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Lettera a Pitocle

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Lettera a Pitocle
Altri titoliLettera sui fenomeni celesti
Busto di Epicuro (Pergamonmuseum, Berlino)
AutoreEpicuro
1ª ed. originaleIII secolo a.C.
Genereepistola
Sottogenerefilosofica
Lingua originalegreco antico
PersonaggiEpicuro, Pitocle

La Lettera a Pitocle è la seconda delle lettere filosofiche epicuree tramandataci integralmente e riguarda i corpi celesti.

Si tratta di una delle epistole di Epicuro[1] conservatesi nel corso della tradizione delle sue opere, grazie a Diogene Laerzio, che nel bìos di Epicuro[2] ha tramandato, appunto, questa e altre due lettere come epitome del pensiero metafisico, fisico ed etico del filosofo di Samo.

Pitocle era probabilmente amasio e allievo di Epicuro[3], che pose Polieno come suo tutore [4] e da lui si fece accompagnare a Lampsaco[5]. Probabilmente, proprio in contrasto con la ben più ampia e impegnata lettera a Erodoto, questa epistola si concentra sul problema di spiegare le cose che vediamo nel cielo, piuttosto che su questioni che sono direttamente davanti a noi qui sulla terra.

«La prima cosa da capire è che non c'è altro scopo nell'acquisire la conoscenza dei fenomeni meteorologici, sia in combinazione con altre dottrine o isolatamente, che la tranquillità dell'animo (ataraxìa) e ferma convinzione (pìstis bèbaios), proprio come tutto il resto.»

Una volta stabilito secondo quale criterio si debba indagare sulle questioni celesti, Epicuro passa a parlare dei mondi, di come nascano e siano innumerevoli, separati da quelli che Lucrezio chiamerà intermundia[6]. Per quanto concerne i corpi celesti, Epicuro ne definisce origine, grandezza e composizione, per poi passare a discutere della loro levata e tramonto, che possono avvenire per accensione e spegnimento, oppure per apparizione sulla terra e nascondimento dovuto all'ostruzione di altri corpi[7]. Del resto, Epicuro non escluderà altre spiegazioni, come anche a proposito dei loro moti. Della luna Epicuro si occupa diffusamente[8], trattando anche delle eclissi, che attribuisce allo spegnimento o all'interposizione di altri corpi[9].

Passando ai meteora, ossia i fenomeni atmosferici, Epicuro tratta delle nubi, della pioggia, del tuono e della folgore, del fulmine, dei turbini, dei terremoti[10]. Dopo una sezione relativa ai venti, si passa a trattare i fenomeni di condensazione dell'umido, come la grandine, la neve, la rugiada, la brina e il ghiaccio[11].

Ancora, tornando ai corpi celesti, Epicuro tratta di quelli minori come comete e stelle fisse [12] e conclude l'epistola con un epilogo parenetico, in cui afferma nuovamente come la conoscenza esatta dei fenomeni celesti allontanerà l'uomo dalle superstizioni.

  1. ^ Secondo G. Calogero, Epicuro, in Enciclopedia Italiana, 1932, si tratta di una «compilazione scolastica».
  2. ^ Vite dei filosofi, X, 84-116.
  3. ^ Fr. 162 Usener.
  4. ^ Fr. 163 Usener.
  5. ^ Diogene Laerzio, X, 154, 11.
  6. ^ X, 88-90.
  7. ^ X, 91-92.
  8. ^ X, 94-96.
  9. ^ Seguendo Anassimene e Anassagora.
  10. ^ X, 99-105.
  11. ^ X, 106-111.
  12. ^ X, 111-114.
  • G. Arrighetti, La struttura dell'epistola di Epicuro a Pitocle, in "Studi Classici e Orientali", Vol. 16 (1967), pp. 117-128.
  • F. Verde, L’empirismo di Teofrasto e la meteorologia epicurea, in "Rivista di Filosofia Neo-Scolastica", Vol. 110, No. 4 (Ottobre-Dicembre 2018), pp. 889-910.
  • Epicuro, Epistola a Pitocle, a cura di F. Verde, Berlino, Academia, 2022.

Voci correlate

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Altre epistole dottrinali di Epicuro:

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