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mercoledì 4 giugno 2014

La Bresaola di Chiavenna

Anni fa avevo preparato per Coquinaria un reportage  sulla produzione artigianale della Bresaola di Chiavenna, la nostra Brisaola, andando nella macelleria dei Fratelli Panatti.
Molto gentilmente e pazientemente il signor Franco ed il signor Luigi si erano prestati a spiegare i vari passaggi  della lavorazione mentre io cercavo di documentare tutto fotografando.
Loro ci hanno lasciati ma la tradizione continua con  Domenico, il figlio di Franco, che produce una brisaola ottima come quella di prima.
Questa è la loro 

Bresaola

La Bresaola è un prodotto tipico ed esclusivo della Valtellina e Valchiavenna, ottenuto dalla salagione e stagionatura di pregiati gruppi muscolari della coscia dei bovini. 
Con la dicitura "Bresaola della Valtellina" il salume ha ottenuto l'"Indicazione Geografica Protetta" (IGP)
Le tipologie della bresaola sono tre e dipendono dal pezzo di carne che viene usato. 

  • Punta d'anca. È il taglio più pregiato ed ha un peso minimo di 2,5-3 chilogrammi. Corrisponde alla fesa privata del muscolo adduttore. 
  • Sotto fesa. È di almeno due chilogrammi e corrisponde alla porzione laterale della muscolatura della coscia.
  • Magatello. Ha un peso di almeno un chilogrammo. Deriva anch'esso dal muscolo laterale della coscia.

  • Seppur di antica tradizione, la bresaola, fino agli anni Quaranta era conosciuta solo in provincia di Sondrio; dopo l'ultimo conflitto mondiale ha cominciato a essere diffusa nel nord Italia e a partire dagli anni Sessanta si è diffusa ampiamente su tutto il territorio nazionale e all'estero.
    È difficile stabilire con precisione da dove derivi il nome.
    Potrebbe derivare dall'espressione "salàa come brisa", per l'uso che un tempo si faceva del sale nella conservazione e per il fatto che in Val Chiavenna "brisa" era un termine usato per indicare una ghiandola dei bovini dal sapore fortemente salato.
    C'è chi riconduce l'origine di questo nome al termine "brasa" (brace, in dialetto), poiché un tempo l'asciugamento del prodotto avveniva in locali riscaldati da bracieri alimentati da carbone di legna di abete e bacche di ginepro, timo e foglie di alloro.
    Da "Brisaola" il nome piano piano è mutato negli anni in Bresaola ma a Chiavenna si dice ancora brisaola.

    Passaggi della lavorazione

    I pezzi di carne vengono preparati e ripuliti da tutti gli scarti


    coperti dalla cosiddetta concia


    una mistura di sale, pepe e aromi (detti "la droga"),


    sistemati in grandi vasche.


    Il macellaio Panatti usa anche del vino. Si forma così, con i succhi della carne, una salamoia nella quale i pezzi vengono rivoltati più volte in modo da intridersi bene.


    Trascorso così un primo periodo, quando gli artigiani ritengono che sia stato raggiunto il giusto grado di salatura, la carne viene asciugata e ripulita.


    Segue un periodo di asciugatura e finalmente ha inizio la stagionatura


    Una bresaola è pronta dopo un mese di permanenza in locali a temperatura e umidità controllate.
    Molto ricercate sono le "bresaole della Val Chiavenna", che vanta titoli di patria di questa particolare lavorazione e anche una varietà molto amata dagli appassionati, la "bresaola affumicata" al profumo di legna dolce.


    La caratteristica che distingue la bresaola da altre forme di carne secca, tipiche al di là dei valichi alpini nel cantone svizzero dei Grigioni, è la morbidezza.
    La bresaola si consuma tagliata a fettine sottili e va gustata così com'è, in genere come antipasto.


    Solo qualche anno fa, i prosciutti e le bresaole venivano messe a stagionare lungo il fiume Mera, appese ai balconi di alcune case affacciate sul fiume.



