Una piccola storia di Resistenza ambientata nella Roma di fine guerra: gli Americani sono alle porte della città, ma nelle strade e nei quartie[image]
Una piccola storia di Resistenza ambientata nella Roma di fine guerra: gli Americani sono alle porte della città, ma nelle strade e nei quartieri si combatte e si muore ancora. A raccontarla è Ida, diciottenne sarda trapiantata a casa della sorella Agnese dall'età di dodici, divenuta all'insaputa di tutti una staffetta partigiana. Roma è quella dei quartieri popolari, delle cave e delle grotte, delle baracche e della marrana, quella in cui in ogni casa potevano nascondersi un antifascista o annidarsi una spia fascista, quella in cui un'amica ebrea, dal nome Micol, poteva sparire da un giorno all'altro insieme alla sua famiglia subito dopo essere stata esclusa dalla scuola pubblica. Ida, Agnese, l'amica Micol: nomi che evocano storie più grandi, una letteratura più alta, ma che testimoniano l'amore di Paola Soriga per la Storia e per le storie. Dove finisce Roma, insieme alla resistenza quotidiana, inizia la Resistenza....more
«Non mi azzardo a spegnere completamente la luce. Non posso addormentarmi. Nessuno può addormentarsi, di questi tempi. Questa è la guerra, la guerra d«Non mi azzardo a spegnere completamente la luce. Non posso addormentarmi. Nessuno può addormentarsi, di questi tempi. Questa è la guerra, la guerra di Hitler.»
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Notte inquieta, Notte in treno, Il silenzio del mare, La luna è tramontata: quattro storie differenti per raccontare in una manciata di pagine tutto quello che separa la vita dalla morte, la pace dalla guerra, la follia dalla ragione. Bello e disarmante nella sua semplicità, ma complesso nell’opporre, nel suo solo apparente immobilismo, una resistenza umana agli orrori della guerra fatta solo di sguardi, di parole, di silenzi.
Qui una bella recensione su uno dei film tratti da questo racconto....more
Fermo immagine. Un bambino sollevato in aria, capelli biondi. Forse nel mondo di oggi sarebbe una gif, con i capelli che svolazzano e il baSospensione
Fermo immagine. Un bambino sollevato in aria, capelli biondi. Forse nel mondo di oggi sarebbe una gif, con i capelli che svolazzano e il bambino che fluttua appena. È questo l’unico ricordo che Uwe Timm conserva del fratello Kurdel (Karl-Heinz) di sedici anni più grande morto in Russia durante la guerra a diciannove, quando lui ne aveva solo due, dopo aver subito l’amputazione delle gambe. Timm aspetta la scomparsa della madre e della sorella prima di poter pensare di scriverne e di iniziare le sue ricerche (il padre era già morto trent’anni prima), che nessuno dei suoi cari, sia più in vita. La sua scelta è dovuta a una forma di pudore sentimentale così forte che non si può che cercare di comprendere, alla natura contraddittoria del suo percorso interiore: lui che è stato così in contrasto con il padre, arruolato nella Luftwaffe durante la guerra, lui che di questo fratello, amatissimo e idealizzato, non ricorda e non condivide la scelta di arruolarsi nelle SS-Totenkopfdivision (che come segno distintivo portavano sul berretto e sulle mostrine un teschio), lui che è legato, nonostante tutto, alla sua famiglia, le cui donne, come spesso accade, sono distanti da certe scelte e ostili alla guerra capace di portare solo morte e distruzione, dalla tenerezza di uno sguardo che arriva a posarsi fin dove lui non poteva avere coscienza di nulla.
Tutto quello che resta di suo fratello, tutto quello che conserva, dopo oltre sessant’anni dalla sua morte, sono i ricordi tramandati dalla madre e dal padre, che adoravano questo figlio (diciott’anni, non dimentichiamo, per quanto nazista, che aveva soli diciotto anni quando fu risucchiato nell’inganno ideologico del nazionalsocialismo), e da una scatola di cartone, restituita dopo la sua morte dalle SS, con le lettere, le decorazioni, un paio di foto, un tubetto di dentifricio e un pettine. E sul pettine c’è quel che rimane del suo corpo, qualche capello biondo.
Il taccuino, brevi appunti scritti frettolosamente a matita durante la guerra in Russia, il fatto che sia stato scritto e poi consegnato alla famiglia, è di per sé un miracolo: era proibito farlo - questioni di sicurezza, sarebbe potuto cadere in mani nemiche e rivelare indicazioni preziose - e anche il fatto che sia stato successivamente inviato ai familiari, insieme al mozzicone di matita e al dentifricio seccato nel tempo, è da imputare a un eccesso di burocratico adempimento alle pratiche di evasione e restituzione degli effetti personali.
Uwe Timm che cerca di prendere le distanze da tutto ciò, più di quanto non abbia mai fatto nel suo stupore e nella sua estraneità alle scelte di padre e fratello, parlando dell’uno e dell’altro usando l’articolo indeterminativo - “Il padre”, il fratello”, talvolta anche “la madre” e “la sorella” - ma che spesso tradisce l’affetto per tutti loro usando il pronome possessivo, la tenerezza di chi, cinquant’anni dopo la fine della guerra, adulto egli stesso, si trova a cercare di comprenderne gesti, azioni, ma soprattutto, sentimenti. È un’elaborazione del lutto e dei sensi di colpa, quella di Timm, molto diversa da quella già affrontata durante la lettura di Storia naturale della distruzione di W.G. Sebald, che analizza le cause, gli effetti e le reazioni del popolo tedesco tutto, mentre quella di Timm parte dal privato, cercando di riempire un buco che si consuma dentro di lui, che come un’ulcera lo consuma e lo dissangua da dentro.
