Ce l'ho fatta, diamine. Con TRE settimane di ritardo ho finalmente potuto guardare questo Wonder Woman diretto da Patty Jenkins, film che ha spaccato in due pubblico e critica. E quindi...?
Trama: quando una spia inglese riesce a penetrare nell'isola di Temyscira, la principessa delle amazzoni Diana viene a conoscenza della guerra che imperversa nel mondo umano e decide di andare a dare una mano, convinta così di poter sconfiggere il malvagio dio Ares...
Ultimamente mi risulta sempre più difficile esprimere delle preferenze assolute visto che i film cominciano ad assomigliarsi un po' tutti, soprattutto i cosiddetti "cinecomics". Tuttavia, se mi puntassero una pistola alla tempia, potrei dire che Wonder Woman è uno dei migliori film tratti da un fumetto che mi sia capitato di vedere, per quel che riguarda l'universo DC sicuramente il più bello dopo i Batman di Burton (mi spiace, sapete che quelli di Nolan li ho visti, più o meno apprezzati e dimenticati). Al di là dei meriti registici di quella gran donna di Patty Jenkins, sui quali non entro in merito in quanto ignorante e per i quali vi rimando a QUESTO pregevole articolo di Lucia, ho proprio apprezzato il personaggio di Wonder Woman in sé, il modo in cui è stato scritto e portato sul grande schermo. Ho letto in giro che la povera Diana è stata tacciata di essere un pessimo personaggio in quanto scema come un tacco e a me sinceramente viene da ridere; l'idea che nel 2017 sia stato offerto al pubblico un eroe fresco, ingenuo, testardo come un mulo, in pieno stile anni '40, mi ha invece fatta impazzire e spinta a fare un tifo spudorato per la potentissima amazzone. D'altronde, Diana di Temyscira è cresciuta in un'isola di sole donne, indottrinata da libri "antichi", tagliata fuori dagli eventi del mondo esterno e, nonostante un'educazione da guerriera, è stata tenuta nella bambagia da una madre iperprotettiva, quindi non ci si può aspettare che lo stesso personaggio dimostri in quattro e quattr'otto una mente da stratega e la malizia di una Vedova Nera. Diana è la versione femminile di Hulk: nel mondo esterno c'è la guerra? Troviamo il Dio della guerra, Ares, ammazziamolo e automaticamente il conflitto finirà, che problema c'è? Una signora piangente chiede aiuto? Al diavolo tutti i piani di infiltrazione segreta, devastiamo l'esercito nemico scagliandoci contro i tedeschi come un panzer e liberiamo la popolazione vessata. Questa Wonder Woman è bella perché è come noi, noi poveri stronzi che non capiamo PERCHE' il mondo debba fare così schifo e che saremmo così felici di eliminare tutti i problemi tagliando la testa di UNA sola persona, così da riportare serenità ed armonia ovunque. E invece, come noi, anche una dea potentissima deve chinare il capo, crescere e rendersi conto della realtà delle cose, persino arrendersi disgustata di fronte all'impossibilità di cambiare il mondo solo con la violenza e la testardaggine; Wonder Woman potrebbe decidere di lasciarci tutti nella bratta oppure, ancora peggio, distruggerci tutti ma non lo fa perché sceglie di accettare la natura contorta dell'essere umano, fatta di bene e di male, impossibile da etichettare senza commettere sbagli. E questa è una presa di coscienza forse banale ma a mio avviso bellissima e delicata, alla faccia di tutti gli inutili crossover che deriveranno da questo film e che ci mostreranno una Diana ormai interamente calata nel suo ruolo di eroina dopo decenni di studi e (presumibilmente) perdita e dolore.
Di questa Wonder Woman bellissima dentro e fuori è impossibile non innamorarsi. Gal Gadot è la perfezione, un mix di innocenza, fascino e badassitudine: sai che potrebbe spaccare la faccia persino al già citato Hulk eppure nei momenti di tristezza ti verrebbe voglia di abbracciarla o di andare a bere con lei per farsi due risate, al punto che persino l'umorismo sciocchino delle interazioni iniziali con Steve e la segretaria Etta mi è sembrato simpatico e non fuori luogo. Poi, chiaro, tutto quel che fa da contorno può piacere o meno e io, come ho già detto all'inizio, sono ben poco interessata al destino futuro di Wonder Woman (il trailer di Justice League mi ha fatto già venire un principio di pellagra, per dire). Nello specifico, ho assai gradito l'introduzione ambientata a Temyscira, che poteva venire fuori truzza come una qualsiasi puntata di Xena - Principessa guerriera e invece è riuscita ad ipnotizzarmi sia per la bellezza dei paesaggi (d'altronde, parliamo della costiera amalfitana), sia per i feroci combattimenti delle amazzoni, sia per la presenza di Connie Nielsen e Robin Wright, due splendide cinquantenni capaci di dare dei punti a delle sgallettate con trent'anni di meno. Mi è piaciuta moltissimo la resa della missione al fronte, la capacità della Jenkins di sottolineare tutto l'orrore della guerra con poche inquadrature e di realizzare sequenze d'azione mozzafiato e tesissime, per non parlare poi del senso di cameratismo tirato fuori da reietti come Sameer, Charlie (ho un debole per Ewen Bremner) e il Capo. D'altra parte, Wonder Woman non è un film perfetto e in un paio di punti ho storto il naso. La pellicola della Jenkins soffre la mancanza di villain di un certo spessore e l'esigenza di infilare almeno una sequenza realizzata con una vomitevole CGI capace di renderla somigliante a un videogame, nella fattispecie il pre-finale, due difetti comuni al 90% dei cinecomic di ultima generazione. Per carità, uno dice Ares, Dio della guerra, si fa due conti sulla "villanitudine" di costui, poi però con quella faccetta lì e l'armatura finale identica a quella di un qualsiasi Nazgul il facepalm parte abbastanza in automatico e anche i terrificanti nemici tedeschi non è che ci facciano proprio una bella figura (ma quella sorta di doping che si sniffa Danny Huston, alla fine, è un elemento della trama che hanno lasciato cadere lì? Mah.), anche se la citazione a La pelle che abito mi ha garbato particolarmente. Ma queste son sciocchezze che scompaiono davanti allo sguardo di Gal Gadot, alla fierezza con cui brandisce la spada, al mezzo sorrisetto davanti all'ennesima cosa sconosciuta. Datemi più Wonder Woman e meno Justice League, fatemi contenta!
Di Chris Pine (Steve Trevor), Connie Nielsen (Hyppolita), Robin Wright (Antiope), Danny Huston (Ludendorff), David Thewlis (Sir Patrick), Ewen Bremner (Charlie) ed Elena Anaya (Dr. Maru) ho già parlato ai rispettivi link.
Patty Jenkins (vero nome Patricia Lea Jenkins) è la regista della pellicola. Americana, ha diretto film come Monster. Anche sceneggiatrice, produttrice e attrice, ha 46 anni.