    venerdì 26 aprile 2013

    Festa di compleanno


    Ricordo quanto mia nonna amasse festeggiare il suo compleanno.
    -          Per al me cumpleann femm un bel legriùn!
    ( per il mio compleanno facciamo un bel festone allegro!)
    Adorava avere tutti i figli e i nipoti attorno alla sua tavola ed eravamo veramente tanti.
    Quel giorno si preparava con cura, si ravviava i capelli con la treccia arrotolata dietro la nuca ed indossava il suo vestito preferito,  nero a pois bianchi con l’ampio colletto di pizzo bianco.
    Si era fatta portare la stoffa da suo figlio Giuseppe:
    -          Giuse g’ho de bisogn un vistidin, portom in piasè  un quai meter de misto seda nera a puarini bianchi.
    (Giuse ho bisogno un vestitino, portami per piacere qualche metro di misto seta nero a puarini bianchi)
    Bastava che scambiassi uno sguardo con i miei fratelli sussurrando:
    -          Vistidin … puarini… mmpppppfffff…
    e scappavamo in cucina a ridere come matti.
    Mia nonna non era certamente un fuscello, nel suo massimo splendore arrivò a 160 chili, e l’uso di quei diminutivi aveva su di noi un effetto comico.
    Non era sempre stata così, anzi da ragazza, come amava raccontare, suscitava anche l’ammirazione dei “giovinotti”. Ogni giorno, andando a scuola ad insegnare, passava davanti alla caserma ed il piantone appena l’avvistava in fondo alla strada si precipitava dentro ad avvertire i suoi commilitoni:
    -          Arriva la signorina bersagliera! Arriva la signorina bersagliera!
    Tutti si disponevano davanti all’androne sull’attenti ed uno ebbe anche l’ardire di chiedere:
    -          Signorina mi vuole sposare?
    Mia nonna lanciava un sorriso e proseguiva dritta e fiera ridacchiando tra sé e sé.
    -          L’è stada colpa del pan bianc! Dopo el pan negher del temp de guera che el pareva resegadùsc  qui bei michett  bianc, croccant e un po’ brusà erano una meraviglia! Finivi pù de mangiann!
    ( E’ stata colpa del pane bianco! Dopo il pane nero del tempo di guerra che sembrava segatura, quelle belle michette bianche, croccanti e un po’ bruciate erano una meraviglia! Non finivo più di mangiarne!)
    Lei  giustificava così il suo esponenziale aumento di peso ma sicuramente non era solo quello.
    A me ragazzina golosa diceva:
    -          L’è de poca spesa, quand l’ha mangià el campanìn la mangia anca la gesa.
    ( Non costa molto mantenerla,  quando ha mangiato il campanile mangia anche la chiesa, cioè mangia di tutto e non scarta nulla)
    Ma da qualcuno avrò ben preso …
    A lei piaceva molto andare a fare la spesa, “a pruvèd”, a provvedere ai bisogni della famiglia e quando le gambe non gliel'hanno più permesso si faceva portare in casa quanto le occorreva.
    Arrivava ogni settimana la “ donèta de Gordona” , si sedeva in cucina e dalla sua pesante gerla tirava fuori burro, uova, formaggio, farina gialla, gallina o coniglio, mezzo capretto, radicc…
    La nonna non resisteva e comperava tutto:
    -          Tant i van minga a màa…
    ( tanto non vanno a male)
    Che ne dici nonna se per questa festa cucino così un po’ del ben di Dio che hai comperato?
    Come antipasto proporrei un’insalata che prepari lo stomaco al resto  e i “radicc”, i germogli di tarassaco appena spuntati nei prati  sono l’ideale. Questi sono tenerissimi hanno le foglioline interne che virano verso il rosso, assieme ci mettiamo anche un ovetto e un po’ di speck, non sia mai che tu possa dire:
    -          Demm minga erba che son minga ‘na cavra!
    ( Non datemi erba che non sono una capra!)

    Radicc e öf in dur
    ( Germogli di tarassaco con uova sode)


    Per 4 persone:
    200 g di radicc (tarassaco o dente di leone)
    4 uova
    50 g. di pancetta 
    4 cucchiai di olio d'oliva
    2/3 fette di pane casareccio
    vino bianco
    Sale

    Pulire le foglie di tarassaco eliminando le radichette, lavare sotto l’acqua corrente ed asciugare.
    Rassodare le uova cuocendole per 7 minuti calcolando il tempo dall'inizio dell'ebollizione. Passarle in acqua fredda, sgusciarle e lasciarle raffreddare. Tagliare il pane a piccoli dadi uguali e tostarli in forno per qualche minuto. Soffriggere la pancetta tagliata a cubetti in un padellino e sfumare con il vino bianco. Procedere con la preparazione del piatto: disporre le foglie di tarassaco, unire l’uovo tagliate a metà, i tocchetti di pane e sopra versare i dadini di pancetta con un cucchiaio del fondo di cottura a condimento.
    Poi direi di usare la farina gialla nostrana per fare una bella polenta e ci accompagniamo il

    Capretto al forno
    Ingredienti per 4 persone:


