Vai al contenuto

Tutela reale

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

In diritto del lavoro, la "tutela reale" si differenzia dalla cd. "tutela obbligatoria" in quanto ha ad oggetto la tutela dagli esiti di un licenziamento nullo od illegittimo in aziende che hanno più di 15 dipendenti.
In dette aziende, infatti, il lavoratore ingiustamente licenziato ha diritto non solo ad un risarcimento del danno pari alle retribuzioni maturate e/o maturande dal licenziamento alla reintegra, con un limite da 5 a 12 mensilità, a seconda dell'anzianità di servizio, ma anche alla reintegra stessa nel posto di lavoro che consiste nella ripresa della medesima attività lavorativa con azzeramento, quindi, degli effetti del recesso.
In sostituzione della reintegra, il lavoratore può richiedere la corresponsione di 15 mensilità della retribuzione globale di fatto, ai sensi dell'art. 18 legge n. 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori).

La reintegra differisce dalla riassunzione perchè non si tratta di un nuovo contratto di lavoro nè in particolare di un contratto identico di contenuto al precedente, per inquadramento, mansione e retribuzione.

Applicando la tutela reale, il giudice dichiara che la risoluzione del rapporto di lavoro è illegittima, ossia nulla ab initio, e che dunque il contratto di lavoro non ha mai cessato di avere validità e di vincolare il datore agli impegni in esso sottoscritti.

In altri Paesi il lavoratore non ha diritto alla reintegra, ma solo a un risarcimento del danno, qualunque sia il numero di lavoratori dipendenti dell'azienda.

Il diritto alla reintegra nell'ordinamento italiano non discende solo all'esigenza di una maggiore tutela del lavoratore, ma anche da considerazioni strettamente giuridiche.

La legge italiana tiene conto delle oggettive difficoltà a trovare una nuova occupazione e un nuovo reddito per vivere, finita la copertura delle 15 mensilità. La reintegra è la conseguenza del duplice annullamento di un contratto, da parte del datore con il licenziamento e del giudice con la dichiarazione di illegittimità, che finisce per affermarne la validità.

Critiche alla tutela reale

Disparità con le piccole imprese

La tutela reale è stata oggetto di critiche perchè nell'ordinamento italiano si applica solamente alle imprese che impiegano almeno 15 dipendenti. Da questa tutela sono esclusi la amggioranza dei lavoratori, essendo il tessuto produttivo italiano composto da una prevalenza di piccole e medie imprese.

"Nanismo" delle aziende italiane

Un altro argomento di critica riguarda il fatto che la tutela reale incentiverebbe il nanismo delle imprese italiane, fattore di scarsa competitività con aziende estere di respiro internazionale.

Le aziende sarebbero indotte a restare sotto i 15 dipendenti, per mantenere una libertà di licenziamento. Le imprese più grandi sarebbero indotte a "dividersi" in aziende sotto i 15 lavoratori, le quali di fatto operano come un'unica realtà produttiva.

Tale distorsione del mercato potrebbe essere eliminata non necessariamente con l'abolizione della tutela reale e una riduzione dei diritti per i lavoratori, ma con incentivi fiscali che inducano le aziende a aggregarsi e fare massa critica.

Non mancano esempi di grandi multinazionali che occupano molte risorse in Paesi, i quali prevedono il licenziamento solo tramite giusta causa.

Un'accettazione diffusa della flessibilità, in termini di orario e di sede di lavoro, oltrechè di mansione, unitamente a realtà aziendali più grandi, consentirebbe di garantire nel tempo una stabilità di impiego ai propri lavoratori.

In un contesto competitivo fatto di incertezza e instabilità, resta difficile garantire a un lavoratore un "posto fisso"; con una flessibilità in termini di sede, orari e mansione, variabili nel tempo, può esservi una stabilità almeno dei livelli occupazionali.