Gal Gadot interpreta Diana. Israeliana, ha partecipato a film come Fast & Furious - Solo parti originali, Fast & Furious 5, Fast & Furious 6, Fast & Furious 7 e Batman vs Superman: Dawn of Justice. Ha 32 anni e due film in uscita, le due parti di Justice League.
Lucy Davis, che interpreta Etta, era l'esilarante Dianne di Shaun of the Dead. Purtroppo Lynda Carter, la Wonder Woman originale del telefilm, non è riuscita a partecipare al film mentre Nicole Kidman ha rifiutato il ruolo di Hyppolita solo per poi finire a fare la madre di Aquaman nel film a lui dedicato che dovrebbe uscire l'anno prossimo; allo stesso modo, anche Cate Blanchett ha declinato la partecipazione in Wonder Woman per poi accettare il ruolo di Hela in Thor: Ragnarok. Wonder Woman fa da prequel al pluricitato Justice League, quindi per avere un quadro completo della situazione dovreste guardare anche L'uomo d'acciaio, Batman vs Superman: Dawn of Justice e Suicide Squad... ma sinceramente non me la sento di consigliarveli. Meglio recuperare la vecchia, adorata serie TV Wonder Woman! ENJOY!
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mercoledì 21 giugno 2017
domenica 5 marzo 2017
T2 Trainspotting (2017)
E così, dopo tanto penare, anche io sono riuscita ad andare a vedere T2 Trainspotting, diretto da Danny Boyle, liberamente tratto da Trainspotting e Porno di Irvine Welsh e séguito del cultissimo Trainspotting. Come ne sarò uscita, io che la pellicola del 1996 l'avevo adorata?
Trama: vent'anni dopo la fuga di Renton da Edimburgo, il vecchio Mark torna a casa a seguito della morte della madre. Lì si riunisce a Spud, la cui vita è stata distrutta dall'eroina, e Sick Boy, ora gestore di un pub e colmo di risentimento per il tradimento dell'ex amico, mentre la minaccia di Begbie, appena evaso dal carcere e altrettanto infuriato con Renton, si fa sempre più pressante.
C'è una cosa, in vent'anni, che Renton non ha mai smesso di fare: correre. L'ex tossico che nel 1997 correva per fuggire dalla sicurezza di un grande magazzino, dopo due decenni lo fa su un tapis roulant, per mantenersi in forma, ma i risultati disastrosi sono sempre i medesimi. Si può continuare, per vent'anni, a correre cercando di sfuggire al passato che tenta di venirti a mordere le chiappe, alla nostalgia dei "bei tempi andati", alle dipendenze sbagliate, ad un destino che pare segnato per sempre? Chissà. Probabilmente sono le domande che si è posto Danny Boyle, al quale la cVitica non ha mai smesso di rinfacciare come dopo Trainspotting non avesse più azzeccato un film o quasi, terrificante The Beach in primis, ed eccolo quindi tornare dietro la macchina da presa per raccontarci le vicende di Renton e soci, in una zampata di nostalgia canaglia che ti prende proprio quando non vuoi. Ma attenzione, perché Boyle ha utilizzato un approccio subdolo e, se vogliamo, anche un po' ipocrita/paraculo ma perfettamente in linea con la tristezza dei personaggi della pellicola e, soprattutto, con la tristezza malinconica del pubblico pagante. Quella generazione di trentenni quasi quarantenni che piangono, me compresa, beninteso, gli anni '80, i vecchi film, i vecchi libri, le vecchie sceneggiature, i vecchi calciatori, i vecchi attori, la vecchia moda, i vecchi amici, le serate passate a "parlare invece che mandarsi messaggi su whatsapp o su facebook" e i cui esponenti si trincerano dietro tutti i loro preziosi ricordi manco il passato fosse stato tutto rose e fiori, zeppo di felicità. Ancora una volta, a buona parte di noi manca giusto di spararsi dell'eroina in vena ma per il resto siamo identici a Renton, Spud, Sick Boy e Begbie, un branco di tristi figuri che nella vita non sono riusciti a combinare nulla se non riproporsi, sempre identici a loro stessi, cambiando giusto genere di dipendenza ma lo stesso incapaci di staccarsi da un passato diventato sempre più mitico nelle loro teste. Lo scegli la vita di un tempo, beffardo insulto ad una pubblicità progresso inglese, è diventato un invito a guardare avanti, a staccarsi dal passato e da un presente fatto di ca**ate per concentrarsi su ciò che si vuole davvero, sulle cose, banalmente, importanti come gli affetti veri, che rischiano di passare in un attimo e non tornare più, lasciando solo delle ombre sul muro (che scena, quella!) e dei crudeli rimpianti. Accogliere il passato solo se ci consente di guardare al futuro con occhi diversi, questo sembra volerci urlare Danny Boyle, in ogni fotogramma.
Prima parlavo di ipocrisia/paraculaggine del regista ma in sostanza sono io che non so bene definire la sensazione provata guardando T2. Gli omaggi al primo film ci sono, e in abbondanza, al punto che quando non vengono riproposte intere sequenze ne arrivano altre a proporre varianti minime, quando non c'è la scenografia a tirarci un cazzotto fortissimo allo stomaco (quella maledetta camera di Renton, sempre identica, o il paesaggio scozzese immutato accanto alla fermata del treno) ci pensano dei bastardissimi accenni a quell'incredibile colonna sonora di vent'anni fa oppure dei remix creati ad hoc. Quando non c'è il sorriso mangiam**da di un Ewan McGregor che non sembra invecchiato nemmeno di un giorno arrivano i capelli ossigenati di Sick Boy, almeno i pochi che non sono andati in piazza. Quando non basta tutto questo, c'è la scrittura disordinata di un Ewen Bremner che da solo spezzerebbe il cuore ad un sasso, perché Spud nel primo film sarà anche stato un indegno cogl**ne ma vedere un VECCHIO indegno cogl**ne che è riuscito a sputtanarsi 4.000 sterline in eroina sprofondando negli abissi più abietti della società, abbiate pazienza, mi magona. Quindi, tornando all'"ipocrisia/paraculaggine" di Danny Boyle, forse sarebbe meglio definirla come un tentativo di riversare sullo spettatore le stesse sensazioni scomode ma condivisibili provate dai protagonisti, spingendoli ad esaltarsi come Begbie quando gli viene ricordata l'ormai mitica faccenda del boccale di birra lanciato alla cieca dal soppalco di un pub: al netto dei ventenni che popolavano la sala, i quali probabilmente avranno sentito parlare del primo Trainspotting senza nemmeno averlo visto e chissà cosa si saranno aspettati da questo film, T2 farà breccia essenzialmente nel cuore di chi ha amato il capostipite comprendendone comunque il gioco sottile e di chi ha pregato ardentemente per un sequel che non ne fosse una fotocopia pedissequa. I tempi di Trainspotting non possono più tornare, viene ribadito persino all'interno della pellicola, qualcuno (ma non vi dirò chi tra Renton e gli altri) lo ha capito, qualcun altro non lo capirà mai, qualcun altro accoglierà T2 col sorriso che merita e si asciugherà le lacrime di nostalgica commozione (qui mi tocca alzare la mano) per poi guardare avanti, lasciando i nostri amatissimi tossici ad un destino che è solo il loro, com'è giusto che sia.