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Sono due le frasi intorno alle quali Uwe Timm si blocca, che gli impediscono di capire, nel primo caso di accettare forse l’evidenza. «A 75 metri Ivan fuma una sigaretta, un boccone per la mia mitragliatrice», scrive Karl-Heinz durante l’avanzata in Russia: una frase agghiacciante, che non lascia trasparire alcuna esitazione, né timore, ma indifferenza nei confronti della morte che si appresta a seminare; così come non c’è pentimento, né alcuna altra forma di dissociazione o di dubbio nei confronti di quanto la sua divisione, che semina morte e distruzione fra i civili nelle città russe subito dopo il passaggio della Wehrmacht, nelle lettere che scrive ai genitori, in cui invece si dispera e si arrabbia, indignandosi, per quanto gli alleati compiono bombardando le città tedesche e la sua amata Amburgo.
Com’è stato possibile, si chiede Timm, com’è potuto succedere? Com’è stato possibile che persone come lui, carne della sua carne, sangue del suo sangue, com’è stato possibile che una nazione intera abbia abdicato alla ragione o abbia fatto finta di non sapere, di non vedere? Ripercorre la vita della sua famiglia, quella del padre pellicciaio, mai iscritto al partito nazista, ma incapace di prenderne le distanze, dopo la guerra sempre in cerca di qualcosa che gli restituisse una promessa di futuro, la storia del suo nucleo familiare per cercare di estendere a tutta la nazione il processo attraverso il quale si è deciso di non guardare, di non vedere, di non capire.
E poi l’ultima, sorprendente, Qui chiudo il mio diario perché trovo assurdo fare un resoconto delle cose orribili che succedono»: senza una spiegazione, senza che nessuno, nessuno, avesse più il tempo per potergli chiedere quali fossero le cose orribili che stavano succedendo: le migliaia di ebrei trucidate a Babij Jar senza che nessuno, se non poco più di una decina di soldati, si rifiutassero di sparare, nonostante gli avessero detto che potevano farlo senza conseguenze? I russi sterminati lungo il cammino? I compagni feriti o morti in combattimento?
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Mi sono chiesta a lungo, continuo a chiedermi, quale sia l’esatto significato del titolo: Come mio fratello, a indicare che siamo fatti della stessa carne, ma diversi? Oppure, più correttamente, Sull’esempio di mio fratello (Am Beispiel meines Bruders), come lo stesso Matteo Galli, Germanista e traduttore, traduce più correttamente nella postfazione al romanzo La scoperta della currywurst? E in questo caso, allora, qual è l’esatta sfumatura che spiega il suo significato?
Commovente, toccante, importante, come la lettura successiva de La scoperta della currywurst, in cui tornano sotto forma di romanzo alcuni elementi autobiografici della vita della famiglia dell’autore, mi ha confermato. Un autore che voglio continuare a leggere e a scoprire, una voce che desidero continuare ad ascoltare....more
Acquistato in fiera a Più Libri Più Liberi un paio di anni fa, prima del trasloco alla NuvoQuesta terra
«Il problema degli slavi sono gli slavi»
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Acquistato in fiera a Più Libri Più Liberi un paio di anni fa, prima del trasloco alla Nuvola. Mi intuisco al banco della Keller chiedere consiglio, farmi raccontare qualche novità, ed uscirne con La casa delle parole e questo. Lo riprendo in mano un mesetto fa, dopo averlo dimenticato fino ad allora nella mia sempre più caotica libreria e dopo averne parlato casualmente - in realtà riferendomi all’ultimo romanzo di Krivak pubblicato da Einaudi Stile Libero e che solo alla fine associo a questo - ricordando all’improvviso la copertina: non il titolo, non il nome dell’autore, lo ricordo dalla copertina, che però non ho mai guardato con attenzione, anche già anticipa quella che sarà la storia contenuta al suo interno. È così inizio che a leggere un romanzo di cui so pochissimo, quasi nulla, che si apre con un prologo agghiacciante e fulminante per bellezza della narrazione, che racconta di un evento da cui scaturisce tutto ciò che segue: siamo a Pueblo, in Colorado, da cui ci spostiamo subito dopo in Pennsylvania, ai piedi dei Monti Appalachi, e io, che a quel punto so già che Krivak è nato negli Stati Uniti da famiglia slovacca emigrata dopo la prima guerra, ignoro completamente il fatto che a essere teatro del romanzo non saranno gli Appalachi, non saranno le miniere del Colorado in cui il padre, emigrato dalla Slovacchia per fuggire alla povertà, inizia a lavorare conducendo una vita altrettanto povera insieme alla giovane moglie e al neonato Jozef, ma le montagne sulle quali l’esercito dell’impero austroungarico e quelli italiano e inglese si daranno battaglia fino all’ultimo sangue.
