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martedì 11 ottobre 2022

Omicidio nel West End (2022)

Attirata dal cast, mercoledì scorso sono andata al cinema a vedere Omicidio nel West End (See How They Run), diretto dal regista Tom George.


Trama: durante i festeggiamenti per la 100esima rappresentazione di Trappola per topi viene ucciso un membro del cast. Un investigatore alcolizzato, affiancato da una giovane recluta, deve indagare sul misterioso omicidio...


Omicidio nel West End è un piccolo film che, purtroppo, rischia di passare inosservato in queste settimane di uscite veneziane, forse perché l'impianto giallo spinge lo spettatore a considerarlo troppo banale per vederlo in sala. In realtà, pur essendo confortevole quanto una coperta calda, soprattutto ora che si sta avvicinando l'inverno, la struttura di Omicidio nel West End si basa proprio sulla consapevolezza e sulla presa in giro della "banalità" dei gialli classici, quelli che hanno sdoganato il cliché di un omicidio all'interno di un luogo chiuso, con il colpevole smascherato dall'ispettore di turno dopo una riunione di tutti i sospettati, e ci gioca costruendo un'opera metacinematografica e metateatrale. Il luogo del delitto, infatti, è un teatro dove sta andando in scena Trappola per topi, un'opera di Agatha Christie realmente esistente (che, peraltro, è l'unica opera teatrale a non avere mancato uno spettacolo dal giorno di uscita, tranne nel periodo dei lockdown da Covid), e buona parte di ciò che accade nel corso del film viene anticipato in almeno due scene diverse dalla cinica voce narrante di un personaggio che non ama il genere e che, per questo, vorrebbe vederlo rinnovato fino a snaturarlo. Il piglio ironico dell'operazione, le cui atmosfere richiamano spesso il divertentissimo Signori, il delitto è servito, non sminuiscono l'intelligenza di una trama dove tutto torna perfettamente sul finale e che confida molto sulla memoria dello spettatore, prendendolo in giro per la disattenzione con cui, normalmente, ci si approccia ai film ("tanto ricorderanno solo gli ultimi 20 minuti" è una frase che mi ha uccisa dalle risate); inoltre, la sceneggiatura di Mark Chappell riesce, con pochissimi tratti, a rendere interessanti i due personaggi principali e a dare loro una personalità che non sia solo quella di "ispettore" e "agente inesperto".


Certo, un punto in più ai due protagonisti lo dà venire interpretati da due signori attori come Sam Rockwell e Saoirse Ronan, che insieme sono ben assortiti e hanno un'ottima alchimia, soprattutto conferiscono ai rispettivi personaggi delle sfumature malinconiche che concorrono a renderli ancora più tridimensionali. Purtroppo, a tal proposito, il vero difetto di un Omicidio nel West End visto al cinema doppiato in Italia è l'impossibilità di godere di tutti gli accenti originali che dovrebbero essere parte integrante non solo del divertimento dello spettatore ma anche della natura dei singoli personaggi, che messi tutti assieme formano un melting pot linguistico assai interessante. Noi, al solito, dobbiamo "accontentarci" di un mix assai riuscito di regia (e pensare che, fino ad oggi, il britannico Tom George ha diretto solo episodi di serie televisive), scenografie ricchissime di dettagli e fotografia che donano al film una vaga rassomiglianza ai film di Wes Anderson, anche se l'argomento e i personaggi non sono né abbastanza weird né intellettualmente superiori a noi comuni mortali, anzi. Mi scuso per il breve post ma, essendo un giallo, mi tocca mantenere il segreto su moltissimi aspetti, e limitarmi a consigliarvi di andare al cinema e godervi questo piccolo, divertentissimo Omicidio nel West End, soprattutto se amate Agatha Christie


Di Ruth Wilson (Petula Spencer), Adrien Brody (Leo Kopernick), David Oyelowo (Mervyn Cocker-Norris), Saoirse Ronan (Agente Stalker), Sam Rockwell (Ispettore Stoppard) e Shirley Henderson (Agatha Christie) ho già parlato ai rispettivi link.

Tom George è il regista della pellicola. Inglese, al suo primo lungometraggio, lavora anche come sceneggiatore e produttore. 


Harris Dickinson, che interpreta Richard Attenborough, era il figlio di Ralph Fiennes in The King's Man - Le origini. Omicidio nel West End era in cantiere già da anni e, all'epoca, il primo nome fatto per l'Ispettore Stoppard è stato Hugh Grant, affiancato da Keira Knightley come Agente Stalker. Ciò detto, se il film vi fosse piaciuto recuperate Cena con delitto - Knives Out e Signori il delitto è servito. ENJOY!

martedì 7 maggio 2019

Stanlio e Ollio (2018)

Passata la doverosa febbre da Endgame, domenica sono andata al cinema per recuperare Stanlio e Ollio (Stan & Ollie), diretto nel 2018 dal regista Jon S. Baird e tratto dal libro Laurel & Hardy - Thr British Tour di A.J. Marriot.



Trama: Negli anni '50, ormai in declino, Stanlio e Ollio decidono di imbarcarsi in un ultimo tour teatrale, sperando così di poter promuovere un loro futuro film.