Del regista Danny Boyle ho già parlato QUI. Ewan McGregor (Renton), Ewen Bremner (Spud), Jonny Lee Miller (Simon/Sick Boy), Robert Carlyle (Begbie), Kelly MacDonald (Diane) e Shirley Henderson (Gail) li trovate invece ai rispettivi link.
Lo scrittore Irvine Welsh torna ovviamente nel breve ruolo di Mikey Forrester. Se T2 Trainspotting vi fosse piaciuto recuperate senza indugio Trainspotting e magari aggiungete la lettura del romanzo omonimo e di Porno, su cui T2 è vagamente basato. ENJOY!
Trama: vent'anni dopo la fuga di Renton da Edimburgo, il vecchio Mark torna a casa a seguito della morte della madre. Lì si riunisce a Spud, la cui vita è stata distrutta dall'eroina, e Sick Boy, ora gestore di un pub e colmo di risentimento per il tradimento dell'ex amico, mentre la minaccia di Begbie, appena evaso dal carcere e altrettanto infuriato con Renton, si fa sempre più pressante.
C'è una cosa, in vent'anni, che Renton non ha mai smesso di fare: correre. L'ex tossico che nel 1997 correva per fuggire dalla sicurezza di un grande magazzino, dopo due decenni lo fa su un tapis roulant, per mantenersi in forma, ma i risultati disastrosi sono sempre i medesimi. Si può continuare, per vent'anni, a correre cercando di sfuggire al passato che tenta di venirti a mordere le chiappe, alla nostalgia dei "bei tempi andati", alle dipendenze sbagliate, ad un destino che pare segnato per sempre? Chissà. Probabilmente sono le domande che si è posto Danny Boyle, al quale la cVitica non ha mai smesso di rinfacciare come dopo Trainspotting non avesse più azzeccato un film o quasi, terrificante The Beach in primis, ed eccolo quindi tornare dietro la macchina da presa per raccontarci le vicende di Renton e soci, in una zampata di nostalgia canaglia che ti prende proprio quando non vuoi. Ma attenzione, perché Boyle ha utilizzato un approccio subdolo e, se vogliamo, anche un po' ipocrita/paraculo ma perfettamente in linea con la tristezza dei personaggi della pellicola e, soprattutto, con la tristezza malinconica del pubblico pagante. Quella generazione di trentenni quasi quarantenni che piangono, me compresa, beninteso, gli anni '80, i vecchi film, i vecchi libri, le vecchie sceneggiature, i vecchi calciatori, i vecchi attori, la vecchia moda, i vecchi amici, le serate passate a "parlare invece che mandarsi messaggi su whatsapp o su facebook" e i cui esponenti si trincerano dietro tutti i loro preziosi ricordi manco il passato fosse stato tutto rose e fiori, zeppo di felicità. Ancora una volta, a buona parte di noi manca giusto di spararsi dell'eroina in vena ma per il resto siamo identici a Renton, Spud, Sick Boy e Begbie, un branco di tristi figuri che nella vita non sono riusciti a combinare nulla se non riproporsi, sempre identici a loro stessi, cambiando giusto genere di dipendenza ma lo stesso incapaci di staccarsi da un passato diventato sempre più mitico nelle loro teste. Lo scegli la vita di un tempo, beffardo insulto ad una pubblicità progresso inglese, è diventato un invito a guardare avanti, a staccarsi dal passato e da un presente fatto di ca**ate per concentrarsi su ciò che si vuole davvero, sulle cose, banalmente, importanti come gli affetti veri, che rischiano di passare in un attimo e non tornare più, lasciando solo delle ombre sul muro (che scena, quella!) e dei crudeli rimpianti. Accogliere il passato solo se ci consente di guardare al futuro con occhi diversi, questo sembra volerci urlare Danny Boyle, in ogni fotogramma.
Prima parlavo di ipocrisia/paraculaggine del regista ma in sostanza sono io che non so bene definire la sensazione provata guardando T2. Gli omaggi al primo film ci sono, e in abbondanza, al punto che quando non vengono riproposte intere sequenze ne arrivano altre a proporre varianti minime, quando non c'è la scenografia a tirarci un cazzotto fortissimo allo stomaco (quella maledetta camera di Renton, sempre identica, o il paesaggio scozzese immutato accanto alla fermata del treno) ci pensano dei bastardissimi accenni a quell'incredibile colonna sonora di vent'anni fa oppure dei remix creati ad hoc. Quando non c'è il sorriso mangiam**da di un Ewan McGregor che non sembra invecchiato nemmeno di un giorno arrivano i capelli ossigenati di Sick Boy, almeno i pochi che non sono andati in piazza. Quando non basta tutto questo, c'è la scrittura disordinata di un Ewen Bremner che da solo spezzerebbe il cuore ad un sasso, perché Spud nel primo film sarà anche stato un indegno cogl**ne ma vedere un VECCHIO indegno cogl**ne che è riuscito a sputtanarsi 4.000 sterline in eroina sprofondando negli abissi più abietti della società, abbiate pazienza, mi magona. Quindi, tornando all'"ipocrisia/paraculaggine" di Danny Boyle, forse sarebbe meglio definirla come un tentativo di riversare sullo spettatore le stesse sensazioni scomode ma condivisibili provate dai protagonisti, spingendoli ad esaltarsi come Begbie quando gli viene ricordata l'ormai mitica faccenda del boccale di birra lanciato alla cieca dal soppalco di un pub: al netto dei ventenni che popolavano la sala, i quali probabilmente avranno sentito parlare del primo Trainspotting senza nemmeno averlo visto e chissà cosa si saranno aspettati da questo film, T2 farà breccia essenzialmente nel cuore di chi ha amato il capostipite comprendendone comunque il gioco sottile e di chi ha pregato ardentemente per un sequel che non ne fosse una fotocopia pedissequa. I tempi di Trainspotting non possono più tornare, viene ribadito persino all'interno della pellicola, qualcuno (ma non vi dirò chi tra Renton e gli altri) lo ha capito, qualcun altro non lo capirà mai, qualcun altro accoglierà T2 col sorriso che merita e si asciugherà le lacrime di nostalgica commozione (qui mi tocca alzare la mano) per poi guardare avanti, lasciando i nostri amatissimi tossici ad un destino che è solo il loro, com'è giusto che sia.