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Feroce, è l’aggettivo usato dalla casa editrice per descriverlo, e non potrebbe essere usato termine più appropriato: Il Soggiorno è feroce nel prologo, è feroce nell’esilio, è feroce nel soggiorno, è feroce nel ritorno. È feroce nello sguardo con cui Krivak ci racconta una storia di guerra vista dalla riva opposta del Piave e dell’Isonzo, di una Caporetto che per una volta ci mostra l’avanzare di quell’esercito, che fu imbattibile, ma che già in quel momento iniziava a disgregarsi, a vedere dissolversi i contorni di un Impero che sembrava intramontabile. È la storia di Jozef Vinich, che nasce a Pueblo, torna a Pastvina, combatte sul Piave, viene fatto prigioniero in guerra dagli italiani e, dopo essere stato incarcerato, viene liberato alla sua fine in Sardegna e che quando fa ritorno a casa, in un lungo cammino che - anche se in direzione contraria - mi ha ricordato quello raccontato da Primo Levi ne La Tregua, si accorge che tutto è cambiato: i nomi, i confini, le persone. È la storia di Jozef che parla più dei morti che dei vivi, di suo padre e di suo fratello e cugino Zlý (pes, cattivo, cagnaccio) - die Zwillinge, i gemelli, come vengono chiamati al fronte dopo aver subito un duro addestramento per diventare tiratori scelti - di una zingara incinta e di un prigioniero corso, Tajna (segreto, da non rivelare) e Banquo (bianco, come un fantasma), di marce nella neve, di pascoli sotto la neve e di gelo e sangue che scandiscono le giornate che separano la fame e la guerra e la lotta per la sopravvivenza dall’unico desiderio di Jozef: tornare a casa, ovunque sia la frontiera. Perché questa, in fondo è una storia di radici e al tempo stesso di frontiera, che si delinea su due continenti, l’Europa e gli Stati Uniti, facendo lei stessa da lungo prologo (ma assolutamente compiuto) al successivo romanzo di Krivak, Questa Terra, che prosegue oltreoceano le vicende di Jozef, che nacque negli Stati Uniti, ma combatté in Europa per gli Asburgo, e della sua famiglia americana. Che io mi affretto a leggere. Anzi, l’ho iniziato a leggere un momento dopo aver posato questo.
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«I fantasmi sono deboli» disse Banquo, «e vogliono soltanto compiacerci. Tu non fargli domande. Tutte le sue domande hanno avuto risposta. […] I fantasmi non sono i morti: sono la nostra paura della morte. Devi dire a te stesso di non avere paura, Jozef»...more
«Che m’importa dei molti vostri sacrifici?, dice il Signore. Io li odio.» (Isaia 1,11)
Stando alla maggior parte dei commenti negativi che ho letto su q«Che m’importa dei molti vostri sacrifici?, dice il Signore. Io li odio.» (Isaia 1,11)
Stando alla maggior parte dei commenti negativi che ho letto su questo breve romanzo, sembra che uno dei problemi principali sia la scrittura, che in effetti non è il suo punto di forza, anche se, più che sciatta, la definirei semplice, priva di una qualsiasi cifra stilistica, viziata, forse, anche da alcune ingenuità del traduttore. Una scrittura semplice, che però “squaderna le disavventure”, in cui il protagonista, i cui sogni vengono “conculcati” dalla realtà dei fatti, si reca al “dispensario” e il cui pseudocoraggio è una “diversione” e una “furtiva reptazione di un brivido [gli scende] fino al petto”, che mi fa pensare che non tutte le colpe debbano essere attribuite all’autore, che peraltro scrive in francese (questo per dire che dovrebbe essere meno difficile per una casa editrice trovare un traduttore di buon livello) a partire dalla scelta del titolo - L’attentatrice - che è indubbiamente più suggestivo e vendibile che L’Attentato.
Ma quella raccontata da Yasmina Chandra - pseudonimo di Mohammed Moulessehoul, scrittore algerino, ufficiale dell’esercito superiore del suo paese, che dal 1999, dopo essere stato costretto a utilizzare il nome della moglie, ha svelato la propria identità ed eletto la Francia a propria nazione di adozione - è una storia che cattura e annichilisce, talmente inconcepibile per noi occidentali (e impossibile da riuscire ad accettare), che ci lasciamo trascinare nell’errare del dottor Amin Jaafari per tutti i gironi del suo inferno privato.
Lo stimato chirurgo dottor Amin Jaafari, israeliano naturalizzato, che vive in un esclusivo quartiere ebraico e opera in un ospedale ebraico; l’integrato dottor Amin Jaafari, che con la sua bella e innamorata moglie, conduce una vita dedita alla sua professione coronata di successi, privilegi e amicizie importanti a Tel Aviv; il dottor Amin Jaafari, che dopo una giornata trascorsa in sala operatoria per cercare di salvare il salvabile dopo un’attentato suicida che ha riempito di morti e corpi martoriati l’ospedale in cui lavora, svegliato nel cuore della notte da una telefonata, scopre che l’attentatore suicida, il kamikaze, l’uomo che si era fatto esplodere in quel ristorante pieno di gente seminando morte e terrore, era invece sua moglie: la dolce e silenziosa e idealizzata Sihem. “Chi sogna troppo dimentica di vivere”, gli viene rimproverato, Vivevate sotto lo stesso tetto, godevate degli stessi privilegi, ma non guardavate nella stessa direzione.
È l’inizio di un dramma devastante, che attraversa le fasi dello choc e della negazione, quella dell’abbandono di se stesso e della rabbia per quel senso di solitudine straziante e viscerale che lo precipita nell’abisso. Chi era Sihem e com’è possibile che una donna mai stata religiosa praticante, benestante e apparentemente soddisfatta e lontana dalla realtà politica dei Territori palestinesi, com’è possibile che quella donna, al suo fianco da quindici anni, lo abbia “tradito” in quel modo, abbandonandolo, escludendolo, fino a scegliere di infliggere a se stessa, a lui e al loro matrimonio, quell’epilogo? E una volta accettata la colpevolezza di Sihem, com’è possibile che non ci siano stati dei messaggi da cogliere, che lei non abbia mai cercato di fargli capire quanto stava accadendo, che non abbia cercato, nemmeno per un momento, di mandargli un segnale? Il baratro, il precipizio, l’inferno di Amin Jaafari è fatto della ricerca di quel segnale, del tentativo di trovare, attraverso l’esile filo che da Tel Aviv lo porta a Betlemme da lontani parenti, il punto di rottura, là dove il corso della vita di Sihem ha invertito la rotta, fino ad arrivare, nella seconda parte della storia (più un terzo che metà, in realtà), a Jenin, dove l’origine della sua famiglia, l’incontro con parenti che aveva lasciato per dedicarsi allo studio, lo conduce all’origine della sua appartenenza al mondo arabo e in contatto con le sue radici, a ritrovare il senso di un’identità perduta nel tentativo di crearsi una sua zona d’ombra.