Ah, Stanlio e Ollio. Quanti pomeriggi passati a godersi le loro comiche in TV, quante serate a guardare i film, col loro umorismo surreale e delicato, perfetto per tutta la famiglia. Siamo così abituati a vedere lo svanito Stanlio e il burbero Ollio che è difficile pensare l'ovvio: dietro quelle maschere c'erano degli uomini veri, reali, coi loro pregi, i loro difetti e i loro umanissimi problemi. Ecco allora che Stan Laurel era rissoso e schivo, interamente consacrato al lavoro, mentre Oliver Hardy aveva pesanti problemi di salute, amava le donne e le scommesse alle corse, e quest'ultimo binomio lo portava a scialacquare ingenti somme di denaro. E' difficile pensare, anche, che i due potessero stare separati, eppure è successo. Nel 1939 ad Ollio era stato affiancato tale Harry Langdon, un comico americano, poiché il produttore Hal Roach aveva licenziato in tronco Stanlio, giusto per citare un episodio ricordato anche in Stanlio e Ollio; a proposito di questa separazione, nel film si da ad intendere che lo screzio derivante dal "film con l'elefante" (Ollio sposo mattacchione) avesse suggellato la fine del sodalizio artistico tra i due, almeno fino alla fine degli anni '50, ma in verità gli attori hanno continuato a lavorare di coppia, pur con sempre meno successo, per la Fox e la MGM almeno fino al 1946 e l'anno dopo sono partiti per il tour europeo di cui racconta la pellicola di Jon S. Baird, mix tra quella e un altra tournée intrapresa negli anni '50, teatro del commovente episodio irlandese citato anche nel Preacher di Garth Ennis. A prescindere dalle libertà storiche prese da questo Stanlio e Ollio, è innegabile che il film funzioni sia come ritratto del privato dei due famosissimi attori sia come testimonianza di una Hollywood sicuramente più ingenua ma non meno insidiosa, dove le cosiddette "star" altro non erano che carne da macello (soprattutto quelle più sprovvedute) e sicuramente non venivano ripescate, come succede oggi, da reality o altre schifezze simili; la fine di una carriera, decretata dal gusto del pubblico o da scandali più o meno gravi, era il prodromo di indigenza, oblio, depressione e infine morte, tanto che il tour di Stanlio e Ollio risulta più una fuga da un destino ingrato più che una corsa verso un rinnovato successo.


E così, tra la perfetta ricostruzione di gag amatissime dal pubblico, momenti di dolorosa introspezione e la gioia (o forse la fatica?) di indossare la maschera di Stanlio e Ollio per propiziarsi l'amore di persone sconosciute, il film scorre portando il pubblico ad affezionarsi ancor più a questi due uomini in declino, afflitti da amarezza e vecchiaia, portati sul grande schermo da due attori grandissimi e perfetti. Come già accaduto in Bohemian Rhapsody con Rami Malek pronto a restituire agli spettatori la performance soprattutto fisica di Freddy Mercury, Steve Coogan e John C. Reilly si annullano nei tic che hanno reso Stanlio e Ollio famosi ed adorabili in tutto il mondo, come per esempio Stanlio che si spettina i capelli o Ollio che sfarfalla le dita imbarazzato, ma non solo. Coogan e Reilly fanno rivivere Stan Laurel e Oliver Hardy anche e soprattutto al di fuori dello spettacolo; due amici, due uomini diversi e complementari costretti a stare insieme per uno scherzo del destino, due anime in pena prese tra il desiderio di tornare alla ribalta e quello di vivere un'esistenza tranquilla, due attori fatti prigionieri dai loro personaggi iconici, prede di un odi et amo durato quasi mezzo secolo. Ad arricchire ulteriormente la performance degli attori, ci pensano Shirley Anderson e Nina Arianda nei panni delle ultime mogli di Stan e Oliver, caratteri peculiari e tragicomici quanto i mariti, che affrontano ognuna in modo diverso l'idea di celebrità in declino e di uomini che invecchiano senza mai far venir meno l'ingrediente più importante: l'amore. E su questa nota sdolcinata chiudo, consigliandovi senza remore il dolceamaro Stanlio e Ollio. Non so quale effetto avrà avuto sui fan tout court ma per chi, come me, ha sempre apprezzato il duo comico per eccellenza, ha l'effetto di un balsamo nostalgico e chissà che non metta voglia di saperne di più anche a chi, poverello, non ha idea di chi fossero Stanlio e Ollio. A questi ultimi posso solo dire un "oooooh, stupìdi!". Hmp!


Di Steve Coogan (Stan Laurel), John C. Reilly (Oliver Hardy), Shirley Henderson (Lucille Hardy) e Danny Huston (Hal Roach) ho parlato ai rispettivi link.

Jon S. Baird è il regista della pellicola. Scozzese, ha diretto film come Filth ed episodi della serie Vinyl. Anche produttore e sceneggiatore, ha 47 anni.


Se Stanlio e Ollio vi fosse piaciuto potreste riguardare o recuperare le opere citate nel film: i corti La scala musicale e Ospedale di contea assieme ai film Fra' Diavolo e I fanciulli del West, questo tanto per cominciare. Aggiungerei anche la serie Feud, ovviamente. ENJOY!

venerdì 15 settembre 2017

Marie Antoinette (2006)

Ormai un mese fa è passato in TV Marie Antoinette, diretto e sceneggiato nel 2006 dalla regista Sofia Coppola, e finalmente anche io che ho sempre adorato le opere legate alla rivoluzione francese e alla figura dell'iconica regina di Francia sono riuscita a vederlo!


Trama: Maria Antonia d'Asburgo-Lorena, figlia dell'imperatrice d'Austria Maria Teresa, viene promessa in sposa al Delfino Luigi di Francia e mandata a Versailles per il matrimonio. Lì, la giovane Marie Antoinette è costretta a sottostare alla rigida etichetta di corte, a sopportare un marito incapace di toccarla e a subire le maldicenze di nobili e cortigiani...