Del regista Danny Boyle ho già parlato QUI. Ewan McGregor (Renton), Ewen Bremner (Spud), Jonny Lee Miller (Simon/Sick Boy), Robert Carlyle (Begbie), Kelly MacDonald (Diane) e Shirley Henderson (Gail) li trovate invece ai rispettivi link.
| Comunque loro sono sempre due begli ometti, eh. |
venerdì 3 marzo 2017
Trainspotting (1996)
Non che ce ne fosse bisogno ma in preparazione di T2 - Trainspotting ho deciso di "ripassare" Trainspotting, diretto nel 1996 da Danny Boyle e tratto dal romanzo omonimo di Irvine Welsh. Segue post MOLTO amarcordO...
Trama: Renton, Sick Boy e Spud sono tre giovani scozzesi con un unico interesse, la droga. Tra tentativi di disintossicazione, furti, risse e occasionali scopate, la loro "vita" si consuma portando con sé anche inevitabili tragedie.
Il 4 ottobre 1996 Trainspotting usciva in Italia. Io avevo 15 anni ed ero appena entrata alle superiori, dove cercavo di "disintossicarmi" da un'infanzia e una pre-adolescenza passata praticamente in mezzo ai bricchi, dove al massimo arrivavano gli horror, qualche Dylan Dog, i cartoni animati, un 40 % di musica buona ma popolare (Madonna, Guns'n Roses, Queen, U2) e un 60 % di musica diMMerda truzza da morire. Insomma, nell'allora "grande" Savona passavo giustamente per rozza sfigata, più che "passavo per" diciamo che ERO una rozza sfigata, e ciò si ripercuoteva anche sui miei gusti cinematografici, ça va sans dire. La memoria sta diventando ingannevole ma sono quasi sicura di non essere andata al cinema a vedere Trainspotting e di avere recuperato la videocassetta uscita con Panorama l'anno dopo, o forse addirittura nel 1998, anno in cui avevano riproposto al cinema Arancia meccanica e io mi ero perdutamente innamorata della Settima Arte che conta, quella che meraviglia, sconvolge, spinge alla visione compulsiva anche quando le immagini non sono piacevoli e anzi, ancora oggi non si riescono a guardare. E' buffo pensare che di un film ambientato nel mondo degli eroinomani io non abbia mai visto nemmeno una delle scene in cui Renton e soci si bucano ma se dicessi che quelle sono le sequenze più devastanti di Trainspotting mentirei: vogliamo parlare di baby Dawn, che ancora oggi mi perseguita negli incubi? vogliamo ricordare la worst toilet of Scotland, una roba da conato immediato? vogliamo parlare dello squallore degli ultimi mesi di vita di Tommy? Come già con Arancia meccanica, genitori e amici distanti da quell'idea di cinema mi hanno dato per anni delle botte di pazza, maniaca, pervertita al pensiero che potesse piacermi un film simile ma con quelle che sarebbero poi diventate le mie migliori amiche si poteva parlare con tranquillità e costruire (noi con altri adolescenti sparsi per il mondo) il mito della pellicola di Danny Boyle, le contraddizioni che ne hanno fatto un cult per i decenni a venire e che oggi fanno venire le palpitazioni all'idea di andare a vedere un secondo capitolo.
Le contraddizioni, dicevo. Eravamo ragazzine di sedici/diciassette anni, in piena crisi ormonale. Come avremmo potuto sottrarci al fascino indiscutibile di Renton e Sick Boy, all'apice della loro giovinezza? Due ragazzi così belli che non perdono il loro carisma neppure quando vengono mostrati vomitanti, drogati, schifati dalle ragazze, letteralmente coperti di merda, ma non è una cosa assurda? Eppure Danny Boyle mette in scena senza troppi fronzoli tutto lo schifo della loro non-vita, prende tutta la curiosità che potrebbe suscitare l'idea di provare "un orgasmo moltiplicato mille volte" e la ricaccia in gola allo spettatore facendogli passare ogni velleità di provare ad infilarsi un ago in vena. Boyle (assieme a Welsh, per carità) cattura lo squallore di una triste realtà scozzese e lo rende stiloso senza privarlo dell'incredibile senso di vuoto e tristezza che lo caratterizza, creando un film stupendo e disturbante che non poteva non penetrare nella testa e nel cuore di un'adolescente che negli anni '90 stava cercando di uscire dal guscio creato da un ambiente non dissimile da quello frequentato da Renton e soci: va bene, noi non avevamo i treni da veder passare ma io avevo un intero prato (non parco. Prato, è diverso) davanti a casa dove al mattino non era difficile trovare siringhe e affini, ché il disagio pre-nuovo millennio si sentiva tanto a Luceto quanto ad Edimburgo. Avevo le stesse paure e i medesimi dubbi di Renton, come chiunque altro alla mia età. Choose Life, quale aberrazione. Che significa choose life? Una vita banale e noiosa, famiglia, casa, lavoro e TV invece di, chessò, viaggi intorno al mondo, un'esistenza da artista bohémien, la possibilità di passare da un uomo all'altro manco fossi stata figa? Ma che orrore, la non-vita dei nostri genitori, consumata nello stare dietro al mutuo da pagare, ai problemi quotidiani, al rispetto delle regole, ai figli ingrati, sempre frenata da paletti invisibili e limiti invalicabili. Eppure. Eppure la libertà forse è anche quella di crescere e "mettere la testa a posto", afferrando con le unghie e con i denti quello che è importante per noi e al diavolo quello che pensano gli altri, la "società che non esiste" o i "so-called friends".
Le (dis)avventure al limite del picaresco di Renton e soci sono passate alla storia perché sono grottesche ma realistiche, perché sono il viaggio allucinante di una testa matta, di un narratore inattendibile che per quanto sia sfatto e stronzo non può che starci simpatico. Perché, in soldoni, Renton siamo noi. Pieni di dubbi, timorosi della solitudine al punto da circondarci delle peggio persone per non ascoltare i pensieri ansiogeni, il terrore di crescere (sì, anche quando superiamo i trent'anni, fidatevi) e quella maledetta voce che ci ricorda di essere dei falliti in un modo o nell'altro, sempre e comunque; mica tutti, infatti, hanno la sicurezza di un Begbie o un Sick Boy, che affrontano la vita violentandola, oppure l'ingenuità fastidiosa di uno Spud, che probabilmente il cervello non ce l'ha neppure, figurati se riesce a sentire le voci. Molto spesso, ci ritroviamo ad essere Renton, costantemente in bilico tra la nostra parte buona e quella cattiva o, ancora peggio, Tommy, costretti a pagare per un unico, fatale errore compiuto in un momento di disperazione. Qualche giorno fa parlavo, seduta ad un tavolo sorseggiando un borghesissimo spritz durante un ancor più borghese aperitivo, assieme alla mia migliore amica di allora (ciao Noruzza, ti adoro), a suo marito e al mio ragazzo (c'era anche Filippo, patatino, ma lui non parla ancora e fa tanta nanna), di come probabilmente se avessimo visto Trainspotting oggi non ci avrebbe segnato per nulla, tanto i tempi sono cambiati, e probabilmente l'avremmo liquidato come un film ben diretto, simpatico, ma nulla più. Una sorta di Snatch tra drogati, si potrebbe dire. E invece ne parliamo ancora adesso dopo vent'anni, citandone frasi e sequenze a memoria, sfruttandolo per termini di paragone, probabilmente guardando al ritorno delle Gazelle come un presagio di tempi migliori, durante i quali potremo sentirci più giovani alla faccia della vita. Che poi così schifo non fa, suvvia, soprattutto se si ha avuto la fortuna di venire formati da pellicole come questa.