Ma quello che colpisce, nel romanzo di Chandra, è l’equidistanza, data anche dalla circolarità della struttura, anche dalla specularità della storia stessa: tutto quello che succede da una parte, succede dall’altra, tutto quello che si perpetra ai danni degli uni, viene subìto anche dagli altri: non c’è spiegazione per l’orrore, non c’è giustificazione per chi viene mandato al macello, né per chi si arroga le giustificazioni per diventarne strumento, nemmeno dopo la lunga tirata dell’amico poliziotto israeliano amico di Amin
Le motivazioni non hanno tutte la stessa consistenza, ma di solito sono cose che si prendono così“ dice schioccando le dita. “O ti cadono in testa come una tegola oppure si radicano in te come un verme solitario. Dopo, non guardi più il mondo come prima. Hai solo un’idea fissa: sollevare questa cosa che ti tormenta corpo e anima per vedere cosa c’è sotto. Da quel momento non puoi più fare marcia indietro. D’altra parte, non sei più tu a comandare. Pensi di fare di testa tua, ma non è vero. Sei solo lo strumento delle tue frustrazioni. Per te, la vita e la morte sono la stessa cosa. In qualche modo hai rinunciato per sempre tutto ciò che potrebbe farti tornare sulla terra. Sei un extraterrestre. Vivi nel limbo, a caccia di uri e liocorni. Non vuoi più sentire parlare di questo nostro mondo. Aspetti solo il momento di passare all’atto. L’unico modo di recuperare quel che hai perso o correggere quel che hai sbagliato. In poche parole, l’unico modo di diventare una leggenda è chiudere in bellezza: trasformarti in un fuoco d’artificio a bordo di uno scuolabus o in un siluro lanciato a rotta di collo contro un carroarmato nemico. Bum! Il grande salto e, come premio, lo status di martire. Il giorno della soppressione del tuo corpo diventa così, ai tuoi occhi, il solo momento in cui cresci nella stima degli altri. Il resto, il giorno prima e il giorno dopo, non è più affare tuo: per te, non c’è mai stato.“
quando quasi sembra che Chandra voglia fornirci delle spiegazioni, perché a queste, e a quelle degli jihadisti con cui viene in contatto, controbatte con il dialogo tra il protagonista e quello che è forse il personaggio più emblematico dell’intero romanzo, quello che si autodefinisce “l’ebreo errante”, che di giustificazioni non ne fornisce a nessuno, né a ebrei né ai palestinesi: «Un muro? Cosa significa? L’ebreo è nato libero come il vento, inafferrabile come il deserto di Giudea. Se ha dimenticato di delimitare i confini della sua patria al punto da rischiare che gliela confiscassero, significa che ha creduto a lungo che la Terra Promessa fosse anzitutto quella in cui nessun muro impedisce al suo sguardo di arrivare più lontano del suo grido. […] Ogni ebreo di Palestina è un po’ arabo e nessun arabo d’Israele può pretendere di non essere un po’ ebreo»
Non ci sono parole, dunque, per giustificare l’ingiustificabile, per spiegare l’inspiegabile, per dare forma e risposte a un dolore che corrode da dentro due popoli devastati dall’odio, ma solo quelle per cercare di raccontarlo, anche se le parole per farlo non sempre sono scritte nel migliore dei modi.
«Ogni uomo, ogni donna poteva essere un partigiano, poteva non esserlo. Questa era la forza della resistenza.»
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Sembra di vederla passare l'Agnes«Ogni uomo, ogni donna poteva essere un partigiano, poteva non esserlo. Questa era la forza della resistenza.»
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Sembra di vederla passare l'Agnese, con la sua vestaglia lilla a grandi fiori scuri mentre cammina con le sporte sulle spalle e i piedi stanchi e gonfi infilati dentro le ciabatte informi. Borbottante, affaticata, ma con un cuore grande così. Partigiana per caso, ma per scelta, staffetta, cuciniera, mamma Agnese, che nella sua vita prima della guerra non avrebbe forse pensato mai di fare altro di più che rigovernare casa, aia e marito, lavorare la calza e battibeccare con la Minghina e le sue figlie. L'Augusto no, pover'uomo, che lui, come il Palita, erano due pezzi di pane: al bar con gli amici, un paio di bicchieri di vino e la gatta sulle ginocchia. Che poi, forse, se il Palita non fosse stato malato sarebbe stato al fronte, e se fosse stato al fronte non sarebbe stato in casa con la gatta sulle ginocchia, e se non fosse stato in casa con la gatta sulle ginocchia non l'avrebbero portato via e l'Agnese non sarebbe rimasta con la gatta e allora, forse, non sarebbe iniziato tutto e l'Agnese, la grassa e taciturna Agnese, non sarebbe andata a morire. Con dignità, però, e orgoglio, e un cuore grande così, mamma Agnese.
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Renata Viganò, infermiera, scrittrice, con un passato da staffetta partigiana insieme al marito e al figlio, regala alla letteratura italiana un personaggio indimenticabile e infinitamente diverso da quello disegnato dall'immaginario cinematografico. Fra le strade d'acqua delle Valli di Comacchio, fra i canneti e le capanne dei pescatori, divenuti rifugio sicuro per la gente del luogo e impenetrabili e labirintici per chi non ne conosceva la topografia, si muovono le brigate dei partigiani del luogo che insieme a lei patiscono il sonno, la stanchezza, la mancanza di acqua, il caldo, il freddo, la neve, la nebbia, l'umidità e il bagnato che si insinuano nelle ossa come la stanchezza e la paura: Un lavoro della paura, come diceva l'Agnese, che è quello che fanno i nazisti, che uccidono sparando nel mucchio, che è quello che fanno i fascisti, che massacrano a forza di botte, che è quello che fanno persino gli alleati, che quando sganciano le bombe non stanno lì a guardare cosa colpiscono; chi colpiscono. Ma che sono animati da coraggio, i partesani, da desiderio di libertà, da odio insanabile nei confronti degli oppressori e dei traditori, delle spie, dei fascisti e dei nazisti.