Guardando Lady Oscar dall'età di sette anni, è normale che sia rimasta affascinata dalle vicende della Rivoluzione Francese e dalla figura di Maria Antonietta, probabilmente la regina più amata/odiata della storia. Chi era davvero Antonietta? La demonessa dello sperpero e della lussuria che teneva in gran dispetto e odio tutto il popolino (pronunciando magari, con rossetto nero d'ordinanza, bufale quali "Il popolo non ha pane? Che mangino brioche!", come accade nella scena più tristemente ironica del film) oppure, semplicemente, una ragazzina ingenua venutasi a trovare nel posto sbagliato al momento sbagliato? La verità, probabilmente, sta nel mezzo anche se ci sono fior di biografie da leggere e sulle quali ragionare, ma sicuramente il ritratto realizzato da Sofia Coppola pende più verso la seconda ipotesi, avvalorata dalla biografia di Antonia Fraser, molto popolare negli USA. La regista, anche in veste di sceneggiatrice, ci mostra fin dall'inizio Maria Antonietta come una ragazzina di buon cuore catapultata in un mondo ostile e spersonalizzante: la ragazza, penultima di sedici figli, è stata ceduta dalla madre come "oggetto" per suggellare l'alleanza tra Francia e Impero Austriaco e viene di fatto abbandonata alla mercé di una Corte sconosciuta, totalmente disinteressata ad Antonietta come "persona". Ad appena quattordici anni, la futura regina di Francia viene da una parte allettata dalla promessa di una vita fatta di agi e lussi, dall'altra la sua natura di donna e il suo valore come essere umano vengono subordinati alla sua capacità di mettere al mondo un erede e di invogliare in primis il Delfino di Francia a giacere con lei, così da adempiere ai suoi doveri. Di fatto, l'unico modo per mantenere un vincolo tra Francia e Austria era proprio dare alla luce un bambino figlio di entrambi i regni, in caso contrario Maria Antonietta sarebbe diventata inutile e probabilmente Re Luigi XV (che già avrebbe dovuto sposare una delle figlie più anziane di Maria Teresa, rimasta sfigurata dal vaiolo) l'avrebbe rimandata dritta a casa dall'Imperatrice; vinta dallo sconforto, dalle parole fredde della madre, dal disinteresse del futuro Luigi XVI, dall'insofferenza verso una vita fatta di regole rigide e protocolli di ferro, ad Antonietta non rimane altra possibilità che fare come qualsiasi ragazza moderna, ovvero darsi allo shopping, ai peccati di gola, alle feste, a tutto ciò che potrebbe darle un'illusione di libertà e felicità, per quanto momentanea.


Sofia Coppola si concentra quindi sull'aspetto più "Bling Ring" della vita di Maria Antonietta, soprattutto nella prima parte del film, accentuandone la frivola modernità con i tanto discussi ammiccamenti alla moda contemporanea (ah, quelle Converse, quei coloratissimi macaron di Ladurée, per non parlare della colonna sonora!) e sorvolando su episodi iconici della vita della sovrana, più legati ad una questione sociale, in primis la famigerata vicenda della collana. A dire il vero, probabilmente per lo spettatore che non conosce a menadito tutte le vicende che hanno portato alla Rivoluzione Francese risulterà anche difficile capire perché ad un certo punto i popolani vorrebbero fare fuori Antonietta e i suoi famigliari, visto che i pesanti problemi di deficit e lo squilibrio tra nobili e il cosiddetto "terzo stato" vengono appena accennati nel film, ma è anche questa scelta a rendere affascinante la pellicola della Coppola. La regia elegante e il montaggio vorticoso, la sovrabbondanza di dettagli per quel che riguarda scenografie e costumi, che inghiottono letteralmente la protagonista, e la fotografia dai colori accesi trasformano la vera Versailles prima e il vero Petit Trianon poi (se siete stati in entrambi i posti non potrà fare a meno di esplodervi il cuore, io vi avviso) in un limbo atemporale capace di sedare i sensi e placare momentaneamente il dolore, un eden dove le brutture della società non arrivano ma dove bisogna anche faticare per rimanere umani e conservare, paradossalmente, qualcosa che sia possibile definire proprio. La seconda parte, quella che coincide con la maternità e maturità di Antonietta, è ben più malinconica e riflessiva della prima e anche lo stile di regia asseconda questo cambiamento di atmosfera, accompagnando lentamente la Sovrana verso il triste destino prefigurato nel finale con eleganti immagini di morte, tra gramaglie e quadri dove i bimbi ritratti scompaiono come se non fossero mai esistiti, mentre la realtà irrompe con forza e violenza in una vita scandita da riti fasulli e assurdamente coreografati... ma non per questo meno vera.


Capita così che, nonostante liberté, egalité et fraternité siano dei concetti santi e condivisibili, sul finale si arrivi persino a versare qualche lacrima per la bellissima Antonietta della Dunst e per quel babbalone di Jason Schwartzman nei panni di Luigi XVI, alla faccia di tutto il "nulla" di cui abbonda lo stilosissimo Marie Antoinette e di tutta la colorata ricchezza che viene sbattuta in faccia con disprezzo sia allo spettatore che al popolo di Parigi. Gli sguardi malinconici di Kirsten Dunst, il sorriso forzato di chi si impegna con tutta sé stessa per piacere inutilmente, lo sguardo gioioso di chi finalmente ha trovato l'amore vero, che sia di uno svedese tutt'altro che freddo oppure dei propri bambini, persino la forza con la quale la protagonista sceglie di essere, finalmente, Regina di Francia fino all'ultimo sono tocchi di profondità che rendono il personaggio umano ed impossibile da odiare, fin dalla prima scena del film. Anzi, oso dire che Marie Antoinette è un film talmente bello, in ogni suo aspetto, che persino Asia Argento (per quanto cagna maledetta sempre e comunque, in saecula saeculorum, amen) mi è sembrata perfetta nei panni della favorita del re, con la sua naturale volgarità e l'incapacità di proferire verbo in una lingua comprensibile, anche se la povera Du Barry non era certo così vajassa ed ignorante come spesso la si dipinge. A dire il vero, alla Coppola rimprovero solo di avere messo un mollo privo di carisma come Jamie Dornan ad interpretare l'affascinante Conte di Fersen, ché se Lady Oscar avesse visto questo antenato di Mr. Grey probabilmente avrebbe scelto di rimanere uomo per il resto dei suoi giorni. E ora, siccome sto scrivendo troppe cretinate, concludo qui il post, ribadendo la bellezza di Marie Antoinette e consigliandovi di non aspettare troppo per recuperarlo come ho fatto io; nell'attesa che esca L'inganno la settimana prossima potrebbe essere un ottimo antipasto... buono quasi quanto i famosi e proibitivi macaron di Ladurée!


Della regista e sceneggiatrice Sofia Coppola ho già parlato QUI. Kirsten Dunst (Maria Antonietta), Jason Schwartzman (Luigi XVI), Judy Davis (Contessa de Noailles), Rose Byrne (Duchessa de Polignac), Asia Argento (Contessa du Barry), Molly Shannon (Zia Vittoria), Shirley Henderson (Zia Sofia), Danny Huston (Imperatore Giuseppe II), Sebastian Armesto (Conte Louis de Provence), Tom Hardy (Raumont) e Steve Coogan (Ambasciatore Mercy) li trovate ai rispettivi link.