    2 kg di capretto nostrano
    100 g di burro
    1 dl di olio d'oliva extravergine d’oliva
    due pizzichi di segrisöla (timo selvatico)
    un paio di rametti di rosmarino
    3 bacche di ginepro
    1 rametto di maggiorana
    1 spicchio d’aglio
    vino bianco
    sale e pepe

    Lavare e tritare le erbe aromatiche e lo spicchio d’aglio
    Tagliare il capretto in piccoli pezzi, condirlo bene con olio, pepe, le erbe aromatiche tritate e lasciarlo marinare per una notte
      al fresco in un contenitore di vetro o ceramica
    Trasferire i pezzi in una teglia di alluminio spesso o di rame, aggiungere il burro a pezzetti, rosolare a fuoco forte, sfumare con il vino bianco e mettere in forno a 180° rigirandolo due o tre volte finché non avrà raggiunto un bel colore dorato.
    Servirlo con polenta fumante condita con un paio di cucchiai del fondo di cottura del capretto.

    E per finire  ecco il

    Cuore di frolla con crema e marmellata d'arance amare


    Ingredienti:
    Per la pasta frolla
    200 gr farina 00
    50 gr di semola di grano duro rimacinata
    150 gr burro
    100 gr zucchero
    2 tuorli
    essenza di vaniglia e scorza d’arancia
    Pizzico di sale
    Un vasetto di marmellata d’arance amare

    Per la crema pasticcera:
    ½ litro di latte
    150 gr di zucchero
    4 tuorli
    45 gr di maizena
    Scorza d’arancia grattugiata
    Essenza di vaniglia.

    Preparazione:

    Per la pasta frolla:
    Lavorare velocemente il burro con lo zucchero, unire i tuorli, la farina, l’essenza di vaniglia, la scorza d’arancia grattugiata ed il sale.
    Lavorare velocemente, fare una palla e metterla in frigo coperta con un canovaccio per almeno mezz’ora.
    Sbattere i tuorli con metà zucchero ed unire la maizena alla fine quando sono ben montati.
    Far bollire il latte con il restante zucchero, la scorza d’arancia e la vaniglia.
    Versare metà latte nel composto di uova, mescolare e rimettere il tutto nel latte rimasto. Portare a ebollizione rimestando e dopo pochi minuti toglierla dal fuoco e far raffreddare.
    Stendere la pasta nella tortiera risalendo bene sui bordi, con gli avanzi di pasta formare dei cuoricini.
    Bucherellare il fondo della pasta frolla, stendervi mezzo vasetto di marmellata d’arance riscaldata per facilitare l’operazione.
    Riempire con la crema pasticcera fredda e mettere in forno  a 170° per circa 30 minuti. Togliere la crostata dal forno, quando è fredda spalmarvi sopra la rimanente marmellata d’arance e decorare con i cuoricini


    giovedì 31 gennaio 2013

    Attorno a un lavèc da " Il Lunario di Valchiavenna 2011"


    Quanta storia attorno ad un semplice utensile da cucina che ci arriva dalla notte dei tempi.
    Attorno a questa  pentola pesante, resistente e fragile allo stesso tempo.
    Resistente come la fibra montanara dei lavegiàt, dei cavatori di pietra ollare, ma fragile come possono essere fragili  e delicati i sentimenti, basta un urto, uno sbalzo e si rovina per sempre.
    Una storia vecchia di secoli, anzi, se pensiamo alla formazione della pietra ollare, è una storia che risale a milioni di anni fa.
    Durante il Giurassico medio, circa 180 milioni di anni fa, le vicende geologiche portarono all’apertura di un “piccolo” braccio oceanico, chiamato dai geologi Oceano Ligure - piemontese, che separò la massa continentale africana da quella europea. Il fondo era formato da croste di silicato di ferro e magnesio , materiali che uscivano continuamente come magma da una frattura mediana.
    A partire dal Cretaceo, 120 milioni di anni fa, le placche europea ed africana si avvicinarono viepiù  sino ad arrivare alla collisione: la placca europea finì sotto alla placca africana.
    Tutto quello che era frapposto tra i 2 continenti venne schiacciato, parte finì in profondità e parte venne sollevato sulle piattaforme continentali decretando la fine dell’Oceano Ligure Piemontese e la nascita delle Alpi.
    Nel Terziario, 30 milioni di anni fa, tra le falde rocciose Tambò e altre si infilarono delle rocce del fondo dell’Oceano.

    lunedì 17 dicembre 2012

    Il Mago di Natale, ovvero storia di un salmì di capriolo

    Il Mago di Natale


    S'io fossi il mago di Natale
    farei spuntare un albero di Natale
    in ogni casa, in ogni appartamento
    dalle piastrelle del pavimento,
    ma non l'alberello finto,
    di plastica, dipinto
    che vendono adesso all'upim:
    un vero abete, un pino di montagna,
    con un po' di vento vero
    impigliato tra i rami,
    che mandi profumo di resina in tutte le camere,
    e sui rami i magici frutti:
    regali per tutti.
    Poi con la mia bacchetta me ne andrei
    a far magie
    per tutte le vie.