Mi aspettavo “solo” un romanzo testimonianza sulla Resistenza, invece, ho trovato un romanzo che è di valore non solo storico, ma anche letterario, e una lingua scritta, quella di Renata Viganò, di grande e sobria eleganza, ricca di metafore e figure retoriche, viva, scarna, realistica ma poetica al tempo stesso.
«Aveva ragione l'Agnese. Quello che c'è da fare, si fa.»
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«E quando gli passò vicino L'Agnese, curva per il peso delle sporte e per la pioggia, le dedicò un'attenzione ostinata, vedendola andare con il suo carico sotto l'acqua, e i piedi bagnati nelle ciabatte: una donna grassa, ansante, sola, quasi vecchia, fuori con il maltempo, in un paesaggio disabitato, in un'ora morta del pomeriggio. Strano.»
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«L’Agnese restò sola, stranamente piccola, un mucchio di stracci neri sulla neve.»...more
Qualche tempo fa, qualche mese fa, sono finalmente riuscita a vedere lo splendido e doloroso “Incendies” del regista canadese Denis VilleneuIncendies.
Qualche tempo fa, qualche mese fa, sono finalmente riuscita a vedere lo splendido e doloroso “Incendies” del regista canadese Denis Villeneuve - “La donna che canta”, in italiano; il film è tratto dall'opera teatrale di Wajdi Mouawad, autore di questo romanzo. Sembrano gemelli diversi, film e romanzo, per ambientazione e storia, mentre invece sono uniti non solo dalla medesima scrittura, perché figli dello stesso scrittore, ma anche dalle radici, profonde, che sono quelle dell'autore (classe 1968), che è naturalizzato canadese ma libanese per nascita e origini. E il Libano, con le sue ferite e le sue cicatrici profonde mai rimarginate, con i suoi fantasmi sempre presenti nei sogni e negli incubi orrorifici dei protagonisti di entrambe le storie - nonostante, ci tengo a precisare, si tratti di due storie completamente diverse (“Incendies” non è la riduzione cinematografica di “Anima”, ma dell'opera teatrale omonima) - il Libano, dicevo, ribalta imprevedibilmente la scena sia in “Incendies” che in “Anima” diventando, lentamente e naturalmente nel film, prepotentemente e improvvisamente nel romanzo, cuore pulsante della storia, centro e origine delle vicende. È un romanzo durissimo, “Anima”, a partire dall'efferatissimo delitto che dà l'avvio alla storia, che già nelle modalità (che mi concedo di non raccontare proprio perché anche solo leggerle o ricordarle mi provoca malessere) avvisano il lettore che non sarà una lettura facile. Ma quello che caratterizza la storia, e che accompagna Waach Debch, l'uomo che si mette in cammino sulle tracce del brutale assassinio della moglie attraverso i territori del Québec, è il punto di vista: a narrare il suo percorso, che non è solo geografico, ma soprattutto interiore, sono gli animali che Waach incontra lungo la strada: a partire dal gatto unico testimone ne dell'assassinio, poi via via, in successione e alternandosi l’uno all’altro nella narrazione, cani, uccelli, topi, mosche, farfalle, insetti, larve. Ognuno di loro ha uno spirito di osservazione dato dalla propria indole, ognuno di loro ha un senso acuito dall'istinto e dal proprio istinto alla sopravvivenza, e ognuno di loro sarà capace di sfiorarlo, toccarlo, o accompagnarlo lunga una strada che attraverso le ferite e le cicatrici che dal Canada ripercorreranno quelle dei nativi indigeni massacrati arriverà a unirsi e a confondersi con quelle del massacro libanese di Saabra e Chatila, dove il trauma originario di Waach ha avuto origine e inizia ad affiorare pagina dopo pagina fino a rivelarsi e a esplodere nel finale del romanzo. È un agghiacciante viaggio andata e ritorno dall'inferno per Waach Debt e per i lettori, quello che Wajdi Mouawad consegna alla narrativa, un viaggio in cui, a qualsiasi latitudine, gli uomini si riveleranno, sempre, più bestiali e brutali delle bestie. Un romanzo che non mi sentirei di consigliare a nessuno, proprio a causa della sua crudezza (anche se, ci tengo a sottolineare che si tratta di un giallo - un thriller? - che mantiene vivo per tutta la durata del romanzo il suo aspetto), ma che sono contenta di aver letto. ...more
Una bella storia di dignità e integrità morale in epoca post bellica, questa raccontata da Jean-Christophe Rufin, che si svolge in un Senza frontiere.