Rip Torn (vero nome Elmore Rual Torn Jr.) interpreta Luigi XV. Americano, ha partecipato a film come Il re dei re, L'uomo che cadde sulla Terra, Coma profondo, L'aereo più pazzo del mondo... sempre più pazzo, RoboCop 3, Giù le mani dal mio periscopio, Ancora più scemo, Men in Black, Men in Black II, Palle al balzo - Dodgeball, Men in Black 3 e a serie quali Alfred Hitchcock Presenta, Colombo, Will & Grace e 30 Rock mentre come doppiatore ha lavorato nel film Hercules. Anche regista e produttore, ha 86 anni.


Jamie Dornan interpreta il Conte Hans Axel Von Fersen. Irlandese, meglio conosciuto come Mr. Grey di Cinquanta sfumature di grigio e Cinquanta sfumature di nero, ha partecipato a serie quali C'era una volta. Ha 35 anni e cinque film in uscita.


Il film ha vinto giustamente un Oscar per i Migliori Costumi, andato nelle sante mani di Milena Canonero. La parte di Luigi XV era stata offerta ad Alain Delon il quale però ha rifiutato, sentendosi inadatto al ruolo; per problemi di impegni pregressi, invece, sia Angelina Jolie che Catherine Zeta-Jones hanno dovuto rinunciare ad interpretare la Contessa du Barry, lasciando così tristemente il posto ad Asia Argento mentre a Judy Davis, che è finita a interpretare la Contessa de Noailles, era stato offerto il ruolo di Maria Teresa D'Austria. Se Marie Antoinette vi fosse piaciuto dovete OVVIAMENTE recuperare lo splendido anime Lady Oscar (o il manga di Ryoko Ikeda e magari anche Innocent di Shin'Ichi Sakamoto) e aggiungere L'intrigo della collana, giusto per completare un pezzetto di storia che nel film della Coppola manca. ENJOY!

mercoledì 5 luglio 2017

Okja (2017)

Spinta dalle recensioni positive (una, bellissima, è quella di Lucia) e dal fatto di avere finalmente Netflix, qualche giorno fa ho recuperato Okja, scritto e diretto dal regista Bong Joon-Ho.


Trama: una ragazzina coreana deve cercare di liberare il maiale gigante Okja dalle grinfie della multinazionale che ha creato lui e i suoi simili.


Dopo aver visto Okja mi vergogno quasi a dirlo ma io sono carnivora. Non onnivora, proprio carnivora. Dopo due settimane passate in Giappone praticamente senza mangiare nemmeno un pezzetto di ciccia che non fosse raro e triste pollo ho sbranato la casalinga fettina di vitello con gusto estremo. E mi sento molto merda a scrivere questa cosa, non tanto per i miei livelli di salute (per la cronaca, al momento sto benissimo, analisi a posto, grazie) ma proprio perché sono consapevole di ciò che è accaduto all'animaletto che sto ingerendo, non mi nascondo dietro il dito dell'ignoranza né dietro alla concezione SakiHiwatariana del "la mucca ti ringrazia perché non stai sprecando la sua vita e la trasformi in energia per le tue cellule", mi rendo conto da sola che se la mucca potesse parlare mi manderebbe a cagare assieme a tutto ciò che compone il mio organismo e non parliamo poi di quello che mi direbbe il maiale. Ecco, no, parliamo del maiale, anzi, del super-maiale. Okja. Il protagonista di questo film, creato "biologicamente" da una multinazionale per superare il problema della fame nel mondo. Prometto che non aprirò la parentesi del bio e di quello che le persone comprano spendendo una fraccata di soldi solo grazie a quest'etichetta, probabilmente mangerebbero anche mia nonna se le tagliassi delle fettine di chiappa e le mettessi sul mercato assicurandone la natura BIO. Orto bio. Comunque, tornando al film, la multinazionale Mirando Corporation ha scoperto questi maiali giganti assolutamente bio (sì, credici) e ha concesso a ventisei allevatori diversi di tirarne su altrettanti esemplari, così da poter decretare il miglior super-maiale nel giro di una decina d'anni e cominciare a venderli ai consumatori sbavanti. Uno di questi maiali, Okja, viene cresciuto in Corea da un vecchio allevatore che ha una nipotina, Mija, un'orfanella che giustamente riversa sulla creatura tutto l'affetto e l'innocenza di una bimba solitaria trasformandola in qualcosa di più di una maxisalsiccia destinata a finire sul mercato mondiale. Il problema è che Okja, dieci anni dopo, viene incoronata "miglior maiale" e viene portata via dalla sua casa, con conseguente sconforto della piccola Mija, la quale scopre che il nonno non ha mai neppure provato ad acquistare la creatura dalla Mirando Corporation, come invece aveva fatto credere alla bambina. Questi sono i presupposti di un'avventura che porta Mija a scappare di casa per inseguire Okja fino in America, il problema è che la pellicola di Joon-Ho Bong non è un'avventura allegra e spensierata, lo avrete già capito.


Sul suo cammino, Mija trova infatti i peggiori adulti possibili, a partire proprio dal nonno, ma non solo. Accanto ad esseri palesemente abietti come il veterinario televisivo Johnny Wilcox e le folli Lucy e Nancy Mirando, immediatamente inseribili nel novero dei "cattivi" tout court, ci sono anche gli animalisti che dovrebbero essere buoni ma fondamentalmente sfruttano la povera Mija per i loro fini, per quanto nobili; nel corso della pellicola, Mija viene sottovalutata e presa in giro da tutti in primis perché è piccola e "non capirebbe" ma il confronto con l'"altro" passa anche attraverso una barriera linguistica invalicabile, tutti "paletti" che trasformano l'impresa della bambina in un viaggio verso una terra ostile, incomprensibile e violenta, in aperto contrasto con una natura quasi incontaminata dove per parlare a chi è diverso basta il cuore. Per sopravvivere alla follia di una società moderna fatta di contraddizioni, sceneggiate costruite a tavolino per non turbare gli animi sensibili e gente che nasconde la testa sotto la sabbia come gli struzzi, persino Mija è costretta a scendere a compromessi e soprattutto a comprendere i meccanismi che governano la nostra società, così da riuscire a salvare perlomeno il suo piccolo mondo e la propria innocenza, ma il finale di Okja è uno dei più atroci e crudelmente realistici mai mostrati su schermo. Da spettatrice e da carnivora ipocrita ho fatto fatica a guardare tutto ciò che Joon-Ho Bong sceglie di mostrare agli spettatori e a Mija, tutte le brutture a cui viene sottoposta la povera Okja, quell'orrendo spettacolo capace di richiamare alla mente un olocausto umano e ben radicato nella nostra memoria storica, persino i lividi che rimedia la bambina ad ogni passo del suo faticoso percorso verso la libertà e la salvezza del suo amico animale.


