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lunedì 17 agosto 2020

Galletti (Finferli) con un Porcino (Brisa) a far da intruso, all'aroma di Timo di montagna

In questo Blog non si parla di funghi. Dio ce ne scampi di mandare al creatore, per una svista mia o del lettore, qualcuno che scambia una amanita per un ovolo. Si parla di erbe e in particolare, anche qui del timo, qui a profumare un piatto di galletti. Il Berti, il padrone della baita nella quale passammo il nostro inizio agosto, mi condusse su ripide abetaie dove di tanto in tanto si trovavano delle isole di muschio e di erba dove crescevano i fingerli. Era una stagione non adatta ai funghi, troppa secchia, e fu solo grazie alla presenza del Berti riuscii a raccoglierne a sufficienza.

In cambio della conoscenza dei luoghi, insegnai al Berti il mio modo di pulire i galletti, letto anni fa su una rivista di cucina francese. Si toglie con un coltellino la parte terrosa del fungo e a parte si mette a bollire abbondante acqua ultrasalata (direi un quattro pugnetti di sale grosso per litro). Quando l'acqua bolle si gettano i finferli e vi si lasciano fino a che non riprende il bollore. Quindi con una schiumaiola si trasferiscono in uno scolapasta e si procede nella loro cottura come più aggrada. Per prima cosa c'è da dire che questo metodo funziona solo con i galletti (e qualche altro simile che non vi sto qui a dire); non azzardatevi a farlo con porcini, mazze di tamburo, prataioli o peggio che peggio con gli ovoli, li distruggereste. La consistenza del galletto permette che si bistratti un po'. Poi va detto che il sapore non ne risente affatto, anzi rispetto ai lunghi lavaggi in acqua fredda ai quali i funghi sono spesso sottoposti, direi che rimane più persistente. Certo, qualche filo di muschio o ago di abete che non vanno a fondo nella pentola con la terra, rimarranno, ma vuoi mettere???

I funghi li cucinai come so fare, ovvero trifolandoli in olio con dell'aglio e aggiungendo rametti di timo fresco raccolto mentre tornavo dalla raccolta. Un porcino, raccolto il giorno prima e sopravvissuto al contrario dei suoi compari più giovani a una insalata con scaglie di latteria stagionato, finì in pentola a ravvivare il sapore dei galletti. Non dimenticate una abbondante macinata di pepe nero.

Occhio con il sale se avete usato la mia procedura di pulizia!! Assaggiateli prima di aggiungerne. 

Il funghi furono consumati insieme a polenta arrosto e allo spezzatino di camoscio avanzato la sera prima.



Il giorno seguente, quello che era avanzato, mi servì per condire dei maltagliati che stesi io stesso utilizzando la borraccia della Ferrino come matterello. 

Fui molto fiero dell'artifizio che scovammo con mia moglie.

domenica 16 agosto 2020

Camoscio al Timo di Montagna

 Le straordinarie proprietà aromatiche di questo tipo di Timo, che cresce sulle montagne intorno a Val di Pejo, e chissà in quante altre valli alpine, le appresi dal Berti Gino, cacciatore di cervi e camosci. E' lui che ci ha affittato questa baita a mezza costa da cui si gode uno spettacolo di rara bellezza.  


Isolati da tutto, siamo stati qui, coadiuvati da una cucina economica/stufa a legna, da un boiler per l'acqua del bagno ugualmente a legna e da due efficienti pannelli solari, per alcuni giorni.  

Quei giorni li abbiamo passati a far passeggiate, raccogliere funghi, leggere Dante e Ovidio, e a parlare con il Gino, che ogni tanto veniva su dalla valle a vedere che tutto andasse bene. 

In una di queste occasioni, come ci aveva promesso, si inerpicò con la sua panda 4x4 per la via sterrata che in soli 15 minuti porta alla baita, in compagnia della moglie, che portava con se una pentola piena di spezzatino di camoscio che il Berti aveva cacciato su una cima che mi indicò più di una volta. 

 

Lui lo aveva cacciato, lui lo aveva cucinato e lui sceglieva le persone che più gli garbavano con chi condividerlo. 


Ed ecco la ricetta del Berti del "Camoscio al timo di montagna". 

Si tritano finemente grani di ginepro, due foglie di alloro, salvia e timo in quantità, si aggiunge pepe e sale. Il macinato si tiene lì pronto. Si tagliano a cubetti piccoli la carota (non troppa sennò è troppo dolce) e il sedano (non troppo sennò è troppo amaro) ma non si mette la cipolla che al Berti non piace. Si fa soffriggere nell'olio - lui ricorda che prima si usava lo strutto ma adesso di buono non se ne trova più - lo spezzatino di camoscio. È importante in questa fase far "perder acqua" allo spezzatino; quanto tempo necessita questa operazione dipende da quanto è vecchio il camoscio, ma "lo vedi tu". Si aggiunge il battuto e si fa soffriggere con la carne e poi il macinato di timo e spezie. Una altra rosolata e poi giù una bottiglia di Teroldego (per circa un chilo di carne) e si fa andare finche il sugo non è ridotto e la carne morbida (dipende dall'età del camoscio, nel caso necessitasse più cottura delle due ore che abbisogna un animale giovane aggiungere acqua calda).