Del regista Danny Boyle ho già parlato QUI. Ewan McGregor (Renton), Ewen Bremner (Spud), Jonny Lee Miller (Sick Boy), Kevin McKidd (Tommy), Robert Carlyle (Begbie), Kelly MacDonald (Diane) e Shirley Henderson (Gail) li trovate invece ai rispettivi link.
Peter Mullan interpreta Swanney, alias Madre Superiora. Scozzese, ha partecipato a film come Piccoli omicidi tra amici, Braveheart - Cuore impavido, Harry Potter e i doni della morte - Parte I e War Horse. Anche regista, sceneggiatore e produttore, ha 58 anni e quattro film in uscita.
Lo scrittore Irvine Welsh interpreta il pusher Mikey. Purtroppo non posso delucidarvi sulle differenze tra libro e film in quanto non ho mai letto il libro di Welsh (shame on me!) e, nell'attesa di dirvi se T2 - Trainspotting merita o meno, nel caso Trainspotting vi fosse piaciuto consiglio il recupero di Arancia meccanica, Piccoli omicidi tra amici, Gridlock'd e Requiem for a Dream. ENJOY!
Trama: Renton, Sick Boy e Spud sono tre giovani scozzesi con un unico interesse, la droga. Tra tentativi di disintossicazione, furti, risse e occasionali scopate, la loro "vita" si consuma portando con sé anche inevitabili tragedie.
Il 4 ottobre 1996 Trainspotting usciva in Italia. Io avevo 15 anni ed ero appena entrata alle superiori, dove cercavo di "disintossicarmi" da un'infanzia e una pre-adolescenza passata praticamente in mezzo ai bricchi, dove al massimo arrivavano gli horror, qualche Dylan Dog, i cartoni animati, un 40 % di musica buona ma popolare (Madonna, Guns'n Roses, Queen, U2) e un 60 % di musica diMMerda truzza da morire. Insomma, nell'allora "grande" Savona passavo giustamente per rozza sfigata, più che "passavo per" diciamo che ERO una rozza sfigata, e ciò si ripercuoteva anche sui miei gusti cinematografici, ça va sans dire. La memoria sta diventando ingannevole ma sono quasi sicura di non essere andata al cinema a vedere Trainspotting e di avere recuperato la videocassetta uscita con Panorama l'anno dopo, o forse addirittura nel 1998, anno in cui avevano riproposto al cinema Arancia meccanica e io mi ero perdutamente innamorata della Settima Arte che conta, quella che meraviglia, sconvolge, spinge alla visione compulsiva anche quando le immagini non sono piacevoli e anzi, ancora oggi non si riescono a guardare. E' buffo pensare che di un film ambientato nel mondo degli eroinomani io non abbia mai visto nemmeno una delle scene in cui Renton e soci si bucano ma se dicessi che quelle sono le sequenze più devastanti di Trainspotting mentirei: vogliamo parlare di baby Dawn, che ancora oggi mi perseguita negli incubi? vogliamo ricordare la worst toilet of Scotland, una roba da conato immediato? vogliamo parlare dello squallore degli ultimi mesi di vita di Tommy? Come già con Arancia meccanica, genitori e amici distanti da quell'idea di cinema mi hanno dato per anni delle botte di pazza, maniaca, pervertita al pensiero che potesse piacermi un film simile ma con quelle che sarebbero poi diventate le mie migliori amiche si poteva parlare con tranquillità e costruire (noi con altri adolescenti sparsi per il mondo) il mito della pellicola di Danny Boyle, le contraddizioni che ne hanno fatto un cult per i decenni a venire e che oggi fanno venire le palpitazioni all'idea di andare a vedere un secondo capitolo.
Le contraddizioni, dicevo. Eravamo ragazzine di sedici/diciassette anni, in piena crisi ormonale. Come avremmo potuto sottrarci al fascino indiscutibile di Renton e Sick Boy, all'apice della loro giovinezza? Due ragazzi così belli che non perdono il loro carisma neppure quando vengono mostrati vomitanti, drogati, schifati dalle ragazze, letteralmente coperti di merda, ma non è una cosa assurda? Eppure Danny Boyle mette in scena senza troppi fronzoli tutto lo schifo della loro non-vita, prende tutta la curiosità che potrebbe suscitare l'idea di provare "un orgasmo moltiplicato mille volte" e la ricaccia in gola allo spettatore facendogli passare ogni velleità di provare ad infilarsi un ago in vena. Boyle (assieme a Welsh, per carità) cattura lo squallore di una triste realtà scozzese e lo rende stiloso senza privarlo dell'incredibile senso di vuoto e tristezza che lo caratterizza, creando un film stupendo e disturbante che non poteva non penetrare nella testa e nel cuore di un'adolescente che negli anni '90 stava cercando di uscire dal guscio creato da un ambiente non dissimile da quello frequentato da Renton e soci: va bene, noi non avevamo i treni da veder passare ma io avevo un intero prato (non parco. Prato, è diverso) davanti a casa dove al mattino non era difficile trovare siringhe e affini, ché il disagio pre-nuovo millennio si sentiva tanto a Luceto quanto ad Edimburgo. Avevo le stesse paure e i medesimi dubbi di Renton, come chiunque altro alla mia età. Choose Life, quale aberrazione. Che significa choose life? Una vita banale e noiosa, famiglia, casa, lavoro e TV invece di, chessò, viaggi intorno al mondo, un'esistenza da artista bohémien, la possibilità di passare da un uomo all'altro manco fossi stata figa? Ma che orrore, la non-vita dei nostri genitori, consumata nello stare dietro al mutuo da pagare, ai problemi quotidiani, al rispetto delle regole, ai figli ingrati, sempre frenata da paletti invisibili e limiti invalicabili. Eppure. Eppure la libertà forse è anche quella di crescere e "mettere la testa a posto", afferrando con le unghie e con i denti quello che è importante per noi e al diavolo quello che pensano gli altri, la "società che non esiste" o i "so-called friends".
