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mercoledì 6 marzo 2024

Dune - Parte due (2024)

Domenica siamo corsi a vedere Dune - Parte 2 (Dune - Part 2), diretto e co-sceneggiato da Denis Villeneuve a partire dal romanzo Dune di Frank Herbert.


Trama: dopo l'incontro-scontro con la tribù dei Fremen, Paul ne impara i costumi diventando uno dei guerrieri più potenti. Ma l'ombra di un futuro sanguinoso come Messia incombe su di lui...


Sarò priva di mezze misure: Dune - Parte 2 è un trionfo. Lo dico da profana, perché dal 2021, anno di uscita di Dune, non ho mica trovato il tempo di leggermi il romanzo di Herbert e, in tutta sincerità, ero persino riuscita a dimenticarmi il primo capitolo (guardato con estrema soddisfazione, per la seconda volta, nel weekend), quindi il mio è il commento a caldo di una mente fresca. Ripeto quello che avevo giù dichiarato tre anni fa: "Gli ultimi Star Wars, ma anche quelli vecchi, con tutto il rispetto, a Dune spicciano casa", e gli spiccia casa qualsiasi saga moderna, in primis i fumettoni Marvel da cui il regista ha preso tre quarti del cast. Serio ed epico, senza alcuna concessione nemmeno alla più piccola briciola di umorismo, Dune - Part 2 mette in scena la crescita di Paul Atreides, da rampollo in fuga di una nobile famiglia a ragazzo maturo, deciso a prendere il futuro tra le sue mani senza seguire un cammino che qualcuno ha scelto per lui, almeno per buona parte del film. Il desiderio di vendetta verso chi ha sterminato la sua casata lascia presto il posto a un sentimento più complesso verso la tribù dei Fremen, alimentato sì dall'amore verso la bella Chani, ma anche dall'ammirazione verso la tenacia, l'intelligenza e gli usi di un popolo ben lontano dall'accozzaglia di selvaggi dipinta dalla nobiltà ignorante. Purtroppo per Paul, il mondo di Dune è fatto di complotti vecchi di secoli, invischiato in una tela tessuta in primis dalle Bene Gesserit, ed è difficile sottrarsi ad apocalittiche visioni di un tragico futuro, quando quella stessa ignoranza che rende ciechi i nobili viene sfruttata per aizzare il fondamentalismo di popolazioni isolate, istigandole a combattere una guerra santa in nome di segni e profezie assai facili da manipolare e fare avverare. Se i terribili Harkonnen sono i nazisti, quindi orribili e malvagi per definizione, le Bene Gesserit sono la Santa Inquisizione, gli Atreides i Crociati e gli invasati Fremen dei fondamentalisti islamici, e ben sappiamo a cosa possa portare ogni tipo di estremismo, anche quello che nasce con intenti "buoni", soprattutto quando ci si distanzia sempre più dal popolo che si vorrebbe guidare, e subentrano interessi personali. 


Come già succedeva nel primo capitolo, Villeneuve fa corrispondere il valore della storia narrata alla grandeur di una fantascienza visiva fatta di mostruose navi spaziali che si muovono e crollano con la lentezza di giganti, trascinando con sé buoni e cattivi, di paesaggi sconfinati che lo schermo fa fatica a contenere, di battaglie epiche girate e montate con nitida chiarezza anche a fronte del limite del PG13 (che non impedisce la percezione di torture e morti orripilanti, soprattutto quando si ha a che fare con i mostruosi Harkonnen), il tutto con l'ausilio di una CGI mai invasiva né "finta". Un'altra cosa che adoro di Villeneuve è la capacità di dare ad ogni ambiente la sua personalità, sfruttando non solo la regia, ma anche la scenografia e i costumi, oltre che la coinvolgente colonna sonora di Hans Zimmer. Le inquadrature ampie della zona nord di Arrakis, la ricostruzione di questo deserto sconfinato, benché pericoloso, dove una comunione con la natura inclemente può garantire libertà e un futuro tranquillo, fanno a pugni con le sequenze realizzate per rappresentare la zona sud dei fondamentalisti, più claustrofobiche, con lo schermo che si riempie di impenetrabili tempeste di sabbia e folle di persone adoranti, chiuse all'interno di sotterranei dove la novella Reverenda Madre Jessica (sulla quale poi tornerò) tesse le sue trame. Il pianeta degli Harkonnen è invece un glaciale, geometrico orrore in odore di espressionismo tedesco, dove prevalgono il bianco e il nero di tristissimi fuochi d'artificio che "esplodono" silenziosi come macchie di inchiostro, mentre la natura "medievale" dei luoghi dove risiedono l'imperatore e la figlia viene richiamata da chiostri, mise che sembrano uscite dal ciclo arturiano e interni che, per quanto moderni, contengono elementi architettonici assimilabili a quelli di un castello. Alcune chicche, come l'inquadratura ravvicinata di formiche brulicanti sul cranio e sull'orecchio di un certo personaggio, oppure la rappresentazione iniziale delle truppe Harkonnen come silenziosi scarafaggi volanti, mi hanno fatto apprezzare la regia ancora di più e chissà quante cose ci sarebbero da dire dopo una seconda visione.