Giustamente Joon-Ho Bong deve avere pensato che una simile violenza fosse necessaria per raggiungere le nostre coscienze addormentate ma la verità è che il regista coreano è soprattutto un fine poeta e un Autore con la A maiuscola, capace di portarci a provare per Okja lo stesso affetto che proveremmo verso una creatura reale. E Okja, di fatto, E' reale, un miracolo di computer graphic che non sembra posticcio neppure per un istante, talmente ben integrata con ciò che la circonda da rendere plausibile persino il dolce omaggio iniziale a Il mio vicino Totoro; Okja è vera, conseguentemente risultano veri anche i suoi tristi compagni di sventura, sottoposti a torture inenarrabili, e il nostro cuore arriva a piangere per ognuno di loro, anche se non hanno nome. E' un vero peccato che Okja sia un film disponibile solo su Netflix perché una distribuzione cinematografica renderebbe giustizia ad alcune delle scene d'azione più belle mai girate, una su tutte la concitatissima fuga al supermercato dove tutti i coinvolti, animale compreso, sembrano farsi incredibilmente male, oppure il terribile inseguimento dopo la parata, per arrivare al pluricitato e cupo finale, dove ogni dettaglio dovrebbe imprimersi a fuoco nella mente dello spettatore in saecula saeculorum. Come già avevo scritto nella recensione di Train to Busan, un film come Okja riesce a dare dei punti a qualsiasi blockbuster occidentale mescolando sapiente tecnica artistica al cuore pulsante di una sceneggiatura semplice ma profonda, che rielabora cliché universali in un modo tutto nuovo e parla al mondo intero non solo grazie all'ausilio di bravissimi attori occidentali ma anche e soprattutto grazie al musetto espressivo di una ragazzina bellissima e coraggiosa, con due occhioni addolorati che spezzerebbero il cuore a un sasso. Io mi fermo qui ma avrete capito che Okja è un film splendido che merita di essere visto da chiunque e lo consiglio spassionatamente, anche se rischia di farvi diventare vegani. Faccio solo un appunto agli adattatori italiani: ma perché mettere in bocca ai personaggi frasi come "Cerca di imparare l'italiano, ti sarà molto utile!" quando Mija va a New York? E andiamo, su...


Di Tilda Swinton (Lucy e Nancy Mirando), Giancarlo Esposito (Frank Dawson), Jake Gyllenhaal (Johnny Wilcox), Shirley Henderson (Jennifer), Paul Dano (Jay), Daniel Henshall (Blond) e Lily Collins (Red) ho già parlato ai rispettivi link.

Joon-Ho Bong è il regista e sceneggiatore della pellicola. Sud Coreano, ha diretto film come The Host e Snowpiercer. Anche attore e produttore, ha 48 anni e un film in uscita.


Nei panni di K avrete notato l'attore Steven Yeun, meglio noto come il Glenn di The Walking Dead. Se Okja vi foste piaciuto provate a recuperare E.T. - L'extraterrestre. ENJOY!


domenica 5 marzo 2017

T2 Trainspotting (2017)

E così, dopo tanto penare, anche io sono riuscita ad andare a vedere T2 Trainspotting, diretto da Danny Boyle, liberamente tratto da Trainspotting e Porno di Irvine Welsh e séguito del cultissimo Trainspotting. Come ne sarò uscita, io che la pellicola del 1996 l'avevo adorata?


Trama: vent'anni dopo la fuga di Renton da Edimburgo, il vecchio Mark torna a casa a seguito della morte della madre. Lì si riunisce a Spud, la cui vita è stata distrutta dall'eroina, e Sick Boy, ora gestore di un pub e colmo di risentimento per il tradimento dell'ex amico, mentre la minaccia di Begbie, appena evaso dal carcere e altrettanto infuriato con Renton, si fa sempre più pressante.


C'è una cosa, in vent'anni, che Renton non ha mai smesso di fare: correre. L'ex tossico che nel 1997 correva per fuggire dalla sicurezza di un grande magazzino, dopo due decenni lo fa su un tapis roulant, per mantenersi in forma, ma i risultati disastrosi sono sempre i medesimi. Si può continuare, per vent'anni, a correre cercando di sfuggire al passato che tenta di venirti a mordere le chiappe, alla nostalgia dei "bei tempi andati", alle dipendenze sbagliate, ad un destino che pare segnato per sempre? Chissà. Probabilmente sono le domande che si è posto Danny Boyle, al quale la cVitica non ha mai smesso di rinfacciare come dopo Trainspotting non avesse più azzeccato un film o quasi, terrificante The Beach in primis, ed eccolo quindi tornare dietro la macchina da presa per raccontarci le vicende di Renton e soci, in una zampata di nostalgia canaglia che ti prende proprio quando non vuoi. Ma attenzione, perché Boyle ha utilizzato un approccio subdolo e, se vogliamo, anche un po' ipocrita/paraculo ma perfettamente in linea con la tristezza dei personaggi della pellicola e, soprattutto, con la tristezza malinconica del pubblico pagante. Quella generazione di trentenni quasi quarantenni che piangono, me compresa, beninteso, gli anni '80, i vecchi film, i vecchi libri, le vecchie sceneggiature, i vecchi calciatori, i vecchi attori, la vecchia moda, i vecchi amici, le serate passate a "parlare invece che mandarsi messaggi su whatsapp o su facebook" e i cui esponenti si trincerano dietro tutti i loro preziosi ricordi manco il passato fosse stato tutto rose e fiori, zeppo di felicità. Ancora una volta, a buona parte di noi manca giusto di spararsi dell'eroina in vena ma per il resto siamo identici a Renton, Spud, Sick Boy e Begbie, un branco di tristi figuri che nella vita non sono riusciti a combinare nulla se non riproporsi, sempre identici a loro stessi, cambiando giusto genere di dipendenza ma lo stesso incapaci di staccarsi da un passato diventato sempre più mitico nelle loro teste. Lo scegli la vita di un tempo, beffardo insulto ad una pubblicità progresso inglese, è diventato un invito a guardare avanti, a staccarsi dal passato e da un presente fatto di ca**ate per concentrarsi su ciò che si vuole davvero, sulle cose, banalmente, importanti come gli affetti veri, che rischiano di passare in un attimo e non tornare più, lasciando solo delle ombre sul muro (che scena, quella!) e dei crudeli rimpianti. Accogliere il passato solo se ci consente di guardare al futuro con occhi diversi, questo sembra volerci urlare Danny Boyle, in ogni fotogramma.