Le (dis)avventure al limite del picaresco di Renton e soci sono passate alla storia perché sono grottesche ma realistiche, perché sono il viaggio allucinante di una testa matta, di un narratore inattendibile che per quanto sia sfatto e stronzo non può che starci simpatico. Perché, in soldoni, Renton siamo noi. Pieni di dubbi, timorosi della solitudine al punto da circondarci delle peggio persone per non ascoltare i pensieri ansiogeni, il terrore di crescere (sì, anche quando superiamo i trent'anni, fidatevi) e quella maledetta voce che ci ricorda di essere dei falliti in un modo o nell'altro, sempre e comunque; mica tutti, infatti, hanno la sicurezza di un Begbie o un Sick Boy, che affrontano la vita violentandola, oppure l'ingenuità fastidiosa di uno Spud, che probabilmente il cervello non ce l'ha neppure, figurati se riesce a sentire le voci. Molto spesso, ci ritroviamo ad essere Renton, costantemente in bilico tra la nostra parte buona e quella cattiva o, ancora peggio, Tommy, costretti a pagare per un unico, fatale errore compiuto in un momento di disperazione. Qualche giorno fa parlavo, seduta ad un tavolo sorseggiando un borghesissimo spritz durante un ancor più borghese aperitivo, assieme alla mia migliore amica di allora (ciao Noruzza, ti adoro), a suo marito e al mio ragazzo (c'era anche Filippo, patatino, ma lui non parla ancora e fa tanta nanna), di come probabilmente se avessimo visto Trainspotting oggi non ci avrebbe segnato per nulla, tanto i tempi sono cambiati, e probabilmente l'avremmo liquidato come un film ben diretto, simpatico, ma nulla più. Una sorta di Snatch tra drogati, si potrebbe dire. E invece ne parliamo ancora adesso dopo vent'anni, citandone frasi e sequenze a memoria, sfruttandolo per termini di paragone, probabilmente guardando al ritorno delle Gazelle come un presagio di tempi migliori, durante i quali potremo sentirci più giovani alla faccia della vita. Che poi così schifo non fa, suvvia, soprattutto se si ha avuto la fortuna di venire formati da pellicole come questa.
Del regista Danny Boyle ho già parlato QUI. Ewan McGregor (Renton), Ewen Bremner (Spud), Jonny Lee Miller (Sick Boy), Kevin McKidd (Tommy), Robert Carlyle (Begbie), Kelly MacDonald (Diane) e Shirley Henderson (Gail) li trovate invece ai rispettivi link.
Peter Mullan interpreta Swanney, alias Madre Superiora. Scozzese, ha partecipato a film come Piccoli omicidi tra amici, Braveheart - Cuore impavido, Harry Potter e i doni della morte - Parte I e War Horse. Anche regista, sceneggiatore e produttore, ha 58 anni e quattro film in uscita.
Lo scrittore Irvine Welsh interpreta il pusher Mikey. Purtroppo non posso delucidarvi sulle differenze tra libro e film in quanto non ho mai letto il libro di Welsh (shame on me!) e, nell'attesa di dirvi se T2 - Trainspotting merita o meno, nel caso Trainspotting vi fosse piaciuto consiglio il recupero di Arancia meccanica, Piccoli omicidi tra amici, Gridlock'd e Requiem for a Dream. ENJOY!
mercoledì 26 agosto 2015
Perfect Sense (2011)
Una delle cose più belle per me è guardare i film senza sapere quasi nulla della trama prima di accingermi alla visione. E' così che ho avuto modo di scoprire e gustare Perfect Sense, diretto nel 2011 dal regista David Mackenzie.
Trama: uno chef e una ricercatrice si conoscono e s'innamorano proprio mentre nel mondo sta scoppiando una strana epidemia...
Nonostante abbia adorato Perfect Sense questa sarà una recensione brevissima perché la cosa bella del film di David Mackenzie è gustarselo da soli ed apprezzarne le peculiarità, a poco a poco. Non parlerò della trama particolarissima, né del modo assai intelligente in cui il regista consente allo spettatore di seguire con pochissime immagini simboliche sia il progressivo diffondersi della pandemia in tutto il mondo, sia la vicenda personale di Susan, Michael e delle poche persone che stanno loro accanto, perché ogni parola in più rappresenterebbe un tremendo rischio di spoiler. Allo stesso modo, non parlerò del modo infingardo in cui i diversi stadi della malattia riescono a colpire al cuore lo spettatore costringendolo a porsi delle domande "scomode" ed inquietanti prima di portarlo a mettere mano ai fazzoletti e pregare perché almeno a Susan e Michael vada tutto per il meglio. Non parlerò del modo in cui Mackenzie è riuscito a rendere coinvolgenti e plausibili anche delle sequenze che in un film diverso sarebbero potute risultare esagerate e persino ridicole, né della storia anche troppo "stereotipata" dei due protagonisti perché il loro rapporto è e allo stesso tempo non è il fulcro di questo mix tra fantascienza, horror e dramma.
Posso però dire che Ewan McGregor ed Eva Green non sono solo bellissimi e dolorosamente sexy quando i loro corpi si incontrano e si uniscono ma sono anche terribilmente bravi nei momenti di solitario sconforto e ineffabile terrore. Posso dire che la fotografia di Giles Nuttgens, quasi interamente virata nei toni grigi e uggiosi tipici di una giornata di pioggia inglese, è perfetta per rappresentare gli stati d'animo dei protagonisti e dell'intera popolazione mondiale man mano che la malattia progredisce. Posso dire che le melodie di Max Richter si insinuano nel cuore dello spettatore fino a farlo scoppiare, coinvolgendolo quasi più della storia narrata e delle immagini mostrate, tanto che nel momento in cui queste vengono a mancare sembra davvero di avere perso qualcosa di importante. Posso infine concludere questo stranissimo, atipico post chiedendovi di fidarvi e recuperare questo piccolo, disperato gioiellino che dalle nostre parti è stato ovviamente snobbato persino per quel che riguarda il mercato dell'home video. E' un peccato, perché Perfect Sense non è sicuramente un film per tutti ma molti spettatori potrebbero rimanerne conquistati com'è successo a me... quindi, perché privarli di questa opportunità?
Di Eva Green (Susan), Ewan McGregor (Michael), Connie Nielsen (Jenny) e Ewen Bremner (James) ho già parlato ai rispettivi link.
David Mackenzie è il regista della pellicola. Inglese, ha diretto film come Young Adam, Hallam Foe e Il ribelle - Starred Up. Anche sceneggiatore e produttore, ha 49 anni e un film in uscita.
Denis Lawson, che interpreta il capo di Ewan McGregor, nella vita reale è suo zio. A parte questa piccola curiosità, se Perfect Sense vi fosse piaciuto recuperate Blindness, Contagious: Epidemia mortale e Contagion. ENJOY!
Trama: uno chef e una ricercatrice si conoscono e s'innamorano proprio mentre nel mondo sta scoppiando una strana epidemia...