Per quanto riguarda gli interpreti, a me pare che Villeneuve sia riuscito a tirare fuori il meglio da ognuno dei coinvolti. Per quanto non mi sia mai strappata i capelli né per le doti recitative di Chalamet né per il suo fisico da twink, il ruolo di Paul Atreides gli calza a pennello, con quell'espressione malinconica e fiera che si ritrova, e ammetto di essermi parecchio emozionata nei momenti decisivi della sua ascesa a messia, con tanto di vecchia che urlava all'abominio e altri istanti di pura esaltazione che vi lascio scoprire. Il legame che si va a creare tra Paul e Chani viene reso alla perfezione non solo da un regista che rifugge la via dell'amore bimbominkia, ma soprattutto da due giovani attori dall'interessante alchimia, capaci di mantenere l'innocenza dei ragazzi e la consapevolezza quasi rassegnata di due persone adulte che ne hanno viste di cotte e di crude, scambiandosi sguardi e gesti che, sul finale, diventano commoventi. Tra le nuove aggiunte al cast spicca, neanche a dirlo, un irriconoscibile Austin Butler, affascinante nell'assoluta empietà di un personaggio che tiene tranquillamente testa al sempre valido Stellan Skarsgård e ad annientare il povero Bautista, mentre tra i "vecchi" non si può non citare un ottimo Javier Bardem assurto al ruolo di Paolo Brosio della situazione (grazie a Kara Lafayette, alla quale ho rubato la citazione!). Il mio cuore, però, sarà per sempre di Rebecca Ferguson. Se nel primo film l'attrice viveva di pochi sguardi fragili che la rendevano umana anche a fronte di una natura tenace e dura, ottimamente dissimulata, in Dune - Parte 2 Jessica perde ogni traccia di umanità (sia in una realtà che la vede spesso celata dietro veli e tatuaggi, ma anche in visioni da incubo) e diventa un'invasata dallo sguardo folle, pronta a tutto pur di favorire il figlio e metterla nello stoppino alle maledette vecchiacce che l'hanno resa così, trasudante di fascino e carisma dalla prima all'ultima inquadratura. Aspettare altri quattro anni per rivederla, conoscere il destino finale di Paul e cogliere più di uno scintillio della bellezza particolare di Anya Taylor-Joy sarà una cosa durissima, ma se Villeneuve riuscirà a confezionare un altro film come questo, varrà la pena soffrire!


Del regista e co-sceneggiatore Denis Villeneuve ho già parlato QUITimothée Chalamet (Paul Atreides), Zendaya (Chani), Rebecca Ferguson (Jessica), Javier Bardem (Stilgar), Josh Brolin (Gurney Halleck), Austin Butler (Feyd-Rautha), Florence Pugh (Principessa Irulan), Dave Bautista (Rabban), Christopher Walken (Imperatore), Léa Seydoux (Lady Margot Fenring), Stellan Skarsgård (Barone Harkonnen), Charlotte Rampling (Reverenda Madre Mohiam) e Anya Taylor-Joy (Alia Atreides) li trovate invece ai rispettivi link.


Stephen McKinley Henderson
e Tim Blake Nelson hanno girato delle scene nei panni, rispettivamente, di Thufir Hawat e del Conte Hasimir Fenring, ma sono state tagliate e i due attori sono stati ringraziati nei credit, mentre Sting ha rifiutato di comparire in un cameo. Non ce l'hanno fatta, invece, Bill Skarsgård e Barry Keoghan, in lizza per il ruolo di Feyd-Rautha; addirittura, per il ruolo di Margot Fenring si erano fatti i nomi di Elizabeth Debicki, Eva Green, Amy Adams, Natalie Dormer, Olivia Taylor Dudley e Gwyneth Paltrow. Inutile dire che Dune - Parte due va visto dopo Dune e, nel caso non vi basti, potete aggiungere anche il Dune di David Lynch o la miniserie televisiva Dune - Il destino dell'universo, oltre a leggere i libri. ENJOY!

martedì 28 settembre 2021

Dune (2021)

Di ritorno dalla vacanza settembrina, sono corsa a vedere Dune, diretto e co-sceneggiato dal regista Denis Villeneuve a partire dal romanzo omonimo di Frank Herbert


Trama: in un lontano futuro, il pianeta Arrakis è teatro di guerre all'ultimo sangue per il controllo della Spezia, indispensabile elemento per navigare nello spazio. A farne le spese, i membri della casata Atreides, inviati dall'imperatore proprio su Arrakis...


Io sono estasiata. Felice, assolutamente e per una volta, della mia ignoranza crassissima. Credo infatti di essere parte delle pochissime centinaia di persone in tutto il mondo che sono andate a vedere Dune senza sapere nulla non solo di tutto l'universo creato da Frank Herbert, ma anche delle altre due fallimentari (a quanto pare) versioni cinematografiche e televisive che sono state tratte dal primo libro della saga; di conseguenza, penso di essere stata anche una dei pochi spettatori che si sono goduti un racconto completamente nuovo, magico e misterioso, fatto di personaggi complessi e colpi di scena a non finire, a prescindere dall'effettiva bellezza della regia di Villeneuve. Come ho detto al Bolluomo a fine visione, durata due ore e mezza volate in un soffio, "Dune agli ultimi Star Wars, ma anche a quelli vecchi, con tutto il rispetto, spiccia casa". Quella di Dune è una fantascienza adulta, che non vive per il product placement, ma porta sullo schermo personaggi a tutto tondo invischiati in una trama complessa sviscerata a poco a poco, senza spiegazioni al limite del didattico, ma lasciando molto spazio all'intelligenza dello spettatore; non ci sono solo il bianco e il nero, il bene e il male in Dune (tranne forse per la casata Harkonnen, i cui membri sono gli unici connotati come mostri veri), ma moltissime sfumature di grigio, che rendono i protagonisti tridimensionali ed imprevedibili, ricchi di segreti, anche poco piacevoli, da scoprire senza fretta. I fan rideranno a leggere queste parole ma ho particolarmente apprezzato, senza fare troppi spoiler per chi è ignorante come me, le azioni "disonorevoli" (ahimé, anche inutili) compiute da un personaggio che dell'onore aveva fatto la sua bandiera fino a un secondo prima, la vena di profonda e dura oscurità che permea l'animo di chi dovrebbe tradizionalmente essere donna e madre, e in generale tutto il percorso di presa di consapevolezza del protagonista, Paul, legato alla spezia e a qualcosa di assai più grande e pericoloso prima ancora di cominciare il suo cammino di uomo. Le visioni di Paul, oniriche e spesso terrificanti, spingono a volerne sapere di più non solo su ciò che sarà del suo futuro, ma anche su quei Fremen che qui vengono più nominati che visti, incarnati da occhi azzurri che rendono Zendaya ancora più bella di quanto non sia normalmente e da un deserto caldo ed accogliente che contrasta con l'inferno mortale sperimentato nella realtà dai vari personaggi, popolato da creature mostruose ma forse più clementi del sole.