Prima parlavo di ipocrisia/paraculaggine del regista ma in sostanza sono io che non so bene definire la sensazione provata guardando T2. Gli omaggi al primo film ci sono, e in abbondanza, al punto che quando non vengono riproposte intere sequenze ne arrivano altre a proporre varianti minime, quando non c'è la scenografia a tirarci un cazzotto fortissimo allo stomaco (quella maledetta camera di Renton, sempre identica, o il paesaggio scozzese immutato accanto alla fermata del treno) ci pensano dei bastardissimi accenni a quell'incredibile colonna sonora di vent'anni fa oppure dei remix creati ad hoc. Quando non c'è il sorriso mangiam**da di un Ewan McGregor che non sembra invecchiato nemmeno di un giorno arrivano i capelli ossigenati di Sick Boy, almeno i pochi che non sono andati in piazza. Quando non basta tutto questo, c'è la scrittura disordinata di un Ewen Bremner che da solo spezzerebbe il cuore ad un sasso, perché Spud nel primo film sarà anche stato un indegno cogl**ne ma vedere un VECCHIO indegno cogl**ne che è riuscito a sputtanarsi 4.000 sterline in eroina sprofondando negli abissi più abietti della società, abbiate pazienza, mi magona. Quindi, tornando all'"ipocrisia/paraculaggine" di Danny Boyle, forse sarebbe meglio definirla come un tentativo di riversare sullo spettatore le stesse sensazioni scomode ma condivisibili provate dai protagonisti, spingendoli ad esaltarsi come Begbie quando gli viene ricordata l'ormai mitica faccenda del boccale di birra lanciato alla cieca dal soppalco di un pub: al netto dei ventenni che popolavano la sala, i quali probabilmente avranno sentito parlare del primo Trainspotting senza nemmeno averlo visto e chissà cosa si saranno aspettati da questo film, T2 farà breccia essenzialmente nel cuore di chi ha amato il capostipite comprendendone comunque il gioco sottile e di chi ha pregato ardentemente per un sequel che non ne fosse una fotocopia pedissequa. I tempi di Trainspotting non possono più tornare, viene ribadito persino all'interno della pellicola, qualcuno (ma non vi dirò chi tra Renton e gli altri) lo ha capito, qualcun altro non lo capirà mai, qualcun altro accoglierà T2 col sorriso che merita e si asciugherà le lacrime di nostalgica commozione (qui mi tocca alzare la mano) per poi guardare avanti, lasciando i nostri amatissimi tossici ad un destino che è solo il loro, com'è giusto che sia.


Del regista Danny Boyle ho già parlato QUIEwan McGregor (Renton), Ewen Bremner (Spud), Jonny Lee Miller (Simon/Sick Boy), Robert Carlyle (Begbie), Kelly MacDonald (Diane) e Shirley Henderson (Gail) li trovate invece ai rispettivi link.

Comunque loro sono sempre due begli ometti, eh.
Lo scrittore Irvine Welsh torna ovviamente nel breve ruolo di Mikey Forrester. Se T2 Trainspotting vi fosse piaciuto recuperate senza indugio Trainspotting e magari aggiungete la lettura del romanzo omonimo e di Porno, su cui T2 è vagamente basato. ENJOY!


venerdì 3 marzo 2017

Trainspotting (1996)

Non che ce ne fosse bisogno ma in preparazione di T2 - Trainspotting ho deciso di "ripassare" Trainspotting, diretto nel 1996 da Danny Boyle e tratto dal romanzo omonimo di Irvine Welsh. Segue post MOLTO amarcordO...


Trama: Renton, Sick Boy e Spud sono tre giovani scozzesi con un unico interesse, la droga. Tra tentativi di disintossicazione, furti, risse e occasionali scopate, la loro "vita" si consuma portando con sé anche inevitabili tragedie.


Il 4 ottobre 1996 Trainspotting usciva in Italia. Io avevo 15 anni ed ero appena entrata alle superiori, dove cercavo di "disintossicarmi" da un'infanzia e una pre-adolescenza passata praticamente in mezzo ai bricchi, dove al massimo arrivavano gli horror, qualche Dylan Dog, i cartoni animati, un 40 % di musica buona ma popolare (Madonna, Guns'n Roses, Queen, U2) e un 60 % di musica diMMerda truzza da morire. Insomma, nell'allora "grande" Savona passavo giustamente per rozza sfigata, più che "passavo per" diciamo che ERO una rozza sfigata, e ciò si ripercuoteva anche sui miei gusti cinematografici, ça va sans dire. La memoria sta diventando ingannevole ma sono quasi sicura di non essere andata al cinema a vedere Trainspotting e di avere recuperato la videocassetta uscita con Panorama l'anno dopo, o forse addirittura nel 1998, anno in cui avevano riproposto al cinema Arancia meccanica e io mi ero perdutamente innamorata della Settima Arte che conta, quella che meraviglia, sconvolge, spinge alla visione compulsiva anche quando le immagini non sono piacevoli e anzi, ancora oggi non si riescono a guardare. E' buffo pensare che di un film ambientato nel mondo degli eroinomani io non abbia mai visto nemmeno una delle scene in cui Renton e soci si bucano ma se dicessi che quelle sono le sequenze più devastanti di Trainspotting mentirei: vogliamo parlare di baby Dawn, che ancora oggi mi perseguita negli incubi? vogliamo ricordare la worst toilet of Scotland, una roba da conato immediato? vogliamo parlare dello squallore degli ultimi mesi di vita di Tommy? Come già con Arancia meccanica, genitori e amici distanti da quell'idea di cinema mi hanno dato per anni delle botte di pazza, maniaca, pervertita al pensiero che potesse piacermi un film simile ma con quelle che sarebbero poi diventate le mie migliori amiche si poteva parlare con tranquillità e costruire (noi con altri adolescenti sparsi per il mondo) il mito della pellicola di Danny Boyle, le contraddizioni che ne hanno fatto un cult per i decenni a venire e che oggi fanno venire le palpitazioni all'idea di andare a vedere un secondo capitolo.