    In via Nazionale
    farei crescere un albero di Natale
    carico di bambole
    d'ogni qualità
    che chiudono gli occhi
    e chiamano papà,
    camminano da sole,
    ballano il rock & roll
    e fanno capriole.

    Chi vuole, le prende:
    gratis, s'intende.
    In piazza San Cosimato
    faccio crescere l'albero
    di cioccolato;
    in via del Tritone
    l'albero del panettone;
    in viale Buozzi
    l'albero dei maritozzi,
    e in largo di Santa Susanna
    quello dei maritozzi con la panna.

    Continuiamo la passeggiata?
    La magia è appena cominciata:
    dobbiamo scegliere il posto
    all'albero dei trenini:
    va bene piazza Mazzini?
    Quello degli aeroplani
    lo faccio in via dei Campani.

    Ogni strada avrà un albero speciale
    e il giorno di Natale
    i bimbi faranno il giro di Roma
    a prendersi quel che vorranno.

    Per ogni giocattolo
    colto dal suo ramo
    ne spunterà un altro
    dello stesso modello
    o anche più bello.

    Per i grandi, invece, ci sarà,
    magari in via Condotti,
    l'albero delle scarpe e dei cappotti.

    Tutto questo farei se fossi un mago.

    Però non lo sono
    che posso fare?

    Non ho che auguri da regalare:
    di auguri ne ho tanti,
    scegliete quelli che volete,
    prendeteli tutti quanti.


    Gianni Rodari

    Anch'io avevo un Mago speciale... ve lo racconto..

    "Il cielo è grigio, fa freddo. Dalla finestra vedo scendere i primi fiocchi di neve.
    M’incanto a guardarli: volteggiano fitti e si appoggiano lievemente sul selciato.
    I pensieri vanno, pensieri in libertà.
    Risento la voce del nonno:
    - Fiö sü…andemm a fa la slita! 
    ( Bambini su, andiamo a fare la slitta)
    Scarponcini, calze lunghe di lana, berretto, guanti, in un lampo siamo pronti con slittino e slitta grande e ci avviamo allegramente su per "Capiöla" fino al "Prà Grand" (Prato Grande).
    Salite, discese, ruzzoloni, palle di neve lanciate e prese, risate fino al tardo pomeriggio: oh peccato, viene buio presto, bisogna tornare.
    Alla Cappelletta ci si ferma sempre per accendere un lumino e recitare un’Ave Maria.
    C’è un albero lì davanti, un albero speciale: “l’albero delle caramelle”.
    Le produce solo quando si va con il nonno: lui allunga la mano verso i rami spogli e noi allunghiamo lo sguardo speranzosi. I rami sono nudi, lui fa il gesto di raccogliere qualcosa, ritira il braccio ed offre una caramella a ciascuno di noi in attesa, meravigliati che la “magia” si ripeta ogni volta.
    Torniamo a casa gelati, con le guance rosse dal freddo , ma c’è la stufa accesa in cucina: ci sediamo attorno allungando le mani e i piedi che formicolano. Sulla stufa c’è una pentola grande che manda un profumo irresistibile di salmì.
    Con i brasati, gli stracotti, gli umidi sono i piatti del “conforto”, della “convivialità”, del “ritrovarsi”. Cotture lunghe, curate, pensate, cucinate apposta per qualcuno che con piacere si accoglie in casa, parenti o amici che siano. Lunghe ed allegre tavolate che ricordo con piacere e a volte con struggimento, ma che, appena posso, cerco di ricreare a casa mia."

    Partendo dal salmì del nonno, vorrei regalarvi la mia interpretazione di questo nostro piatto tradizionale.