Buona parte di questo incredibile trasporto che ho avuto verso quasi tutti i personaggi è sicuramente da ricercare nella bravura degli attori e del regista che li ha diretti. Fa un po' ridere che Villeneuve si sia unito al gruppo di registi anti-Marvel quando metà del cast di Dune viene dalle ormai sempre più folte scuderie Disney/DC, eppure come si vede la differenza quando anche un "cojone" come Jason Momoa si ritaglia momenti talmente epici da spezzare il cuore (ma non toglietegli mai più la barba, vi prego, che pare Cicciobello!) e Oscar Isaac, dimenticabilissimo nei panni di Dameron Poe, sembra uscito dritto da una tragedia di Shakespeare. Certo, a colpire più di tutti sono due che con la Marvel poco c'entrano, ci mancherebbe. Timothée Chalamet è il perfetto connubio di bellezza "maledetta" e fragilità di ragazzino, due caratteristiche che, a mio avviso, al personaggio di Paul Atreides calzano alla perfezione, ma perdonatemi se darei ogni premio da qui all'eternità ad un attrice che aveva già dimostrato di sapere il fatto suo in Doctor Sleep, quando ha incarnato quell'indimenticabile Rose Cilindro; Rebecca Ferguson è IL motivo per cui chiunque dovrebbe correre a vedere Dune, con quegli occhi profondissimi e nervosi, l'apparenza fragile di chi è abituata a stare sempre un passo indietro che lascia spazio, nel giro di un secondo, alla durezza quasi fanatica di chi rimane sì indietro, ma per tirare i fili nell'ombra e mettertelo nello stoppino. Ripeto, non ho mai letto i libri di Herbert quindi magari questa versione di Lady Atreides è farina del sacco di Villeneuve, ma trovare un personaggio femminile così particolare in un'opera degli anni '60 per me ha del miracoloso e non vedo l'ora di capire come si svilupperà il rapporto tra lei e il figlio, visto il finale sospeso e quello sguardo da suocera del Sud rivolto a Chani.


Ciò detto, diamo a Villeneuve quello che è di Villeneuve. Dune è una meraviglia da vedere e ogni fotogramma è pura emozione. La grandiosità delle astronavi davanti alle quali gli uomini sembrano degli infinitesimali granelli di sabbia, l'ingannevole e placida bellezza di un deserto il cui calore pare trasudare dallo schermo, smosso dai mostruosi (e bellissimi) vermi della sabbia pronti a trasformare le dune in onde di un oceano sconfinato, perfetto contraltare del mare reale che circonda le terre della Casata Atreides, la fotografia che cambia con il cambiare dei pianeti, dal grigio-bluastro di quello da dove proviene Paul, ai colori caldi di Arrakis, alla cupezza "nazista" del pianeta degli Harkonnen, le scene d'azione e di corpo a corpo che rimangono fluide, chiare e talvolta angoscianti anche col PG-13, la brillantezza della spezia, tutto concorre a fare di Dune un sogno ad occhi aperti, o un incubo, a seconda dei momenti. Se, infatti,  davanti al pupazzo gnappo dell'imperatore Palpatine al massimo mi veniva da fare un sorrisetto scazzato, tutte le sequenze imperniate sulla casata Harkonnen e i mostri che la popolano mi hanno messo la stessa ansia di un horror e quel maledetto Barone probabilmente popolerà i miei incubi per mesi. E per mesi, probabilmente, ascolterò la colonna sonora di Hans Zimmer, talmente evocativa ed esotica da risultare quasi ipnotica, uno score emozionante come non mi capitava di sentire da tempo in un "blockbuster", per quanto d'autore. Non so se riuscirò ad aspettare anni per avere il seguito di Dune e non so neppure se, nel frattempo, resisterò alla tentazione di sapere (magari guardando il Dune di Lynch o meglio ancora leggendo i libri) quale sarà il destino di Paul, ma se l'attesa verrà ripagata con un film bello come questo, ne sarà valsa la pena. 


Del regista e co-sceneggiatore Denis Villeneuve ho già parlato QUI. Timothée Chalamet (Paul Atreides), Rebecca Ferguson (Lady Jessica Atreides), Oscar Isaac (Duca Leto Atreides), Jason Momoa (Duncan Idaho), Stellan Skarsgård (Barone Vladimir Harkonnen), Stephen McKinley Henderson (Thufir Hawat), Josh Brolin (Gurney Halleck), Javier Bardem (Stilgar), Chen Chang (Dr. Wellington Yueh), Dave Bautista (Rabban Harkonnen), David Dastmalchian (Piter De Vries) e Charlotte Rampling (Reverenda Madre Gaius Helen Mohiam) li trovate invece ai rispettivi link.