Le contraddizioni, dicevo. Eravamo ragazzine di sedici/diciassette anni, in piena crisi ormonale. Come avremmo potuto sottrarci al fascino indiscutibile di Renton e Sick Boy, all'apice della loro giovinezza? Due ragazzi così belli che non perdono il loro carisma neppure quando vengono mostrati vomitanti, drogati, schifati dalle ragazze, letteralmente coperti di merda, ma non è una cosa assurda? Eppure Danny Boyle mette in scena senza troppi fronzoli tutto lo schifo della loro non-vita, prende tutta la curiosità che potrebbe suscitare l'idea di provare "un orgasmo moltiplicato mille volte" e la ricaccia in gola allo spettatore facendogli passare ogni velleità di provare ad infilarsi un ago in vena. Boyle (assieme a Welsh, per carità) cattura lo squallore di una triste realtà scozzese e lo rende stiloso senza privarlo dell'incredibile senso di vuoto e tristezza che lo caratterizza, creando un film stupendo e disturbante che non poteva non penetrare nella testa e nel cuore di un'adolescente che negli anni '90 stava cercando di uscire dal guscio creato da un ambiente non dissimile da quello frequentato da Renton e soci: va bene, noi non avevamo i treni da veder passare ma io avevo un intero prato (non parco. Prato, è diverso) davanti a casa dove al mattino non era difficile trovare siringhe e affini, ché il disagio pre-nuovo millennio si sentiva tanto a Luceto quanto ad Edimburgo. Avevo le stesse paure e i medesimi dubbi di Renton, come chiunque altro alla mia età. Choose Life, quale aberrazione. Che significa choose life? Una vita banale e noiosa, famiglia, casa, lavoro e TV invece di, chessò, viaggi intorno al mondo, un'esistenza da artista bohémien, la possibilità di passare da un uomo all'altro manco fossi stata figa? Ma che orrore, la non-vita dei nostri genitori, consumata nello stare dietro al mutuo da pagare, ai problemi quotidiani, al rispetto delle regole, ai figli ingrati, sempre frenata da paletti invisibili e limiti invalicabili. Eppure. Eppure la libertà forse è anche quella di crescere e "mettere la testa a posto", afferrando con le unghie e con i denti quello che è importante per noi e al diavolo quello che pensano gli altri, la "società che non esiste" o i "so-called friends".


Le (dis)avventure al limite del picaresco di Renton e soci sono passate alla storia perché sono grottesche ma realistiche, perché sono il viaggio allucinante di una testa matta, di un narratore inattendibile che per quanto sia sfatto e stronzo non può che starci simpatico. Perché, in soldoni, Renton siamo noi. Pieni di dubbi, timorosi della solitudine al punto da circondarci delle peggio persone per non ascoltare i pensieri ansiogeni, il terrore di crescere (sì, anche quando superiamo i trent'anni, fidatevi) e quella maledetta voce che ci ricorda di essere dei falliti in un modo o nell'altro, sempre e comunque; mica tutti, infatti, hanno la sicurezza di un Begbie o un Sick Boy, che affrontano la vita violentandola, oppure l'ingenuità fastidiosa di uno Spud, che probabilmente il cervello non ce l'ha neppure, figurati se riesce a sentire le voci. Molto spesso, ci ritroviamo ad essere Renton, costantemente in bilico tra la nostra parte buona e quella cattiva o, ancora peggio, Tommy, costretti a pagare per un unico, fatale errore compiuto in un momento di disperazione. Qualche giorno fa parlavo, seduta ad un tavolo sorseggiando un borghesissimo spritz durante un ancor più borghese aperitivo, assieme alla mia migliore amica di allora (ciao Noruzza, ti adoro), a suo marito e al mio ragazzo (c'era anche Filippo, patatino, ma lui non parla ancora e fa tanta nanna), di come probabilmente se avessimo visto Trainspotting oggi non ci avrebbe segnato per nulla, tanto i tempi sono cambiati, e probabilmente l'avremmo liquidato come un film ben diretto, simpatico, ma nulla più. Una sorta di Snatch tra drogati, si potrebbe dire. E invece ne parliamo ancora adesso dopo vent'anni, citandone frasi e sequenze a memoria, sfruttandolo per termini di paragone, probabilmente guardando al ritorno delle Gazelle come un presagio di tempi migliori, durante i quali potremo sentirci più giovani alla faccia della vita. Che poi così schifo non fa, suvvia, soprattutto se si ha avuto la fortuna di venire formati da pellicole come questa.


Del regista Danny Boyle ho già parlato QUI. Ewan McGregor (Renton), Ewen Bremner (Spud), Jonny Lee Miller (Sick Boy), Kevin McKidd (Tommy), Robert Carlyle (Begbie), Kelly MacDonald (Diane) e Shirley Henderson (Gail) li trovate invece ai rispettivi link.

Peter Mullan interpreta Swanney, alias Madre Superiora. Scozzese, ha partecipato a film come Piccoli omicidi tra amici, Braveheart - Cuore impavido, Harry Potter e i doni della morte - Parte I e War Horse. Anche regista, sceneggiatore e produttore, ha 58 anni e quattro film in uscita.