Argomenti a favore

Tutela reale come fondamento del giuslavorismo

La libertà di licenziamento potrebbe azzerare l'efficacia del giuslavorismo, inteso come insieme di diritti e tutele a protezione dei prestatori di lavoro. Il lavoratore può adire il giudice del lavoro e ottenere l'applicazione delle leggi vigenti, mentre il datore, potrebbe intimare il licenziamento, con altra motivazione e a distanza di tempo dalla sentenza, perchè non sia ravvisabile un nesso di causalità fra i due fatti.

Data la libertà di licenziamento dei datori, l'esercizio concreto di qualunque diritto e tutela contemplati nel diritto del lavoro risulta disincentivato e penalizzante per il lavoratore.

Un'estensione delle fattispecie di licenziamento discriminatorio, nullo a priori, amplierebbe talmente le casistiche di lavoratori non licenziabili, da rendere inconsistente la discrezionalità concessa ai datori.

Tutela reale e approccio partecipativo

La libertà di licenziamento confligge con la libertà di opinione e di azione richieste ai lavoratori, quando si intendano introdurre democrazia e pluralismo sindacale, un approccio più partecipativo e meno conflittuale nelle relazioni con i datori di lavoro.

Diversamente, in presenza di cogestione o di altre forme partecipative, è preclusa l'autonomia decisionale del sindacato e/o del singolo, che sono obbligati ad adeguarsi alle linee-guida indicate dalla proprietà.

Inottemperanza dei datori di lavoro

Conseguenze penali

L'inottemperanza a un ordine giudiziale assume rilevanza penalwe quando il contributo dell'obbligato è indispensabile a dare effettività alle prestazioni imposte dalla sentenza o alla natura interdittiva di questa. Il reato non dipende quindi dalla mancata autorità del'organo giudiziale, ma dall'esigenza di garantire l'effettività della tutela giuridica, la concreta applicabilità delels entenze garantita dalla Costituzione.[1].

Conseguenze civilistiche

In caso di inottemperanza del datore di lavoro, il lavoratore che ottenga sentenza di annullamento del licenziamento e di condanna al pagamento della retribuzione spettantegli fino alla effettiva reintegra, può utilizzare tale sentenza che ha forza di titolo esecutivo. Il lavoratore può domandare l'esecuzione forzata e non necessita di un decreto ingiuntivo, per richiedere il pagamento delle mensilità arretrate. La sentenza costituisce titolo esecutivo anche se non specifica in cifre l’importo dovuto. [2].

In qualità di creditore, il dipendente potrebbe presentare istanza di fallimento nei confronti dell'azienda, e tale atto non costituisce giusta causa di licenziamento: il lavoratore viene meno agli obblighi di fedeltà e diligenza nei confronti del datore per far valere un suo diritto legittimo. Analoga giurisprudenza vale per il dipendente, non sottoposto a provvedimenti di licenziamento, che vanta degli stipendi arretrati non pagati.

Il dipendente può chiedere il risarcimento del danno esistenziale derivante dalla mancata acquisizione di professionalità durante il periodo che va dall'atto di licenziamento alla effettiva reintegra. Se il datore non rispetta la sentenza di reintegra, il lavoratore può chiedere anche il risarcimento del danno morale, poichè tale inadempienza del datore reca grave pregiudizio alla sua immagine e reputazione.

Note

  1. ^ Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 36692 ud.. 27/09/2007 - deposito del 05/10/2007: "Il mero rifiuto di ottemperare ai provvedimenti giudiziali previsti dall'art. 388 comma 2 c.p. non costituisce comportamento elusivo penalmente rilevante, a meno che la natura personale delle prestazioni imposte ovvero la natura interdittiva dello stesso provvedimento esigano per l'esecuzione il contributo dell'obbligato. Infatti l'interesse tutelato dal secondo come dal primo comma dell'art. 388 c.p. non è l'autorità in sè delle decisioni giurisdizionali, bensì l'esigenza costituzionale di effettività della giurisdizione"
  2. ^ Cassazione Sezione Lavoro n. 478 del 19 gennaio 1999, Pres. Trezza, Rel. De Matteis

.

  Portale Diritto: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di diritto