Zendaya (vero nome Zendaya Maree Stoermer Coleman) interpreta Chani. Americana, la ricordo per film come Spider-Man: Homecoming e Spider-Man: Far From Home. Anche produttrice, cantante e sceneggiatrice, ha 25 anni e un film in uscita, Spider-Man: No Way Home.


Nel caso Dune andasse bene al botteghino dovrebbe uscire nei prossimi anni un seguito, sempre diretto da Villeneuve; nell'attesa, se volete sapere (come me!) come va a finire la storia, potete sempre recuperare il Dune di David Lynch o la miniserie televisiva Dune - Il destino dell'universo, anche se nel secondo caso non so onestamente quanto vi convenga! ENJOY!

 

domenica 21 ottobre 2018

Sicario (2015)

In occasione dell'uscita di Soldado, ho finalmente recuperato Sicario, diretto nel 2015 dal regista Denis Villeneuve.


Trama: un'agente dell'FBI viene coinvolta in un'operazione della CIA atta a smantellare un cartello messicano ma la questione, ovviamente, è ben più complicata di così.


Di Sicario avevano parlato tutti benissimo all'epoca. TUTTI. Non fatico a capire perché un film simile avesse messo d'accordo chiunque e ancora mi chiedo cosa ho aspettato a vederlo. Non tanto per la trama, bisogna dirlo. Sicario è uno di quei film a base di agenti e complotti che mi vedono persa dopo due secondi netti, tanto che prima di scrivere il post ho dovuto fare un po' di mente locale per vedere se avevo effettivamente capito quello che viene raccontato: in pratica, abbiamo agenti FBI coinvolti loro malgrado in un'operazione CIA dove chiunque ha un proprio scopo da perseguire tranne la povera, integerrima Kate, che invece vorrebbe solo capire in cosa si sia andata a infilare, mentre nell'ombra cospira un uomo ancor più insondabile degli altri. Ora, io sono sicuramente un po' tarda quando mi ritrovo davanti  questo genere di pellicole, però mi è sembrato che la trama di Sicario non fosse poi così importante e che i personaggi, su carta (e sottolineo: su carta) avessero lo spessore di un'ostia, degli abbozzi di carattere, delle immagini di qualcosa di impossibile da approfondire in un paio d'ore di film... talvolta, dei cliché. E proprio perché a livello di scrittura, quello insomma verso il quale sono più portata, Sicario non spicca particolarmente, il post rischierebbe di essere anche troppo corto per i livelli standard, ed è un peccato perché il film di Villeneuve è splendido, ma purtroppo meriterebbe gente competente e in grado di approfondire argomenti come regia, fotografia, montaggio e colonna sonora per parlarne degnamente. Quindi vi rimanderei, molto pigramente, QUI e QUI, prima di riprendere la parola e sottolineare quelle cose che mi hanno particolarmente colpita.


LA cosa che mi ha colpita maggiormente, che mai dimenticherò finché campo, è Benicio del Toro. Ora, il personaggio di Del Toro dirà sì e no dieci parole in tutto il film ma compensa con un carisma ed un magnetismo enormi, derivanti essenzialmente da quel suo assurdo sguardo da gatto sornione pronto a far scattare gli artigli ed ucciderti solo perché hai pensato di guardarlo storto. Sia da solo, sia quando duetta in maniera strepitosa con Emily Blunt, soprattutto nell'angosciante sequenza finale dove la mia ansia faceva a pugni col desiderio folle di saltare addosso al buon Benicio, Del Toro mangia letteralmente la scena e riesce a spiccare anche all'interno di un cast praticamente perfetto. La già citata Emily Blunt, oltre ad essere bellissima anche nei panni di un personaggio dimesso, è emblema di forza e fragilità, riempie la sua Kate con un'umanità che la scrittura da sola non le avrebbe mai conferito e con essa riesce a rendere viva questa traumatizzata e complicata agente dell'FBI. I già bravissimi attori vengono valorizzati dalla regia di Villeneuve il quale non sbaglia un'inquadratura e, avvalendosi di un ottimo montaggio e una splendida fotografia (nominata all'Oscar assieme a colonna sonora ed effetti sonori), ottiene due risultati fondamentali: in primis, dona alla pellicola un ritmo particolare e serrato, che porta lo spettatore ad aspettarsi gli eventi peggiori per tutta la durata del film (anche grazie alla colonna sonora del mai abbastanza compianto Johann Johansson, incombente e minacciosa come quella di un horror), secondariamente immerge ognuno dei protagonisti in un'atmosfera fatta di luci eteree ed ombre cupissime, completando la già valida interpretazione degli attori, oppure ci restituisce delle scene di albe magnifiche ed impressionanti colori, un paesaggio da sogno (ma non da cartolina) dove la gente soffre, suda e muore dopo essere stata ingannata malamente. Insomma, una meraviglia di film al quale io non riesco a rendere giustizia quindi vi dico di guardarlo senza perdere tempo come ho fatto io, tanto più che lo trovate anche su Netflix!


Del regista Denis Villeneuve ho già parlato QUI. Emily Blunt (Kate Macer), Benicio Del Toro (Alejandro), Josh Brolin (Matt Graver), Victor Garber (Dave Jennings), Jon Bernthal (Ted) e Daniel Kaluuya (Reggie Wayne) li trovate invece ai rispettivi link.


Soldado, in uscita proprio in questi giorni, dovrebbe essere una sorta di sequel del film quindi, se Sicario vi fosse piaciuto, ne consiglierei il recupero sperando sia bello come la pellicola di Villeneuve. ENJOY!


martedì 10 ottobre 2017

Blade Runner 2049 (2017)

Nonostante avessi tutto contro (weekend con matrimoni, il terrore del Bolluomo all'idea di affrontare tre ore di film, gli orari maffi del Multisala), sabato sono riuscita a vedere Blade Runner 2049, sequel di Blade Runner diretto dal regista Denis Villeneuve.