    Salmì di capriolo (oppure cervo o camoscio)






    Tempo di esecuzione:
    3 ore, più il tempo necessario per lasciar marinare la carne

    Ingredienti per 4 persone: 
    1 kg di carne di capriolo (preferibilmente tagliata dal cosciotto, però a me piacciono anche alcuni pezzi con l’osso)
    80 gr di burro
    1 cipolla
    2 carote
    1 costola di sedano
    1 spicchio d'aglio
    1 foglia di alloro
    un pizzico di timo, rosmarino e maggiorana
    cannella
    noce moscata
    2 chiodi di garofano – alcune bacche di ginepro
    poca farina
    4 dl di vino rosso
    poco brandy
    sale, pepe in grani
    200 gr di funghi freschi facoltativi

    Esecuzione:
    Tagliare la carne a pezzi e tenerla per 48 ore in una marinata preparata con il vino portato all'ebollizione e fatto raffreddare (serve a rendere i gusto più morbido), la cipolla, le carote e il sedano affettati, l'aglio, il timo,il rosmarino, la maggiorana, l'alloro, qualche grano di pepe, alcune bacche di ginepro, un pizzico di cannella e di noce moscata e i due chiodi di garofano.
    In una casseruola con 50 gr di burro far rosolare a fuoco vivo la carne sgocciolata, ben asciugata e leggermente infarinata, aggiungere la marinata, salare, pepare e far cuocere per almeno 2 ore a calore moderato.
    Pulire intanto i funghi, tagliarli a fette e farli cuocere con il rimanente burro.
    A cottura ultimata della carne passare la salsa al passaverdura fine (niente frullatore per carità),
    riversare il tutto nella casseruola, unirvi i funghi,quando accenna l'ebollizione completare con un bicchierino di brandy precedentemente infiammato, aggiustare di sale e servire, se piace, con una polenta fumante oppure condire dei bei fusilli.


    venerdì 7 dicembre 2012

    Pranzo di Natale Anni '50 per il Lunario di Valchiavenna 2008


    Da alcuni anni collaboro al mensile "La Voce della Valchiavenna" con brevi articoli riguardanti la cucina


    Ogni fine anno esce anche il " LUNARIO di Valchiavenna", supplemento al numero di dicembre de "la Voce", ed ho pensato di riunire in una pagina dedicata del mio blog gli articoli che ho scritto man mano negli anni. Comincio con il Lunario di Valchiavenna del 2008




    In copertina: 
    Il lago Azzurro a Motta
    Foto: Guido Zuccoli

    Bambini ritorna Natale


    “Regem venturum Dominum, venite adoremus”
    Imbacuccata con berretto e cappottino arrivavo di corsa alla chiesa di San Gervasio e Protasio.
    Dalla porticina laterale mi infilavo nel primo banco, quello dei piccoli, sorridevo alle mie amichette e non vedevo l’ora di cominciare a cantare.
    “Regem venturum Dominum, venite adoremus”
    Non capivo bene il significato delle parole, cantavo con partecipazione, con allegria, cantavo tutto, anche le pastorali alla fine della Novena.
    “Regem venturum Dominum, venite adoremus”
    Per la verità cantavamo anche a casa, Tu scendi dalle stelle…Astro del ciel… In notte placida…
    Nella grande cucina calda dei nonni accompagnavamo con questi canti il borbottio del brasato che coceva sulla stufa.
    Era la base per il ripieno dei ravioli : brasato e canti.
    Mai ravioli son più stati così buoni.
    Erano la specialità di mio nonno Guelmìn, si preparavano in quantità industriale perché si regalavano ai parenti di Monza che ogni anno li aspettavano golosamente.
    Questo era il regalo di Natale negli anni ’50.
    Non c’era da scervellarsi su: “ Cosa posso regalare…” i regali allora erano tutti o quasi mangerecci.
    Noi bambini avevamo mandarini, arance, frutta secca, caramelle, torroncini, un libro o al massimo una bambola in porcellana.
    Povera bambola… muoveva solo gli occhi, non si poteva pettinare, non si poteva svestire, nelle mie mani durava poco tempo tutta intera: chissà come, perdeva ora un braccio ora una gamba e tutta scarmigliata e scollata finiva in un angolo.
    “Regem venturum Dominum, venite adoremus”
    Lo cantavamo tutti davanti al grande presepio che il nonno allestiva nella “stüa” sopra a un grande tavolone portato dalla cereria.
    Era un presepe alpino: muschio in abbondanza, montagne, ruscello e laghetto con l’acqua vera, il falò con il pastore che girava la polenta, il mulino, la guardiana delle oche, il dormiglione e tutto attorno rami di pino e alloro ai quali il nonno appendeva caramelle e mandarini, un antesignano del futuro albero di Natale.
    Dopo i primi giorni rimanevano a penzolare dai rami bassi solo i mandarini, le caramelle erano troppo a portata delle mie mani per salvarsi.
    Mi nascondevo sotto ai drappeggi del presepio, era un nascondiglio ideale molto riparato, ogni tanto allungavo una mano, staccavo una caramella e me la gustavo al buio e al caldo.
    Una volta mi sono anche addormentata, mi cercavano dappertutto,mi ha trovato il nonno  che  poverino, si è sentito sgridare dalla nonna:
    -      L’ ha mangiàa tuti i caramei al liquore, t’avevi dì de mét sü quelle alla frutta.
    “Regem venturum Dominum, venite adoremus”
    Ultima sera della Novena, ultimi canti, ultimi auguri sul sagrato della chiesa e poi di corsa a casa. Bisognava ultimare i preparativi per il pranzo di Natale: fare la gelatina per il patè, mettere a bagno lo zampone e il “vaniglia” che mandava lo zio Giüli da Monza, preparare la salsa verde, cucinare lenticchie stufate e crauti.
    Il giorno di Natale ci si riuniva tutti, attorno a quel tavolone allungato nella “stüa” c’erano tutti gli zii con i figli e  prima di sedersi a tavola davanti al presepio si alzavo un canto.
    Voci maschie e possenti assieme a vocette acute di bimbe che cantavano la “nostra” canzone di Natale, quella che la nonna aveva insegnato ai suoi alunni prima, poi ai sei figli ed ai nipoti.

