervello e i polsi. Strane visioni l’assalivano, e il sentimento che aveva animata tutta la sua vita, pareva illuminato da una luce trascendente.
— La mia sorte è troppo invidiabile di fronte a quella delle altre donne! esclamava: tu hai avuto per me l’amore ardente dell’amante; la tenerezza di una mamma, la dolce protezione di un padre. Tu sei stato tutto per me, e mi hai dato il paradiso in terra. E ora muoio. Muoio alla vigilia della prova. La mia vita di trent’anni non vai mille volte piú di tante altre che durano il doppio? Quante povere donne vivono incomprese, tradite, derise! Martiri sante di un martirio immeritato, o ipocrite sciagurate per neccessitá. Tu m’hai salvato da questo, tu col tuo amore. Che tu possa essere sempre felice, anche senza di me. Io muoio e ti benedico.
Tutto il suo corpo tremava; le lagrime scorrevano sulle sue guancie, lente, inavvertite. Sembrò assopirsi un momento.
Egli la fece distendere sul canapè e mandò per il medico.
Era scosso.
Aveva vissuto dieci anni vicino a quella donna credeva conoscerne tutto l’amore, e quell’impeto di febbre gli rivelava una nuova pagina del suo cuore innamorato e gentile, vicino a spegnersi.
Riccardo passò tutta la sera al capezzale della sua povera malata.
Era una sera fredda; pioviscolava. Egli ascoltava la respirazione anelante di Maria, e le gocciole di pioggia che cadevano scrosciando dalla grondaia sulle lastre liscie del marciapiede. La fiamma della lampada sulla tavola in mezzo alla stanza, s’allungava di tratto in tratto, poi si ristringeva come vicina a spegnersi. I mobili proiettavano sulle pareti ceite ombre confuse e tremolanti. Quando la inalata sembrava tranquilla, Riccardo abbandonato alle sue meditazioni, tornava involontariamente col pensiero al teatro e a quell’altra donna. Era una visione vertiginosa, somigliantissima alla pazzia. Ma pure che dolcezza, che fascino in quella visione! Intanto sua moglie gemeva nel sonno, e lui si sentiva correre un brivido per tutto il corpo.
Ogni due ore doveva svegliarla per farle prendere una pozione come aveva ordinato il medico. Lei allora lo guardava dolcemente, e lo ringraziava delle sue cure, e gli sorrideva.
Ma verso mezzanotte sentí una carrozza che entrava sotto al portone. Non ci resse. Maria pareva tranquilla. Escì a passi leggeri e quando fu nell’anticamera s’accostò alla vetrata del finestrone che dava appunto sopra la corte. Alzò uno sportello sporse il capo. Il pioviscolio ora era gelato e si fermava in un leggiero strato bianco sul lastricato della corte.
Quell’acqua diaccia che gli piombava sul capo gli faceva piacere.
La cantante era accompagnata. Un cavaliere elegante scese il primo, l’aiutò a discendere, poi le offri il braccio per salire le scale.
Entrarono insieme.
Un momento dopo la finestra dirimpetto fu illuminata. Riccardo ricconobbe il salottino dove Irma lo aveva ricevuto la mattina stessa. Vicino al caminetto c’era una tavola preparata con due posate.
L’anticamera dove si trovava Riccardo era buia, per cui nessuno poteva vederlo. Ma anche senza questo lui non si sarebbe mosso: rimaneva là come affascinato. Quella vista lo faceva soffrire, eppure voleva vedere.
Ma forse vide troppo piú che non avrebbe voluto. A un tratto si ritirò con impeto, chiuse lo sportello e si scosse di dosso il poi vischio ghiacciato. Tremava di freddo, e un po’ anche di rabbia. Rimase un po’ così come istupidito, poi si scosse e sorrise ironicamente.
Un momento dopo tornò a tremare: gli era parso di sentire un gemito. Non aveva idea del tempo ch’era rimasto là, in una posizione cosí poco degna di un uomo come lui, e giá temeva che Maria sospettasse...
Corse in camera.
Maria dormiva, ma dormendo gemeva.
Guardò l’orologio; erano le due. La svegliò per farle prendere la medicina.
La febbre si era calmata: aveva gli occhi abbattuti, le guancie pallide: pareva stanca, ma in miglior stato.
Lo fissò con quei suoi occhi pieni di amore e di morte. Poi, come se non si sentisse la forza di parlare gli prese la mano nella quale teneva ancora il cucchiaio e la baciò in segno di ringraziamento.
A lui quel bacio in quel momento andò fino al cuore. Gli parve un battesimo, si sentí perdonato: rigenerato.
Questo era l’amore, il vero amore: la santificazione di tutta la sua vita, e quest’amore correva rischio di perderlo, e aveva corso rischio di profanarlo!
Aveva in cuore un tumulto: una nuova corrente di affetti lo trascinava. Non poteva resistere al desiderio di stringerla fra le sue braccia, di trasfondersi in lei, d’inebbaiarsi ancora una volta di quella gioia divina. Si lasciò cadere sui guanciali, l’abbacciò, la strinse, come un pazzo, come un disperato.