Trama: durante un'operazione di routine il Blade Runner replicante K scopre un segreto che minaccia di sovvertire l'ordine mondiale e, durante le indagini, viene a conoscenza di cose che riguardano il suo stesso passato.


L'inevitabile premessa del post è che, pur avendo apprezzato moltissimo il Blade Runner di Ridley Scott, non sono mai stata una di quei fan che ne ricordano ogni singola battuta, né mi sono fracassata la testa sull'ambiguo finale, di fatto credo di non avere mai visto neppure tutte e tre le versioni del film realizzate nel corso degli anni ed immesse sul mercato dell'home video. Sono quindi andata a vedere Blade Runner 2049 col cuore molto leggero, senza contare che Villeneuve è un regista che mi piace tantissimo, e giustamente sono riuscita così a godermi un film che, nonostante le quasi tre ore di durata, scivola via che è un piacere, tenendo incollato lo spettatore allo schermo non tanto per la trama, pur interessante, ma per l'incredibile bellezza delle sequenze girate da Villeneuve; probabilmente, senza nulla togliere a Scott e senza desiderio di attirarmi gli strali dei fan di Blade Runner, nel 1982 gli spettatori sono rimasti ipnotizzati davanti allo schermo allo stesso modo, immersi nella nebbia, nella pioggia oscura e negli incredibili giochi al neon di una Los Angeles cosmopolita, mentre le orecchie si aprivano stupite alle note di un Vangelis sparato a tutto volume. L'omaggio di Villeneuve a quelle vecchie atmosfere tecno-noir è palese, così come lo è quello di Hans Zimmer e Benjamin Wallfisch per quel che riguarda la colonna sonora, eppure Blade Runner 2049 non è semplicemente una strizzata d'occhio continua ai fan ma un film malinconico e grandioso dotato di una sua personalità, fatto di creature che si dibattono alla ricerca di risposte su sé stesse e possibilmente di un motivo per continuare ad esistere, siano esse replicanti in crisi d'identità, demiurghi desiderosi di velocizzare il progresso, intelligenze artificiali innamorate o vecchi detective che hanno rinunciato a tutto per proteggere le cose più importanti della loro vita. Il futuro o, per meglio dire, il presente dei protagonisti si riallaccia così in modo naturale al mitico passato in cui Rick Deckart arrivava a mettere in dubbio il suo ruolo di Blade Runner e a scoprire l'amore, il tutto filtrato attraverso gli occhi artificiali di un replicante diventato cacciatore dei propri simili eppure lo stesso incredibilmente umano, talmente bisognoso di relazioni da arrivare a crearsene una con un'Intelligenza Artificiale creata appositamente per soddisfare i desideri degli utenti, quella Joi così simile nei modi e nell'interazione col suo "padrone" da ricordare lo struggente Her di Spike Jonze. I misteri che circondano l'ultimo ritrovamento di K diventano così l'inizio di un percorso non solo verso la verità e verso la possibile risposta alle domande che gli spettatori si ponevano da trent'anni ma anche verso riflessioni più ampie relative ad umanità, ricordi e considerazioni "scomode" sulla vita artificiale, magari non delle più innovative viste al cinema negli ultimi anni ma comunque capaci di tenere desta l'attenzione dello spettatore.


Ma, ribadisco, quello che a me è saltato letteralmente all'occhio non è tanto la bravura degli sceneggiatori nel creare una storia senza sbavature e coerente con ciò che aveva mostrato Scott negli anni '80 (continuo a dire che Blade Runner per me è un ricordo più visivo che narrativo) quanto piuttosto la bellezza delle riprese di Villeneuve, che si riconferma regista elegante ed incredibilmente emozionante. I grattacieli immersi nel fumo e nella nebbia, i mezzi volanti così piccoli al confronto della megalopoli da venirne inghiottiti, l'incessante pioggia, il punto di vista che si allarga da un punto preciso per mostrare allo spettatore la grandiosità di strutture regolari praticamente infinite, il caos di neon nei bassifondi della città, l'interazione col gigantesco e coloratissimo ologramma di una Dea, una scazzottata in mezzo ai video olografici di un vecchio hotel, l'aspetto malato di una Las Vegas radioattiva, la neve malinconica, soprattutto i colori caldi che si alternano alle ombre e ai riflessi acquatici del sancta sanctorum di Niander Wallace sono tutti ricordi che mi bruciano nel cervello da sabato sera e sono immagini che spero di non dimenticare mai più, rese ancora più emozionanti dalla bellissima colonna sonora di Zimmer e Wallfisch. E se rivedere Harrison Ford nei panni di Deckart non mi ha fatto né caldo né freddo (come ho scritto su Facebook, due bestemmie e qualche modo di dire ligure in bocca e sarebbe diventato la controfigura di mio padre) e Jared Leto sarà anche andato in giro con le lenti opache per provare davvero cosa vuol dire essere ciechi ma il suo personaggio mi ha detto proprio poco, ho apprezzato enormemente non solo Ryan Gosling ma anche e soprattutto la dolcissima e sensuale Ana de Armas, Dave Bautista (nonostante compaia pochissimo) e la bastardissima Sylvia Hoeks, alla quale è bastato un cambio di tinta per sembrare quasi orientale oltre che una stronza da primato. Mi soffermo un attimo su Ryan Gosling. Sono io la prima ad essermi quasi spaccata il cranio contro quello del Bolluomo nel momento in cui, all'unisono, siamo scoppiati a ridere quando non ricordo quale personaggio si è complimentato con K per sapere anche sorridere, però l'interpretazione "fissa" del bel Ryan è assolutamente perfetta in questo caso e quella faccetta da cane bastonato mi è entrata talmente dentro che sul finale ho persino speso una lacrima, commossa dalle vicende di questo replicante "più umano degli umani" e gabbato da un destino beffardo. D'altronde, non è che Harrison Ford sia mai stato un attore granché espressivo e invecchiando sul suo volto si percepisce sempre una sola emozione: quella del vecchio incarognito perché alla riunione di condominio non è riuscito ad impedire che si stanziassero fondi per l'ascensore nuovo. A parte questo sproloquio finale, confermo la bellezza di Blade Runner 2049, un film che più di altri quest'anno merita di essere visto al cinema, alla faccia dei detrattori e degli incassi miserrimi che sta avendo in patria.