Una bella storia di dignità e integrità morale in epoca post bellica, questa raccontata da Jean-Christophe Rufin, che si svolge in un piccolo paese della provincia francese all'indomani della fine della Grande Guerra. Il protagonista e il suo giudice, militari entrambi, come in un romanzo di Simenon (come non pensare a La Camera azzurra?) si fronteggiano in un duello simbolico nel caldo torrido di un'estate in cui sembrano esserci solo loro ad affrontarsi, così come sembrano essere rimasti, soli a fronteggiarsi, la giustizia e le leggi degli uomini da una parte e il rigore morale e la coerenza degli uomini stessi dall'altra. Una coerenza e un'integrità, quelle del protagonista, che sembrano misurarsi attraverso la cieca abnegazione del (suo) cane, che abbaia incessantemente fuori dal carcere dov'è rinchiuso il suo padrone, e la certezza che la lealtà degli uomini non si misuri solo attraverso la cieca obbedienza agli ordini e al colore delle proprie divise o dalla nazionalità, ma anche in maniera trasversale attraverso cuore e intelletto, che possono e devono andare al di là degli ordini ricevuti. Una bella storia, dicevo, questa scritta da J.C. Rufin con stile limpido ed essenziale, che non a caso, a proposito di cuore, intelletto, nazionalità e trasversalità, è stato uno fra i fondatori di Medici Senza Frontiere. Senza frontiere, appunto, un po' come questa storia....more
Non lo so: capisco la spinta emotiva, capisco lo sconvolgimento della guerra, capisco la visione laterale, ma non posso dire che mi siaCosì va la vita
Non lo so: capisco la spinta emotiva, capisco lo sconvolgimento della guerra, capisco la visione laterale, ma non posso dire che mi sia piaciuto. Mi sono piaciuti dei passaggi, mi hanno sconvolta delle descrizioni che hanno rafforzato in me la convinzione che la guerra sia davvero un'aberrazione del tutto umana. Ma la fantascianza di guerra non fa lo stesso per me, quella letteraria intendo. La frase scritta sul cuore di Montana però bellissima.
Di domani più che di ieri in questo secondo romanzo di Eshkol Nevo che leggo, il suo primo, più intimo e complesso. Apparentemente Nostalgia di domani.
Di domani più che di ieri in questo secondo romanzo di Eshkol Nevo che leggo, il suo primo, più intimo e complesso. Apparentemente più maturo e sofisticato de La simmetria dei desideri, sicuramente meno complice, intriso ancor più di quel senso di appartenenza e al tempo stesso di estraneità che già avevo trovato nei quattro amici israeliani, di quella forza centrifuga e centripeta che li avvicina e allontana alla loro terra in un frullato continuo di emozioni e sensazioni uguali e contrarie, eppure più difficile da avvicinare. C'è un luogo, in termini geografici si tratta di un valico, dove tra due gobbe, proprio dove prima era un campo di transito per gli immigrati giunti dal Kurdistan, nome ufficioso Castel, nome ufficiale Maoz Zion, un piccolo insediamento ebreo ha preso il posto dei precedenti abitanti palestinesi sfollati durante la guerra d'Indipendenza del '48.
C'è un posto, a Castel, a metà strada tra Tel Aviv e Gerusalemme, dove in una casa divisa vivono Sima e Moshe e i loro due bambini, gli anziani genitori di Moshe, e dove, in una piccola porzione in subaffitto con uno sportello nel muro che li unisce li divide, arrivano Noa e Amir, per amore. È una scomposizione di immagini quella che ci presenta Nevo, che scompone per ricomporre, attraverso le voci che si susseguono, per restituirci, attraverso un'immagine collettiva, per raccontarci, proprio così come cerca di fare Noa, studentessa di fotografia in cerca dell'argomento per la sua tesi di fine anno, per ricostruire un tutto. O come non riesce a fare Amir, studente di psicologia schiacciato dal Centro dove trascorre il suo tempo come volontario e dalla sua incapacità a mettere radici, o come vorrebbe fare Yotam, che abita proprio lì vicino e passa le sue giornate da solo o a giocare a scacchi con Amir, trascurato dai suoi genitori, chiusi nel proprio dolore da quando il fratello Ghidi è morto in Libano, o come non può fare Saddiq, operaio arabo che lavora alla ristrutturazione di un'abitazione proprio di fronte, che da quel villaggio, da quella casa che guarda tutti i giorni, è stato cacciato cinquant'anni prima insieme alla sua famiglia.
C'è nostalgia in ciascuno di loro, una nostalgia che nasce da ieri ma che si proietta in un'assenza che viene da domani, una nostalgia che avvolge tutti, che attraversa le strade di Gerusalemme e Tel Aviv e trova il suo fuoco nell'assassinio di Yitzhak Rabin, e che a noi che siamo lì, a guardare le luci delle loro case, a sentire le loro canzoni sussurrate, che alziamo il coperchio delle loro pentole per scoprire il profumo dei mille e uno modi per cucinare i kube, che passiamo attraverso ai muri e alle pareti di cartongesso che li separano, che percorriamo i vialetti che dividono una porta dall'altra, un respiro da un bacio, una lacrima da un sorriso, sembra di quasi di poter toccare, per permetterci finalmente di fissare la nostra fotografia: comporre, aprire l'otturatore, scegliere la luce migliore, inquadrare, e infine scattare.
Una nostalgia che forse è possibile capire solo andando lontano, come fa Modi, che dal Sudamerica scrive lunghe e vivaci lettere all'amico Amir. Andare per tornare. Partire per ritrovarsi. Finalmente a casa, fratello, ovunque sia casa.