Piangeva, ma di gaudio. Era un altro uomo: l’uomo di un tempo. L’adorava. Lei era la sua Maria, la sola donna che avesse amato, che potesse amare, e non sarebbe morta. No! Non doveva, non poteva morire; ora no! Si sentiva forte, pieno di speranza, felice. Tutti i fantasmi erano fuggiti: aveva un’altra volta fiducia in sè stesso.
Lei intanto non pareva piú quella. Nessun abbattimento piú sul suo bellissimo viso. Sorrideva o parlava con una vivacitá serena e cosciente, di donna sana e felice.
— Mi ami sempre come una volta, disse, tra quelle lunghe carezze, mi ami sempre, grazie! senti, ho sognato ch’eravamo andati a Napoli e ch’ero guarita. Mi pareva che qualcuno volesse toglierti a me; una donna, oh! una bellissima donna! che ti incantava; ma tu avevi pietá della tua povera Maria e venivi con me a Napoli. Oh! come terminava bene il mio sogno!
Lui colse a volo l’idea di andare a Napoli, per non rispondere all’altra allusione. E difatti la prospettiva di partire lo consolava. Lontano avrebbe finito col dimenticare ciò che giá disprezzava. E poi il clima di Napoli avrebbe ritornato la salute a Maria. Come mai non ci aveva pensato prima!
E già ne discorrevano, facendo mille progetti deliziosi, tenendosi sempre abbracciati.
L’alba sorgeva intanto. La fiamma della lampada diventava sempre più pallida. Un chiarore vago penetrava attraverso ai vetri ed alle tende. Pareva un bel mattino. Probabilmente era gelato, e si preparava una di quelle belle giornate d’inverno, fredde e serene, che rallegrano il cuore.
Riccardo che aveva vegliato tutta la notte provava quel bisogno irresistibile di dormire che viene con l’alba. Maria stava tanto meglio, ma sentiva lei pure un dolce languore che la invitava al riposo. Posava la sua bella testa sul braccio sinistro di lui: e la sua mano destra le cingeva le spalle. Tacevano guardandosi amorosamente.
Ma a poco a poco i loro occhi si chiusero in un dolce sonno.
Riccardo si svegliò di soprassalto.
Il suo sonno fu rotto da una sensazione di freddo intenso; era un malessere ignoto, un sussulto e uno spavento mortale. La stanza era innondata di luce. Potevano essere le dieci.
Un raggio di sole scherzava coi capelli biondi di Maria e le illuminava la faccia. Pareva trasfigurata. Era immobile.
Lui si sentiva il braccio sinistro come irrigidito per la posizione un po’ forzata; la sua mano destra era gelida.
Gli occhi socchiusi di Maria con le palpebre abbassate parevano di marmo.... il respiro non esciva piú dalle sue labbra strettamente unite..... e come pesava il suo capo, e quale pressione straordinaria aveva la sua mano!... Oh!... un urlo disperato uscì dalla sua gola.
Maria era morta.
Due anni dopo, nelle ore piú calde di un giorno d’agosto, un uomo assai mal vestito e dalla barba lunga mezza grigia, saliva al cimitero di S. Miniato in Firenze. Il custode non voleva lasciarlo passare, ma quando vide un biglietto di due lire si mostrò piú mansueto. Il forastiero fece un ghigno; erano le sue ultime due lire.
Entrato nel cimitero andò dritto verso uno degli angoli della estremitá opposta, e si fermò davanti a un piccolo monumento di marmo; un bellissimo busto di donna sotto a un tempietto.
— Eccomi qui finalmente! mormorò: eccomi ai tuoi piedi. Tu, sempre buona e bella, mi perdonerei ancora.
Si levò il cappello e s’inginnocchiò posando la testa sul marmo.
In quel momento dalle finestre aperte di una villa vicina, si sentì venire il suono di un pianoforte. Era una melodia lenta e appassionata, una di quelle canzoni slave, piene di molti abbandoni che toccano il cuore.
L’uomo inginnocchiato balzò in piedi, col viso pallido e contratto:
— Anche qui! digrignò stringendo i pugni, anche qui mi perseguiti! Non ti basta di avermi spogliato, di avermi tradito e schernito e reso vile, vuoi togliergli anche questa ultima consolazione?
Ma la sua collera passò a poco a poco. Scosse il capo, scrollò le spalle, sorrise. Sorrise fissando gli occhi in quel soavissimo viso di marmo illuminato dal sole.
— Tale e quale com’era quella mattina! e sospirò. E le rughe della sua fronte si spianarono, e i suoi occhi si empirono di lagrime.
Cavò una piccolissima pistola dalla tasca del suo soprabito logoro, e se la appuntò al petto...
Il colpo partì.
Il custode accorse, ma troppo tardi. Riccardo era morto vicino alla tomba di sua moglie; la palla gli aveva trapassato il cuore.
Intanto l’ultimo ritornello della canzone slava, si spandeva lietamente nell’aria, tra il profumo dei fiori e i raggi ardenti del sole.
FINE.