Del regista Denis Villeneuve ho già parlato QUI. Ryan Gosling (K), Dave Bautista (Sapper Morton), Robin Wright (Tenente Joshi), Ana de Armas (Joi), Jared Leto (Niander Wallace), Harrison Ford (Rick Deckart) e Sean Young (Rachael) li trovate invece ai rispettivi link.

David Dastmalchian interpreta Coco. Americano, ha partecipato a film come Il cavaliere oscuroPrisonersAnt-Man, The Belko Experiment e a serie quali E.R. Medici in prima linea, CSI - Scena del crimine Twin Peaks. Anche sceneggiatore e produttore, ha 40 anni e cinque film in uscita tra cui Ant-Man and the Wasp.


Sylvia Hoeks interpreta Luv. Olandese, ha partecipato a film come La migliore offerta. Ha 34 anni e un film in uscita.


Edward James Olmos riprende il ruolo di Gaff dopo Blade Runner. Americano, ha partecipato a serie quali Il tenente Kojak, Starsky & Hutch, Chips, Miami Vice, CSI: NY, Dexter, Agents of S.H.I.E.L.D. e ha lavorato come doppiatore per episodi de I Simpson e per il corto Blade Runner: Black Out 2022. Anche, ha 70 anni e sei film in uscita, tra i quali Coco e The Predator.


Mackenzie Davis interpreta Mariette. Canadese, ha partecipato a film come Sopravvissuto - The Martian e a serie quali Black Mirror e Halt and Catch Fire. Anche produttrice, ha 30 anni e un film in uscita.


Lennie James interpreta Mister Cotton. Conosciuto come Morgan della serie The Walking Dead, ha partecipato a film come I miserabili, Snatch - Lo strappo e Lockout. Inglese, anche sceneggiatore, ha 52 anni.


David Bowie era la prima scelta di Villeneuve per il ruolo di Wallace ma il cantante è morto prima che cominciassero le riprese; il regista Ridley Scott ha invece lasciato il posto al collega (rimanendo come produttore), probabilmente per girare Alien: Covenant. Tra Blade Runner e il suo sequel ci sono tre corti, uno diretto da Shinichiro Watanabe, ovvero Black Out 2022 e due diretti da Luke Scott, ovvero 2036: Nexus Dawn (con Jared Leto) e 2048: Nowhere to Run (con Dave Bautista); se Blade Runner 2049 vi fosse piaciuto avete quindi un bel po' di roba da recuperare! ENJOY!




venerdì 27 gennaio 2017

Arrival (2016)

Comincia la corsa all'Oscar, conseguentemente anche il recupero di film da qui alla fatidica data. Cercherò di essere più rapida e puntuale che posso ma la situazione distributiva italiana non darà una mano, già lo so. Qualcosa di buono comunque lo ha fatto visto che Arrival, diretto nel 2016 da Denis Villeneuve e candidato a otto premi Oscar (Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Sceneggiatura Non Originale, Miglior Fotografia, Miglior Montaggio, Miglior Scenografia, Miglior Sonoro, Miglior Montaggio Sonoro), è già arrivato in Italia ed è bellissimo. Segue post senza spoiler.


Trama: quando dei misteriosi "bozzoli" spaziali compaiono in dodici diverse località terrestri, la linguista Louise Banks viene chiamata per capire il linguaggio degli alieni e tentare di comprendere quale sia il loro scopo sulla Terra.


Con Arrival ho toccato un non invidiabile record personale: al quinto minuto di pellicola piangevo già come una fontana, non scherzo. La colpa, se posso usare impropriamente questo termine, è dell'utilizzo della splendida melodia On the Nature of Daylight di Max Richter, già apprezzata in film quali Shutter Island e Disconnect durante sequenze particolarmente topiche ed emozionanti e ripescata da Villeneuve per impreziosire l'inizio e la fine di quel gioiello che è Arrival. Per me che di musica e fantascienza non capisco nulla, emozionarmi così tanto all'inizio di una pellicola di genere e proprio grazie alla colonna sonora (tra l'altro bellissima, non solo per questo pezzo) significa già predisporre il mio animo verso qualcosa di non meglio definito ma sicuramente bello ed importante, e significa aprire non tanto la mente ma soprattutto il cuore ad una storia che punta moltissimo sull'importanza della comunicazione; Villeneuve ha esordito utilizzando un linguaggio che ho potuto capire persino io e ciò mi ha permesso di affrontare "in pace" una pellicola di non facile lettura, che sicuramente offre il fianco a mille interpretazioni e tremila obiezioni. Il secondo elemento di Arrival in grado di fare breccia nel mio cuore è stato poi, neanche a dirlo, la natura della protagonista. Louise Banks ha una freccia fondamentale al suo arco, quella di essere una formidabile linguista, che non significa semplicemente "sapere tante lingue" bensì "sapere COME funzioni il linguaggio"e, soprattutto, "avere la ferma volontà di capire chi ci sta davanti" che è poi la molla che spinge i pazzi come la sottoscritta ad impegnarsi nell'ingrato studio delle lingue straniere (dico ingrato perché, tolte soddisfazioni puramente personali, la laurea in lingue a me è servita davvero poco nella vita. Altro che alieni... ma sorvoliamo). A differenza di mille altri film di genere dove i protagonisti affrontano la forma di vita aliena di turno con paroloni scientifici quando va bene oppure enormi fucili quando va male, Louise si impegna quindi a trovare un modo letteralmente universale per facilitare le comunicazioni e capire quale sia lo scopo di Abbott e Costello (così vengono ribattezzati gli alieni) sulla Terra ed è seguendo le ricerche e i tentativi della protagonista che Arrival si apre a ragionamenti ben più profondi, che trascendono la storia narrata e che sono legati al modo in cui i due alieni percepiscono il tempo e lo spazio, percezione che influenza moltissimo la struttura stessa della pellicola.