    “Bambini ritorna Natale
    Sui campi di neve e di gelo
    E gli angioli belli sull’ale
    Discendono a schiere dal cielo.

    Discendono sulla capanna
    Là dove riposa Gesù
    E cantano Gloria ed Osanna
    Sì come quel tempo che fu!”

    Proverò a rifare questo pranzo di Natale degli anni ’50.
    Mancheranno quasi tutte le persone, ma i ricordi no.
    Volete provare anche voi?
    Vi racconto il mio menù.

    Aperitivo:
    Flut di spumante Brut con stuzzichini


    Antipasto:

    Tris di paté con pere e cachi accompagnato da Pain Brioche 





     Patè di vitello( quello a triangolo), Patè tartufato (la quenelle), Patè di fegatini e fegato di vitello in gelatina


     Pain Brioche

    Ingredienti:

    domenica 29 gennaio 2012

    Trippa con i bianchi di Spagna



    La trippa della Vipera

    La via Büfa ( via Boffalora per la toponomastica) era un mondo particolare nella Sondrio degli anni ’50. Lì vivevano o stazionavano delle macchiette, dei personaggi alla Piero Chiara, quelli descritti nei suoi racconti ambientati sul lago di Luino.
    Di fronte al cancello di casa nostra c’era la “Locanda Primavera”, con alloggio in alcune camere all’ultimo piano, nel sottotetto insomma.
    Il nome della locanda in sé era invitante, dava l’idea di freschezza, di profumi fioriti, di solarità, ma quando si entrava, beh…luce ce n’era ed illuminava un bancone su cui troneggiava la “Cimbali”, la macchina del caffé espresso, ed alcuni tavolini  piuttosto malmessi, con tovaglia a fiorellini sdrucita.
    Si veniva accolti da un sonoro:
    -        Bündì!! 
    pronunciato con accento imperioso e autorevole da una bocca rosso fuoco.  Era la proprietaria: una morettona che quei buontemponi dei miei zii avevano soprannominato la “ Vipera”, per i suoi modi molto “gentili”.  Vicino a lei c’era il marito, detto “ El vecio rembambìi”, molto servizievole e taciturno, e come aiutante avevano una ragazzona con un petto molto prosperoso: la “ Vott liter” ( 8 litri), insomma… 4 litri per parte. Quando saliva all’ultimo piano per rifar le camere, si sporgeva a sbattere coperte e lenzuola cantando a squarciagola e c’era sempre qualcuno sotto che le diceva:
    -       Sta indrèe che i tétt i te tiren giö bass!
    Lei rispondeva con una risata.
    Un venerdì si presenta un signore abbastanza distinto e si siede a un tavolo per mangiare. Ossequiosa arriva la Vipera :
    -       Oggi è sabato abbiamo trippa.
    -       Ottimo, me la porti!
    La Vott liter serve in tavola seguita dagli sguardi del cliente.
    Lui inizia a mangiare con voglia, ma dopo due cucchiaiate…. orrore!!! Tira su dalla fondina uno straccio sfilacciato, impregnato di sugo della trippa.
    -       Signorinaaaaa!!! – urla schifato – guardi qui cos’ho trovato!
    Accorre la Vipera:
    -       Se gh’è? Cossa el succéd?
    -       Uno straccio!!! Una straccio nella trippa!!!
    La Vipera non si scompone anzi, piuttosto sgarbatamente risponde:
    -       Ma lǜ…cünt quel ch’el paga cosa el pretendeva de trüà? Un fular de seda?!