Il piatto che ne era risultato era eccellentemente accompagnato da polenta cotta nel paiuolo di rame sulla stufa della baita (più di un'ora) e da una bottiglia di Teroldego (Ah averci avuto un Lagrein, magari riserva!). Bevemmo al cacciatore e al camoscio il cui sacrificio aveva reso conviviale una nottata di pioggerella incessante.


Ora a parte la ricetta qualche considerazione va fatta. Della bontà del piatto si è già detto, della bellezza di vedere quegli animali zompare da sasso a sasso sulla montagna come fossero ballerini, benché difficile da descrivere è facile da immaginare, toglierne uno dai suoi picchi e dalla sua libertà è chiaramente una crudeltà e un abuso verso la natura e la società. Non basta dire che una cacciata del genere dura giorni di camminate per i monti, mire eccezionali, conoscenze acquisite negli anni e forse nelle generazioni. Non basta neanche, dire che la caccia è di "selezione" e che il numero e le modalità sono strettamente regolamentate e che la quantità dei capi presenti attualmente supera di molto il numero che quei monti possono nutrire (quante carcasse negli inverni rigidi di cervi riempiono le radure intorno alla val di Sole). No la caccia, oggi come ieri, è rapina nei confronti della natura è un togliere qualche cosa che è proprietà di tutti. La sola cosa che le fa perdonare la sua crudeltà è il fatto di rappresentare uno dei pochi legami che ci stringe ancora a quella "natura" che tutti vogliamo difendere ma che diventa sempre più estranea a noi. Il cacciatore e la preda come i dipinti di Lascaux ci insegnano, diventano cosa unica e si instaura una perfetta comunione tra i due. È bello a questo proposito leggere il saggio di Roberto Calasso "Il Cacciatore Celeste" sul passaggio da raccoglitore a cacciatore degli ominidi. Il nostro rapporto con la natura è ora un lungo susseguirsi di atti proibiti o regolamentato da codicilli sanciti da autorità sempre più intersecate, dall'UNESCO alla Unione Europea, allo Stato, giù giù fino a regioni, province, comuni, enti parco. Ognuna di queste istituzioni sancisce regole e tabù, morali o legali, che si interpongono tra noi e la natura. Proibiti o regolamentate sono molte aree del paese, le raccolte - funghi, mirtilli, tartufi, lumache, asparagi.... - l'accendere fuochi, il bivaccare, perfino il campeggiare sotto una certa quota lo è. L'avvistamento di molti animali avviene in capanni prestabiliti sotto gli occhi vigili di guardaparco, volontari ornitologi, protezioni civili etc che ci avvertono che non si possono neanche fotografare certi nidi per evitare che qualcuno poi li possa razziare. Non è possibile "uscire dai percorsi" allontanarsi dai capanni di avvistamento, passeggiare fuori dai sentieri in montagna. Io qui, la "natura" lì, divisi da un fossato sempre più largo. Mi domando quanto questo approccio ci permetta di renderci conto che noi, i cacciatori e loro i camosci siamo la stessa cosa, stretti dal comune destino di nascere, sopravvivere quel tanto che basta per mandare avanti in nostri geni e poi scomparire per sempre, in una cassa zincata, dentro a una urna cineraria, tra le fauci di lupi affamati o profumati di timo accanto a una polenta cotta almeno un'ora. 

venerdì 14 agosto 2020

Il Timo Serpillo

 I timi, sono molti e tutti molto profumati; sono presenti da nord a sud e io li distinguo in modo maldestro in due grosse categorie, quella degli striscianti, genericamente definibile come Timo serpillo e quella degli eretti che sono (nella mia classificazione)  il Timo vero e proprio. Ne ho trovati sulle pareti rocciose di arse isole greche e tra i muschi del sottobosco alpino, al bordo dei sentieri dei cerreti laziali e tra i muretti a secco di Marettimo. Gli odori variano portandosi dietro quelli della terra dove sono nati. Quello di cui tratterò ora, lo ho tentativamente determinato come Thymus longicaulis (Presl, 1826) che al pari dei suoi congiunti striscianti, appartiene alla famiglia delle Lamiaceae. 


L'aroma che emana sfregando le sue foglie è più lieve di quello dei "serpilli" delle mie parti, ma ha qualche aroma in più che ruba ai larici e agli abeti, nelle vicinanza dei quali cresce.