Aggiungere altro sulla trama sarebbe un delitto, anche se prima o poi mi piacerebbe scrivere un lungo post (come ho fatto per Silence) sui pensieri che mi hanno attraversato la mente alla fine di Arrival, ma siccome un elemento fondamentale del film è la possibilità di scegliere come interpretare i segni che ci vengono inviati dall'universo e, soprattutto, l'importanza di praticare il libero arbitrio anche di fronte all'ineluttabilità del destino, la stesura di un articolo "spiegone" andrebbe contro tutto ciò che racconta Villeneuve. Allora mi limiterò a dire di quanto Arrival mi sia piaciuto tantissimo anche dal punto di vista formale, con quell'aria uggiosa che permea tutta la pellicola, capace di accrescere ancora di più la presunta minaccia aliena, a tratti mitigata da immagini talmente delicate per quel che riguarda i colori e la composizione che scomodare Malick non sarebbe così sbagliato. Ho adorato il design semplice dei baccelli sospesi nell'aria, il trip prospettico che è l'ingresso dei protagonisti all'interno della nave aliena, l'eleganza dei segni grafici creati ad hoc per simulare la scrittura di Abbott e Costello, la perfezione di un montaggio e di una regia che non lasciano assolutamente nulla al caso. Soprattutto, ho amato lo sguardo di Amy Adams, quello sguardo che già mi aveva catturata con Animali notturni e che qui assume ancora ulteriori valenze, lasciando trasparire la forza e la determinazione nascoste all'interno di una donna apparentemente fragile, costretta a scontrarsi non solo contro un mondo maschilista e guerrafondaio ma anche con un dono alieno talmente soverchiante da chiedersi "che diavolo avrei fatto io al suo posto?". Come si diceva su Facebook, Arrival è un film importantissimo, forse uno dei più importanti dell'anno e non solo per quel che riguarda il campo della fantascienza, ma proprio perché è una pellicola che supera i generi e può riuscire nel miracolo di far riflettere lo spettatore sulla propria natura per settimane. Io, intanto che rifletto, per non sbagliare raggiungerò l'apice dello spleen ascoltando in loop continuo On the Nature of Daylight e continuando a versare lacrime finché non arriveranno gli alieni a darmi consolazione con un abbraccio tentacolato.


Del regista Denis Villeneuve ho già parlato QUI. Amy Adams (Louise Banks), Jeremy Renner (Ian Donnelly), Forest Whitaker (Colonnello Weber) e Michael Stuhlbarg (Agente Halpern) li trovate invece ai rispettivi link.


La piccola Hannah viene interpretata, nelle fasi della sua vita, da tre attrici diverse, una delle quali è la piccola Abigail Pniowsky, che interpretava Lily Painter nella prima stagione dell'inquietantissimo Channel Zero e che ritroveremo nella seconda, imminente stagione. A proposito di Hannah, il destino della giovane è diverso nel racconto di Ted Chiang, all'interno del quale SPOILER la ragazza muore a 25 anni per un incidente in montagna invece che a causa di una malattia (ciò nonostante Louise decide comunque di non intervenire per cambiare il corso degli eventi). Inoltre, inizialmente la trama del film prevedeva che i doni degli alieni fossero parti di tecnologia ben specificate e diverse per ogni zona del pianeta ma, a quanto pare, per evitare somiglianze con Interstellar il finale della pellicola è stato cambiato; OVVIAMENTE, se Arrival vi fosse piaciuto non vi consiglierò di recuperare quella camurrìa di Interstellar però potete provare con Frequency - Il futuro è in ascolto, Contact, Incontri ravvicinati del terzo tipo, E.T. - L'extraterrestre e persino L'esercito delle 12 scimmie. ENJOY!

venerdì 15 novembre 2013

Prisoners (2013)

Dopo qualche settimana di assenza dalle sale è giunto il momento di fare doppietta. Nel weekend spero di riuscire a parlare di Machete Kills mentre oggi vi beccate qualche pensiero sparso su Prisoners, diretto dal regista Denis Villeneuve.


Trama: il giorno del ringraziamento Anna ed Eliza, due bimbette di sei e sette anni, scompaiono, presumibilmente rapite. Il primo ed unico indiziato è Alex, un ragazzo con palesi problemi psichici. Incapace di rispondere alle domande della polizia il ragazzo viene rilasciato per mancanza di prove ma Keller, padre di Anna, non crede alla sua innocenza e lo rinchiude in un edificio abbandonato per estorcergli una confessione..