    E’ un fatto veramente accaduto, ve l’assicuro non è una barzelletta anche se, come la raccontavano i miei zii che avevano assistito alla scena, poteva sembrarlo.
    Ho visto tante di quelle volte cucinare la trippa in casa dei miei nonni, senza straccio neh?! Ed ho imparato anch’io a prepararla, non in minestra come la cucinano qui a Chiavenna, ma in umido con i fagioli bianchi di Spagna, alla milanese. Penso che per questa preparazione abbia preso il sopravvento l’origine monzese e la tradizione brianzola di  mia nonna Maria: come sono belle queste infiltrazioni gastronomiche tra le cucine tradizionali!
    Questa è la ricetta di casa mia

    Trippa con i bianchi di Spagna


    Ingredienti:

    venerdì 6 gennaio 2012

    Stinco affumicato alla birra con i crauti e…GABINAT!


    Infreddoliti e bagnati come pulcini - avevamo fatto a palle di neve nel cortile fino ad allora - ci guardiamo con l’aria complice:
    -         -  andiamo?
    dico agli altri due,
    -        -    ma è già ora?
    Dario vorrebbe fermarsi ancora, è troppo divertente tirar palle di neve a me e a sua sorella che gridiamo come oche starnazzanti.
    -         -   Sì Dario è ora, sono già le quattro, senti il campanile che le suona, è ora di merenda!
    Claudia era più grande, faceva la seconda elementare e sapeva già leggere le ore invece Dario ed io eravamo ancora all’asilo, quello dell’Angelo Custode.
    La parola “merenda” fa drizzar le orecchie a tutti e due, per la merenda si può rinunciare  agli scherzi con la neve. Ci avviamo verso le scale, ci fermiamo nell’androne e, con le teste vicine come carbonari, sussurriamo:
    -          -  Andiamo prima dalla nonna Pina, suoniamo il campanello e ci nascondiamo e… poi…ghhhgggg….. poi andiamo di sopra dall’Ava… e  ghhhg ghhgghhggh… poi scendiamo dai nonni Buzzetti e…gghhghghg…
    Il piano di battaglia è steso, obbiettivo: la nonna Pina al primo piano.
    Ridacchiando, spintonandoci e trattenendoci sulle due rampe di scale, facciamo a chi arriva primo a suonare il campanello.
    DRIIINNNNN… Via di corsa risaliamo sull’altra rampa e ci nascondiamo dietro ad una colonna trattenendo a stento le risate, è troppo divertente ‘sta cosa.
    Acquattati ci raccomandiamoi a vicenda il silenzio con il dito sulla bocca.
    La nonna Pina apre la porta cigolante e, non vedendo nessuno, sta per rientrare quando un terremoto per le scale la ferma, ci viene incontro:
    -         -   GABINAT!!
    grida anticipandoci e ridendo come una matta.
    Ma accidenti!!! Avevamo preparato così bene la strategia … e adesso cosa regaliamo alla nonna Pina, non abbiamo preparato niente!
    Vedendo la cocente delusione stampata sui nostri volti la nonna ci fa entrare in casa
    -         -   Scià, vegnìi fiö che fèmm merenda con la torta de pömm che v’ho preparàa *
    *Qua, venite bambini che facciamo merenda con la torta di mele che vi ho preparato
    Ed allungandoci una manciata di caramelle per il Gabinat ci fa sedere al tavolo della sua calda cucina .

    Il Gabinat è una tradizione antica diffusa da Sondrio fin su in Alta Valtellina e probabilmente importata dalla Baviera. L’usanza è quella di salutarsi, dai vespri del 5 gennaio  fino al tardo pomeriggio del 6 gennaio, con l’espressione “Gabinat”, il primo che la pronuncia ha il diritto di ricevere un dono dall’altro. La parola deriva dal tedesco gabe-nacht (notte dei doni) e indica il giorno dell’Epifania.
    Chissà com’è che proprio per questa sera ho deciso di cucinare, senza ricordarmi dell’evento, un piatto della Baviera, tedesco altoatesino insomma …
    Sarò Befana o strega?!

    Stinco affumicato alla birra con crauti




    Ingredienti per due persone:

    per lo stinco:

    1 stinco di maiale affumicato
    2 cucchiai di olio extravergine
    250 cc di birra

    Portare lo stinco ad ebollizione in una pentola con abbondante acqua e far bollire per 20/30 minuti.
    Buttare l’acqua  e con acqua nuova riportarlo all’ebollizione sempre per 20/30 minuti.
    In questo modo lo stinco perde parte del sale usato per la conservazione.
    Toglierlo dall’acqua, farlo rosolare in una teglia con l’olio, versare la birra e mettere in forno a 180° per due ore, girandolo e bagnandolo spesso con il fondo di cottura. Servirlo con dei crauti o delle patate.