Nonostante abbia adorato Perfect Sense questa sarà una recensione brevissima perché la cosa bella del film di David Mackenzie è gustarselo da soli ed apprezzarne le peculiarità, a poco a poco. Non parlerò della trama particolarissima, né del modo assai intelligente in cui il regista consente allo spettatore di seguire con pochissime immagini simboliche sia il progressivo diffondersi della pandemia in tutto il mondo, sia la vicenda personale di Susan, Michael e delle poche persone che stanno loro accanto, perché ogni parola in più rappresenterebbe un tremendo rischio di spoiler. Allo stesso modo, non parlerò del modo infingardo in cui i diversi stadi della malattia riescono a colpire al cuore lo spettatore costringendolo a porsi delle domande "scomode" ed inquietanti prima di portarlo a mettere mano ai fazzoletti e pregare perché almeno a Susan e Michael vada tutto per il meglio. Non parlerò del modo in cui Mackenzie è riuscito a rendere coinvolgenti e plausibili anche delle sequenze che in un film diverso sarebbero potute risultare esagerate e persino ridicole, né della storia anche troppo "stereotipata" dei due protagonisti perché il loro rapporto è e allo stesso tempo non è il fulcro di questo mix tra fantascienza, horror e dramma.
Posso però dire che Ewan McGregor ed Eva Green non sono solo bellissimi e dolorosamente sexy quando i loro corpi si incontrano e si uniscono ma sono anche terribilmente bravi nei momenti di solitario sconforto e ineffabile terrore. Posso dire che la fotografia di Giles Nuttgens, quasi interamente virata nei toni grigi e uggiosi tipici di una giornata di pioggia inglese, è perfetta per rappresentare gli stati d'animo dei protagonisti e dell'intera popolazione mondiale man mano che la malattia progredisce. Posso dire che le melodie di Max Richter si insinuano nel cuore dello spettatore fino a farlo scoppiare, coinvolgendolo quasi più della storia narrata e delle immagini mostrate, tanto che nel momento in cui queste vengono a mancare sembra davvero di avere perso qualcosa di importante. Posso infine concludere questo stranissimo, atipico post chiedendovi di fidarvi e recuperare questo piccolo, disperato gioiellino che dalle nostre parti è stato ovviamente snobbato persino per quel che riguarda il mercato dell'home video. E' un peccato, perché Perfect Sense non è sicuramente un film per tutti ma molti spettatori potrebbero rimanerne conquistati com'è successo a me... quindi, perché privarli di questa opportunità?
Di Eva Green (Susan), Ewan McGregor (Michael), Connie Nielsen (Jenny) e Ewen Bremner (James) ho già parlato ai rispettivi link.
David Mackenzie è il regista della pellicola. Inglese, ha diretto film come Young Adam, Hallam Foe e Il ribelle - Starred Up. Anche sceneggiatore e produttore, ha 49 anni e un film in uscita.
Denis Lawson, che interpreta il capo di Ewan McGregor, nella vita reale è suo zio. A parte questa piccola curiosità, se Perfect Sense vi fosse piaciuto recuperate Blindness, Contagious: Epidemia mortale e Contagion. ENJOY!
venerdì 5 aprile 2013
Il cacciatore di giganti (2013)
Colma di dubbi mercoledì sono entrata in sala di soppiatto per vedere l’ennesima fiaba portata sul grande schermo, ovvero Il cacciatore di giganti (Jack the Giant Slayer), diretto da Bryan Singer.
Trama: Jack è un povero contadinello che un giorno riceve da un monaco un sacchetto di fagioli assieme ad un’unica raccomandazione: non bagnarli. Quando in una sera di pioggia la Principessa Isabel bussa inaspettatamente alla sua porta, uno dei fagioli si bagna e la poveretta viene scagliata in cielo, con tutta la casetta di Jack, dalla pianta ipertrofica. Jack si precipita a salvare la fanciulla assieme a un manipolo di soldati e un pretendente fedifrago, ma non immagina certo che in cima al fagiolone troverà i malvagi Giganti delle leggende…
Posso dirlo? Finalmente!!!!! Finalmente una fiaba modificata soltanto il minimo indispensabile (è l'unione della famosa fiaba Jack e la pianta di fagioli e della più "arturiana" Jack the Giant Killer), senza sfumature gotiche, riletture moderne, sequel, prequel e chi più ne ha più ne metta! Il cacciatore di giganti sarà anche il fracassone trionfo della CGI ma è innanzitutto un sano, divertente, necessario ritorno alle avventure e alle favole che tanto ci piacevano da piccini, con eroi che fanno gli eroi, re che governano anche se imperfetti, principesse che mantengono la loro femminilità e il loro rango anche se vorrebbero essere parte attiva del regno, cattivi da operetta ma comunque stronzi ed esseri sovrumani pericolosissimi. Mi sono divertita a guardare Il cacciatore di giganti, non me ne vergogno affatto, ho svuotato il cervello da tutti i pensieri e mi sono lasciata trasportare dalla trama semplice, lineare, prevedibilissima, radicata nei topoi ancestrali della fiaba e portatrice dei soliti, eterni e disneyani valori che sono fondamento della crescita dei pargoli da tempo immemorabile.
Quanto alla realizzazione, l’intero ensemble richiama Il signore degli Anelli, a partire dalla corona fiammeggiante portata al dito da uno dei Giganti per arrivare agli occhioni “gollumeschi” di quello a due teste, ma in generale la CGI non è così fastidiosa come mi sarei aspettata e, combinata con la sapiente regia di Singer, regala un paio di sequenze veramente belle, comprese quelle della scalata e discesa dalla gigantesca, dettagliatissima pianta di fagioli e quella della battaglia finale al Castello, dove il binomio morte & distruzione la fa letteralmente da padrone. Ammetto però che all’inizio mi sono quasi alzata per uscire dalla sala. A differenza de Il grande e potente Oz, che aveva un’introduzione spettacolare e si ammosciava proseguendo, Il cacciatore di giganti parte invece con un orrendo prologo completamente digitale che risulta legnoso, freddo e fasullo come se l’avessero fatto degli studentelli alle prime armi, una sorta di flashback che, per fortuna, viene presto eclissato dall’intelligente montaggio che racconta in parallelo l’infanzia di Jack ed Isabel, provenienti da due mondi lontani ma accomunati dai medesimi sogni. Piacevolissima anche la prova degli attori: Ewan McGregor è un guasconotto figo da far paura, i due protagonisti sono un po' inespressivi quindi perfetti per il ruolo dell'eroe e della principessa belloccetti, Stanley Tucci è effettivamente sprecato ma compensa con abbondante dose di malvagità e Ian McShane è un credibilissimo Re coraggioso ma freddo, una di quelle figure regali e ambigue, alle quali si impara a portar rispetto col passare del tempo. Simpatici anche i giganti, molto ben fatti e a tratti anche spaventosi, ma la parte migliore del film è sicuramente il finale, che si ricollega in modo molto intrigante all'epoca moderna... e lascia lo spettatore più fantasioso con una carrellata verso l'alto che potrebbe anche far presagire un sequel. Chissà. A me basta questo, per una serata di relax va benissimo così.