Questo 2013 cinematografico sta regalando un sacco di sorprese positive. Nonostante fosse privo di un battage pubblicitario che, molto probabilmente, avrebbe accompagnato l'opera di qualsiasi altro regista di "genere" ben più famoso, Prisoners rischia infatti di vincere il primo premio come miglior thriller dell'anno, forse perché la pellicola di Denis Villeneuve, ironicamente, non può venire "imprigionata" in una semplice definizione. Sotto la superficie dell'angosciante, spesso frustrante ricerca del rapitore di due bambine, delle indagini del detective Loki, della violenza di un padre disperato ai danni di un presunto colpevole c'è un'umanità tristissima e fatta di Prigionieri non solo fisici, sbatacchiati qua e là da una realtà orribile e, purtroppo, mai chiaramente definibile né facile da comprendere. Keller, padre disperato, è prigioniero delle proprie cieche convinzioni e delle aspettative della moglie, di un passato di alcoolista e di un'infanzia orribile; il detective Loki è prigioniero del suo terrore di fallire e causare conseguentemente dolore alle famiglie delle vittime, cosa che lo costringe ad innalzare un muro tra lui e loro; tutti gli altri personaggi sono prigionieri del dolore, della pazzia, di ferite talmente profonde da condizionare la loro esistenza e alimentare un circolo vizioso potenzialmente infinito dal quale nessuno potrà uscire vincitore e dove il confine tra bene e male cessa di esistere.


Prisoners è un film angosciante che supera nettamente molti altri thriller anche e soprattutto per la mancanza di quella fede salda ed incrollabile, tipicamente americana, verso la mentalità da vigilantes o di un'apologia del padre di famiglia che, attraverso il dolore, diventa eroe. Qui non esiste redenzione, non esiste catarsi, non esiste neppure un personaggio dotato di qualità fuori dal comune perché all'inizio, vedendo il modo in cui un Hugh Jackman fuori di sé si approccia al detective Jake Gyllenhaal, mi è venuto da pensare che mio padre reagirebbe allo stesso modo: sopraffatto dal dolore, incapace di ragionare o di capire la mentalità poliziesca continuerebbe comunque a dire "mia figlia è stata rapita, è stato lui, lo so che è stato lui e quindi perché lo avete rilasciato? No, non ci siamo capiti, non me ne frega niente se non ha parlato. Le ho detto che è stato lui quindi è così e basta." Allo stesso modo, il detective è un'altra figura assolutamente realistica perché, se ci fate caso, dalla sua ha sì una testardaggine incredibile, ma è indisciplinato, bizzoso e violento e tutto quello che scopre, alla fin fine, lo scopre più per fortuna che per abilità. Il che è un po' paradossale perché, nonostante vari twist della trama, gli indizi ci sono e non sono difficili da seguire o da comprendere per lo spettatore comodamente seduto in poltrona. Ma, come ho detto, l'elemento thriller è solo una scusante per indagare l'animo umano e, in questo, Prisoners da veramente il meglio.


Merito, ovviamente, di un gruppetto di attori fantastici, sui quali spiccano Hugh Jackman e Jake Gyllenhaal, due grandissimi professionisti che si palleggiano il premio per la migliore interpretazione nel corso dell'intera durata del film ma ci sono anche le prove misurate ed efficaci di Viola Davis e Terrence Howard, quella convincentissima di Melissa Leo e la rivelazione dell'inquietantissimo, pietoso Paul Dano, in grado di provocare nello spettatore una miriade di sensazioni contrastanti. Per quanto riguarda la regia, Villeneuve utilizza un punto di vista distaccato ma limitato, nel senso che lo spettatore non viene portato a conoscenza di nessun dettaglio in più rispetto ai protagonisti, i quali spesso vengono ripresi dall'interno di un auto come se il regista volesse mostrarceli senza venire coinvolto nella vicenda, offrendoci così la possibilità di osservare con occhio imparziale e oggettivo. A dire il vero, per impostazione tecnica Prisoners mi ha ricordato tantissimo Mystic River, che viene spesso richiamato anche per quanto riguarda i temi trattati; siccome adoro quel particolare film di Clint Eastwood, non posso fare altro quindi che consigliare la pellicola di Villeneuve a tutti gli amanti del buon cinema. Astenersi genitori ansiosi, ovviamente.


Di Hugh Jackman (Keller Dover), Jake Gyllenhaal (Detective Loki), Viola Davis (Nancy Birch), Maria Bello (Grace Dover), Terrence Howard (Franklin Birch), Melissa Leo (Holly Jones) e Len Cariou (Padre Patrick Dunn) ho già parlato ai rispettivi link.

Denis Villeneuve è il regista della pellicola. Canadese, ha diretto film come Polytechnique e La donna che canta. Anche sceneggiatore e attore, ha 46 anni.


Paul Dano interpreta Alex Jones. Americano, ha partecipato a film come Identità violate, Little Miss Sunshine, Cowboys & Aliens, Ruby Sparks, Looper – In fuga dal passato e alla serie I Soprano. Anche produttore, ha 29 anni e due film in uscita.


Hugh Jackman (che, ironia della sorte, era stato chiamato ad interpretare il ruolo di padre disperato anche per Amabili resti) è tornato all’ovile dopo aver abbandonato il progetto, quando a dirigerlo avrebbe dovuto ancora essere Antoine Fuqua. Anche Bryan Singer è stato tra i registi papabili e sotto di lui avrebbero dovuto recitare Mark Wahlberg e Christian Bale nei ruoli principali, ma anche questo progetto è venuto meno. Dopo queste curiosità, i soliti consigli: se Prisoners vi è piaciuto procuratevi Il silenzio degli innocenti e il già citato Amabili resti. ENJOY!

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