[Sono due giorni che ho aperto questa immagine sul monitor, da quando mi è venuta in mente pensando alla casa di Castel; che non è così grande, ma mi è apparsa così, esposta ai nostri sguardi mentre la vita continua. La foto l'ho vista il 20 ottobre al Palazzo delle Esposizioni nell'ambito della mostra Robert Doisneau - Paris en libertà]
«Ma per lo meno sono rimasto onesto - disse. - Non sono stato loro complice»
Diceva Karl Marx che la storia si ripete sempre due volte: la prima volta «Ma per lo meno sono rimasto onesto - disse. - Non sono stato loro complice»
Diceva Karl Marx che la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa. In questo romanzo di Hans Fallada, che trae spunto da una vicenda realmente avvenuta nella Germania nazista in cui si narrano le vicende dei coniugi Otto e Anna Quangel (Otto e Elise Hampel nella realtà, e forse nella realtà meno convinti e meno eroici dei loro epigoni letterari) e della loro decisione di opporre resistenza al regime scrivendo e 'abbandonando' in giro per Berlino cartoline che ammonivano i cittadini e li esortavano a ribellarsi alla follia sanguinaria del Führer, sembra piuttosto essere vero il contrario. Tutto sembra essere farsa in questa storia, dall'incedere stesso, a tratti gelido, della vicenda che appare avanzare e progredire grazie alla casualità e alle coincidenze, dai personaggi grotteschi e ridicoli che ruotano intorno ai protagonisti, il vile Enno e il viscido Borkhausen su tutti, agli stessi rappresentanti della Gestapo, delle SS, della SA, fino ai più alti vertici del Reich. Sarebbe una farsa, appunto, se tutto questo non fosse e non culminasse in tragedia, se tutto questo non fosse realtà. Ma se a questa tragedia persino uno come Hans Fallada, che terminò la sua vita in ospedale psichiatrico a combattere con le ombre e i fantasmi del suo drammatico passato e di una vita sempre vissuta in bilico tra l'abuso di droghe e di alcol e la decisione spesso presa, ma mai attuata, di andarsene anziché restare nella Germania di Hitler, e che scrive proprio nell'introduzione all'opera Spesso l'autore si è rammaricato di dover tracciare un quadro così fosco; ma una maggior luce sarebbe stata una menzogna, se persino Fallada riesce a contrapporre un personaggio che brilla di luce propria come quello della postina Eva Kluge che oppone anche lei una sua propria forma di resistenza non punibile con la morte, ma che ha il coraggio di ricominciare da capo e restituire alla vita un ragazzino di tredici anni, destinato a diventare un delinquente e un possibile assassino nelle mani del Reich, se persino lui, Fallada, riesce a intravedere un fascio di luce e decide di chiudere questa storia con una improvvisa ventata di ottimismo, anche a noi, allora, non resta che credere e sperare e guardare al futuro nella certezza che quel di buono che avremo seminato, un giorno, sarà raccolto, e lasciarci scaldare da quella luce. Ma io, mi chiedevo durante la lettura, sarei mai stata capace io, schiacciata dal terrore, di seminare, di opporre la mia resistenza? Ho paura della risposta, che per fortuna non conoscerò mai, nella speranza che farsa e tragedia si siano già compiute nella stessa Storia.
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Elise e Otto Hampel
Di grande valore sia la postfazione di Geoff Wilkes che, in Appendice, le parole dello stesso Fallada scritte per il mensile politico-culturale «Aufbau» prima della stesura dello stesso romanzo. Sulla figura politica di Fallada e sulla sua posizione «non posizione» trovo molto belle, e forse condivisibili, le parole dello stesso Wilkes: Il dibattito su cosa fosse giusto, se abbandonare la Germania nazista oppure restarvi, va avanti dal 1933 ed è troppo complesso perché lo si possa qui ricapitolare; vale tuttavia la pena di osservare che i conflitti evidenti nella vicenda di Fallada erano abbastanza tipici per chi aveva deciso di restare in patria: né la collaborazione era necessariamente solerte, spontanea e totale, né la resistenza immediata, sprezzante del pericolo e aliena da compromessi. L'unica cosa certa, per Fallada come per tutti gli altri, era che anche moderati atti di resistenza comportavano il rischio della prigione o della morte.
La traduzione, del 1949, immancabili i settentrionalismi tanto in voga all'epoca, mostra evidenti i segni del tempo trascorso.
27 gennaio 2013
Da qualche anno ho deciso di ricordare la giornata della memoria, il 27 gennaio, leggendo un libro che ricordi la Shoah. Quest'anno sposto il punto di vista e inizio a leggere «Ognuno muore solo» di Hans Fallada, per non dimenticare, ma anche per ricordare a me stessa e al mondo che nell'uomo si può ancora credere e sperare.
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Una delle cartoline: «Hitler non ha moglie / il macellaio non ha carne / il fornaio non ha farina / è questo il Terzo Reich. / Per la prepotenza di Hitler / noi popolo tedesco siamo senza / pace! Abbasso la banda Hitler»...more
Da un lato il vecchio colonialismo francese, al cui mondo appartiene in un certo senso, pure essendo inglese eppure essendo emoUn triangolo circolare.
Da un lato il vecchio colonialismo francese, al cui mondo appartiene in un certo senso, pure essendo inglese eppure essendo emotivamente solo uno spettatore, anche Thomas Fowler, dall'altra gli esportatori di democrazia del Nuovo Mondo dei quali Pyle è l'impersonificazione vivente, al vertice la silenziosa e bella Phoung. In mezzo l'Indocina, non ancora Vietnam, al crepuscolo del dominio occidentale, all'alba di un nuovo scenario politico, sospesa tra colonialismo e comunismo, in cerca, forse, di quella Terza Forza che gli Stati Uniti incoraggiano e anelano trovare. Se non fosse questo il contesto, sarebbe il solito triangolo d'amore, anche se di 'solito', in questa storia in cui i sensi traditi sono quelli di Fowler, reporter inglese piuttosto âgée, spettatore disincantato di quanto avviene sotto i suoi occhi sia di uomo innamorato di Phuong, giovane vietnamita che la sorella vuole a tutti i costi sistemare con un matrimonio, che l'inglese non può offrirle, nonostante lei e Fowler vivano insieme già da tempo, che quelli del giornalista, capace di districarsi e muoversi nell'ombra in situazioni equivoche e pericolose e fiutarne l'odore anche se stordito e distratto dal suo dolore privato, anche se di 'solito', dicevo, non c'è proprio nulla. Pyle sembra essere l'uomo giusto per tutti: per Phuong, per l'Indocina, forse anche per Fowler. Solo un triangolo, quindi, eppure una volta giunti alla fine, alla fine del cerchio che si percorre attraverso il percorso mentale per il quale Fowler ci guida, attraversando notti fumose di oppio umide e fangose, ci si accorge che senza quel triangolo, forse, nulla di quanto succede in quei giorni in cui misteriose esplosione devastano Saigon seminando sangue e morte e terrore, sarebbe mai accaduto.