Del regista Bryan Singer ho già parlato qui. Ewan McGregor (Elmont), Stanley Tucci (Roderick), Eddie Marsan (Crawe), Ian McShane (Re Brahmwell), Warwick Davis (Old Hamm) e Bill Nighy (che da la voce al gigante dalle due teste, Fallon) li trovate invece ai rispettivi link.
Nicholas Hoult interpreta Jack. Inglese, ha partecipato a film come X-Men – L’inizio, Warm Bodies e ha doppiato un episodio di Robot Chicken. Ha 24 anni e tre film in uscita, tra cui Mad Max: Fury Road e X-Men – Giorni di un futuro passato, dove riprenderà il ruolo di Bestia.
Eleanor Tomlinson interpreta Isabel. Inglese, ha partecipato a film come The Illusionist, Alice in Wonderland ed Educazione siberiana. Ha 21 anni e due film in uscita.
Ewen Bremner interpreta Wicke. Indimenticato Spud di Trainspotting, l’attore scozzese ha partecipato a film come Dredd – La legge sono io, Snatch – Lo strappo, Il giro del mondo in 80 giorni, Alien vs Predator, Match Point e alla serie My Name is Earl. Ha 41 anni e due film in uscita.
Tra gli altri interpreti segnalo inoltre la presenza di Ralph Brown, già Bob nell’esilarante I love Radio Rock, qui nei panni del monocolato Generale Entin. Se il film vi fosse piaciuto consiglio infine la visione di Legend, La storia fantastica e magari King Kong, perché no! ENJOY!
Trama: Jack è un povero contadinello che un giorno riceve da un monaco un sacchetto di fagioli assieme ad un’unica raccomandazione: non bagnarli. Quando in una sera di pioggia la Principessa Isabel bussa inaspettatamente alla sua porta, uno dei fagioli si bagna e la poveretta viene scagliata in cielo, con tutta la casetta di Jack, dalla pianta ipertrofica. Jack si precipita a salvare la fanciulla assieme a un manipolo di soldati e un pretendente fedifrago, ma non immagina certo che in cima al fagiolone troverà i malvagi Giganti delle leggende…
Posso dirlo? Finalmente!!!!! Finalmente una fiaba modificata soltanto il minimo indispensabile (è l'unione della famosa fiaba Jack e la pianta di fagioli e della più "arturiana" Jack the Giant Killer), senza sfumature gotiche, riletture moderne, sequel, prequel e chi più ne ha più ne metta! Il cacciatore di giganti sarà anche il fracassone trionfo della CGI ma è innanzitutto un sano, divertente, necessario ritorno alle avventure e alle favole che tanto ci piacevano da piccini, con eroi che fanno gli eroi, re che governano anche se imperfetti, principesse che mantengono la loro femminilità e il loro rango anche se vorrebbero essere parte attiva del regno, cattivi da operetta ma comunque stronzi ed esseri sovrumani pericolosissimi. Mi sono divertita a guardare Il cacciatore di giganti, non me ne vergogno affatto, ho svuotato il cervello da tutti i pensieri e mi sono lasciata trasportare dalla trama semplice, lineare, prevedibilissima, radicata nei topoi ancestrali della fiaba e portatrice dei soliti, eterni e disneyani valori che sono fondamento della crescita dei pargoli da tempo immemorabile.
Quanto alla realizzazione, l’intero ensemble richiama Il signore degli Anelli, a partire dalla corona fiammeggiante portata al dito da uno dei Giganti per arrivare agli occhioni “gollumeschi” di quello a due teste, ma in generale la CGI non è così fastidiosa come mi sarei aspettata e, combinata con la sapiente regia di Singer, regala un paio di sequenze veramente belle, comprese quelle della scalata e discesa dalla gigantesca, dettagliatissima pianta di fagioli e quella della battaglia finale al Castello, dove il binomio morte & distruzione la fa letteralmente da padrone. Ammetto però che all’inizio mi sono quasi alzata per uscire dalla sala. A differenza de Il grande e potente Oz, che aveva un’introduzione spettacolare e si ammosciava proseguendo, Il cacciatore di giganti parte invece con un orrendo prologo completamente digitale che risulta legnoso, freddo e fasullo come se l’avessero fatto degli studentelli alle prime armi, una sorta di flashback che, per fortuna, viene presto eclissato dall’intelligente montaggio che racconta in parallelo l’infanzia di Jack ed Isabel, provenienti da due mondi lontani ma accomunati dai medesimi sogni. Piacevolissima anche la prova degli attori: Ewan McGregor è un guasconotto figo da far paura, i due protagonisti sono un po' inespressivi quindi perfetti per il ruolo dell'eroe e della principessa belloccetti, Stanley Tucci è effettivamente sprecato ma compensa con abbondante dose di malvagità e Ian McShane è un credibilissimo Re coraggioso ma freddo, una di quelle figure regali e ambigue, alle quali si impara a portar rispetto col passare del tempo. Simpatici anche i giganti, molto ben fatti e a tratti anche spaventosi, ma la parte migliore del film è sicuramente il finale, che si ricollega in modo molto intrigante all'epoca moderna... e lascia lo spettatore più fantasioso con una carrellata verso l'alto che potrebbe anche far presagire un sequel. Chissà. A me basta questo, per una serata di relax va benissimo così.
Del regista Bryan Singer ho già parlato qui. Ewan McGregor (Elmont), Stanley Tucci (Roderick), Eddie Marsan (Crawe), Ian McShane (Re Brahmwell), Warwick Davis (Old Hamm) e Bill Nighy (che da la voce al gigante dalle due teste, Fallon) li trovate invece ai rispettivi link.
Nicholas Hoult interpreta Jack. Inglese, ha partecipato a film come X-Men – L’inizio, Warm Bodies e ha doppiato un episodio di Robot Chicken. Ha 24 anni e tre film in uscita, tra cui Mad Max: Fury Road e X-Men – Giorni di un futuro passato, dove riprenderà il ruolo di Bestia.
Eleanor Tomlinson interpreta Isabel. Inglese, ha partecipato a film come The Illusionist, Alice in Wonderland ed Educazione siberiana. Ha 21 anni e due film in uscita.
Ewen Bremner interpreta Wicke. Indimenticato Spud di Trainspotting, l’attore scozzese ha partecipato a film come Dredd – La legge sono io, Snatch – Lo strappo, Il giro del mondo in 80 giorni, Alien vs Predator, Match Point e alla serie My Name is Earl. Ha 41 anni e due film in uscita.
Tra gli altri interpreti segnalo inoltre la presenza di Ralph Brown, già Bob nell’esilarante I love Radio Rock, qui nei panni del monocolato Generale Entin. Se il film vi fosse piaciuto consiglio infine la visione di Legend, La storia fantastica e magari King Kong, perché no! ENJOY!
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