    Per i crauti:

    500 gr di crauti fermentati
    30 gr di burro
    Un pezzetto di cipolla tritata
    30 gr di pancetta a dadini
    Una foglia secca di alloro
    Mezza mela grattugiata
    3 bacche di ginepro schiacciate
    Vino bianco
    250 cc di brodo
    Sale pepe

    Sciacquare sotto l’acqua corrente i crauti e farli sgocciolare.
    Stufare la cipolla tritata con il burro e qualche cucchiaio d’acqua per circa 15 minuti su fiamma bassa e coperto. Quando l’acqua si è ritirata aggiungere la pancetta, appena il grasso diventa trasparente sfumare con il vino bianco, versare nel tegame i crauti, l’alloro, le bacche di ginepro, il brodo, la mela grattugiata, regolare di sale e pepe e portare a cottura coperto e a fuoco basso per un’ora circa.


    domenica 11 dicembre 2011

    Bisciöla e Panun de Natal

    Non son la stessa cosa, il Panun è di Sondrio e lo si faceva solo a Natale, era tradizione prepararlo qualche giorno prima.
    Allora ero piccola, avevo 3 anni o giù di lì … mamma mia quanti anni son passati … è vero, la memoria a lungo termine non fa difetto a una certa età!

    Ricordo che salivo al piano di sopra dall’ava, allora si chiamava così la nonna, che poi non era la mia nonna vera, io mi ero fatta adottare come nipote.
    Era lì pronta davanti al tavolo,con un sorriso:
    - Vegn Brunetina che impastum
    - Ava mi fai vedere i ballerini?
    Entrava nella sua stanza, nessuno poteva mai entrare lì era un reliquiario in perfetto ordine, prendeva dal comò una scatola di velluto cremisi, l’appoggiava sul tavolo dove io mi ero già appollaiata in trepida attesa e lentamente l’apriva.
    Ecco…la magia si ripeteva ogni volta.
    Al suono metallico di un valzer di Strauss girava una coppia di pattinatori. Allacciati solo per le dita di una mano volteggiavano ad angelo su una gamba sola.
    Bianchi, delicatissimi, mi affascinavano, avrei voluto toccarli
    - Tuca minga ninin che se rompen!!
    Erano un regalo del suo povero marito, quando erano andati in viaggio di nozze a Venezia.
    - Sü sü, gh’emm
    de fa i panun
    Velocemente richiudeva il carillon e sfiorando con una carezza lieve il velluto lo riportava sul comò della stanza.
    - Ava quando muori me lo regali?
    - Vedarémm…
    Mi rispondeva guardandomi dubbiosa al di sopra delle lenti degli occhiali.
    - Ava mi regali i tuoi orecchini?
    Mi piacevano un sacco i suoi orecchini pendenti, in oro con una pietra azzurra come il cielo..
    - Ma sono troppo grandi per te ninìn!
    - Allora quando muori me li regali?
    (Fu così che per la mia Prima Comunione, l’ava, stufa di sentirsi augurare la morte, mi portò dall’orefice. Sopportai eroicamente il dolore dell’ago che mi bucava le orecchie, pur di avere gli orecchini come quelli dell’ava!)
    Lei intanto aveva sgusciato le noci e messo un po’ di grappa sopra ai fichi secchi, all’uvetta e un goccio a lei per “tegnìss sü”.
    In ginocchio sullo stesso piano del tavolo li avevo lì comodi e ogni tanto allungavo le mani per rubacchiare, lei era più veloce e con un buffettino mi bloccava:
    - Gh’è sü la grapa, non ti fa bene!
    - Attenta, s’è rotto l’argine del Mallero, su su metti la mano, la farina bianca, chiudi chiudi…
    Era il gioco che facevamo sempre quando s’impastava e le uova e il burro sciolto uscivano dalla fontana di farina bianca.

    Mi sentivo utilissima in quel momento, infilavo le mie manine in mezzo alle sue e mescolavo, strizzavo, mi piaceva veder uscire l’impasto tra le dita della mano messa a pugno.
     

    Gli davamo una bella forma allungata e via nel forno della stufa a legna, ma prima bisognava togliere i mattoni che servivano a scaldarle il letto.

    Dovevo scendere in casa, ma la mattina dopo mi svegliavo prestissimo col chiacchiericcio delle donne sulle scale. In un lampo ero di sopra dall’ava
    - I panoni?
    - Tò varda che bei!
    Rientravo trionfante con il mio panun tra le braccia.

    Panun de Natal


    Ingredienti:
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