Pensai a Phuong proprio a causa della sua completa assenza da quel luogo. È sempre così: quando si fugge da un deserto, il silenzio ci urla nelle orecchie....more
C'è molto Camus in questo Flaiano e per certi versi il tenente, protagonista di Tempo di uccidere, è un precursore del Mersault diLo straniero.
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C'è molto Camus in questo Flaiano e per certi versi il tenente, protagonista di Tempo di uccidere, è un precursore del Mersault di Camus, perché sembrano quasi lo stesso personaggio, il secondo, Mersault, un'evoluzione del primo, sebbene il romanzo di Flaiano sia stato scritto nel 1947 e quello di Camus, Lo Straniero, nel 1942. Due uomini che hanno in comune l'indolenza, il nichilismo morale, l'abbandonarsi alla vita lasciandosi travolgere dagli eventi che li circondano. Tutti e due commettono un omicidio casuale, volontario ma inutile, e tutti e due reagiscono, sia pure in maniera completamente diversa, senza reagire con determinazione, all'escalation e alla concatenazioni degli eventi che si susseguono. Siamo in Africa, durante la Campagna d'Abissinia del 1936 e quella che si sta combattendo è una guerra che nel romanzo c'è ma non si vede; così come l'Africa, che si riesce a percepire solo attraverso gli occhi delle donne, donne dagli «occhi che assorbivano il colore della sera», donne con il turbante bianco che messo a contrasto con il colore della pelle, e con la purezza che il colore rappresenta, mette in guardia contro il pericolo della lebbra, donne che si concedono, come prede addomesticate, sorridendo; o da un fruscio improvviso fra gli alberi, dai richiami nel buio di animali sconosciuti e forse feroci, dalla quieta brutalità degli altipiani inariditi dal sole e di terre e uomini violati dalle truppe italiane che spostandosi da una parte all'altra del territorio, presidiano, si espandono, conquistano villaggi animali e persone spinte da una ridicola mania colonizzatrice; o negli occhi immobili di un coccodrillo, che è forse simbolo del destino sempre in agguato, pronto a deviare il corso di un'esistenza senza che l'uomo possa far nulla per impedirlo.
Tutto il resto della storia, quasi tutta la storia, si agita nella mente del tenente, l'antieroe che forse nessuno si aspettava di incontrare, che nella sua apatia e nel suo autoisolamento - nella disillusione malinconica che oscilla tra la paura e la vigliaccheria, il cinismo e la noia, nella nostalgia che lo colpisce dal momento in cui sente il suo destino segnato e si abbandona al delirio e all'immobilità esistenzialista in un'agitazione che è solo interiore, lasciandosi catturare da un'inquietudine claustrofobica che finisce per spingerlo nel baratro dell'immobilità in un circolo vizioso che lo spinge a fuggire, ma per tornare sempre al punto di partenza - finisce per diventare straniero alla vita. È rivelatore, in questo, il rapporto vittima carnefice che si instaura fra il tenente e Johannes, il vecchio indigeno con il quale si trova a vivere a tu per tu, in totale solitudine, per molti giorni in un villaggio abbandonato, in un continuo scambio di ruoli in cui l'un l'altro si sfidano, si compatiscono, si umiliano e si sostengono a vicenda, fino a desiderare l'uno la morte dell'altro, ma senza essere capaci di volerla fino in fondo e di annientarsi, perché sono l'uno il completamento dell'altro.
Personalmente ho trovato superfluo e didascalico l'ultimo capitolo, inutile nella sua funzione di voler spiegare ogni cosa e voler mettere ogni tassello al suo posto; credo che il finale di quello precedente, se anche avesse lasciato qualche interrogativo nel lettore, ne avrebbe fatto un romanzo ancora migliore, un romanzo che conquista e avvince pagina dopo pagina. Inquietante al mio orecchio, ma spiegabile con gli arcaicismi dai quali deriva, e in uso nella letteratura dell'epoca, l'uso che Flaiano fa del condizionale presente laddove, oggi, utilizzeremmo senza dubbio alcuno quello passato....more
Perché nell'animo di ciascuno di noi ci sono luoghi che continuano ad esistere anche quando non esistono più.
Via Katalin è rinchiusa nel cuore di chi Perché nell'animo di ciascuno di noi ci sono luoghi che continuano ad esistere anche quando non esistono più.
Via Katalin è rinchiusa nel cuore di chi l'ha amata, è due assi di una staccionata inchiodate nel momento sbagliato, è lo scorrere del tempo circolare dove le vite proseguono anche se spezzate dalla guerra, è il sovrapporsi quieto di piccole gioie e di grandi dolori, di fantasmi e di creature reali, è il convivere malinconico di sogni spezzati, di vite spezzate, e di una primavera che non è mai sbocciata. Via Katalin è nel mio cuore, ed io non ne voglio parlare, perché è anche mia e ho solo voglia di custodirla gelosamente, girare l'ultima pagina e ricominciare da capo, per tornare ad incontrare Irén e Bálint, il Maggiore e la Signora Temes, Henriett e i signori Held e poi ancora i Signori Elekes. E poi, infine, riportare Blanka a casa. Per sempre.
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«Nessuno aveva spiegato loro che la fine della giovinezza è terribile non tanto perché sottrae qualcosa, quanto piuttosto perché lo apporta. E quel qualcosa non è saggezza, né serenità, né lucidità, né pace. È la consapevolezza che il Tutto si è dissolto.»...more