Lo scrittore Irvine Welsh interpreta il pusher Mikey. Purtroppo non posso delucidarvi sulle differenze tra libro e film in quanto non ho mai letto il libro di Welsh (shame on me!) e, nell'attesa di dirvi se T2 - Trainspotting merita o meno, nel caso Trainspotting vi fosse piaciuto consiglio il recupero di Arancia meccanica, Piccoli omicidi tra amici, Gridlock'd e Requiem for a Dream. ENJOY!

venerdì 22 maggio 2015

Il racconto dei racconti (2015)

Approfittando dell'insperata fortuna di trovarmi davanti una settimana ricca per quel che riguarda la programmazione cinematografica savonese, martedì sono andata a vedere Il racconto dei racconti, diretto e co-sceneggiato dal regista Matteo Garrone partendo da tre novelle contenute nell'opera omonima di Giambattista Basile.


Trama: in tre diversi regni vicini, una regina desidera ardentemente rimanere incinta, una principessa viene data in sposa ad un orco e un re si innamora perdutamente di una vecchia, ingannato dalla sua splendida voce..


In questi giorni il Cinema mi sta davvero regalando delle gioie. Prima c'è stato il trionfo di Mad Max: Fury Road, ora lo splendore visivo di questo Il racconto dei racconti, un film talmente bello da non sembrare nemmeno italiano. E invece, per fortuna, a parte gli attori principali (e la splendida fotografia di Peter Suschitzky) con l'ultima pellicola di Garrone si gioca interamente in casa e finalmente possiamo vantarci di quella Bella Italia che dovrebbe essere il nostro fiore all'occhiello nonché il nostro schiaffo morale agli occhi del mondo intero: i personaggi da fiaba de Il racconto dei racconti vivono, soffrono e soprattutto sbagliano nelle magnifiche stanze del Castello di Sammezzano, nel verde del bosco monumentale di Sasseto, tra le mura del Castello di Donnafugata, sulle rocce mozzafiato dove s'arrocca il Castello di Roccascalegna, nelle acque misteriose delle Gole dell'Alcantara, tra le strettissime pareti di roccia di Sovana e Sorano, solo per citare i luoghi che mi sono rimasti più impressi. I re e le principesse che rivivono sul grande schermo indossano abiti sfarzosi, talmente ricchi da lasciare senza parole, e interagiscono con creature fuori dall'immaginazione, le più belle che abbia mai visto in un film italiano: il mostro che sul finale attacca gli albini Eliah e Jonas è un incubo degno di Guillermo Del Toro e il drago che si vede all'inizio è molto, molto più realistico e delicato di quanto potrà mai essere lo Smaug della WETA, per non parlare della raccapricciante pulce formato famiglia del Re di Altomonte, talmente ben fatta da indurre a temere che possa uscire dallo schermo da un momento all'altro. Tutto questo orgoglioso sfoggio di artigianalità italiana viene amalgamato dalla sapiente regia di Garrone, che smussa alcuni difetti e lungaggini insite nella trama regalandoci immagini da imprimere nella mente per non scordarle mai più, in un continuo alternarsi di poesia e trivio, di allegra luce e triste oscurità, di commozione e risate, mentre l'evocativa colonna sonora di Alexandre Desplat culla l'orecchio dello spettatore trasportandolo inconsapevole all'interno di questo mondo che affonda le radici in un passato mai esistito e allo stesso tempo terribilmente familiare.


Avrete notato che, a differenza degli altri post, ho cominciato a parlare de Il racconto dei racconti partendo dalla tecnica mirabolante con cui è stato confezionato. Questo perché, onestamente, mi hanno catturata più le immagini del contenuto ma anche i tre racconti scelti non mi hanno lasciata indifferente, anzi. Finalmente, qualcuno ha avuto le palle di voltare le spalle alla "lezione Disney" e di proporre al pubblico delle fiabe senza snaturarle, lasciando intatta la loro ingenuità e soprattutto la loro terrificante crudeltà. Genitori alla lettura, non azzardatevi a portare i bambini a vedere Il racconto dei racconti: al di là di alcune immagini che ho trovato paurose persino io e di qualche nudo frontal-posteriore (sia benedetto Vincent Cassel e la sua chiappa d'oro) le tre storie selezionate dal cosiddetto "Pentamerone" sono angoscianti perché gettano in faccia allo spettatore tutta la pochezza della razza umana senza alcuna morale di fondo, lasciando i personaggi a subire un triste o mortale destino a causa dell'egoismo e dell'avidità di chi dovrebbe proteggerli e amarli. La regina che non può avere figli e la vecchia Dora sarebbero dei personaggi verso i quali provare pietà ma i loro desideri sono talmente violenti (come giustamente dice l'evocativo Necromante di Franco Pistoni) e loro talmente prive di scrupoli nel tentare di realizzarli che automaticamente la pietà si trasforma in repulsione, soprattutto quando la loro arroganza arriva a danneggiare i più deboli. La regina di Salma Hayek e la vecchia Dora sono due protagoniste complesse e sono in grado di suscitare sentimenti ambivalenti ma la storia che più mi ha toccata nel profondo, facendomi uscire dal cinema con un magone devastante, è quella che racconta di come il Re di Altomonte abbia dato in sposa la figlia Viola ad un orco, un racconto in cui la stupida freddezza di un solo uomo (che preferisce dare attenzioni ad una pulce piuttosto che alla figlia) causa l'infelicità e la morte anche di chi, pur essendo normalmente additato come "malvagio", non avrebbe sicuramente meritato una simile sorte. E qui mi fermo, altrimenti rischio di incappare nei tanto odiati spoiler. Voi invece non lasciatevi scoraggiare da eventuali recensioni tiepide e andate a vedere questo trionfo di fantasia e fiaba tutto italiano: vi assicuro che nessun blockbuster fantasy d'oltreoceano vi lascerà in bocca lo stesso gusto dolceamaro e nostalgico de Il racconto dei racconti!


Di Salma Hayek (Regina di Selvascura), Vincent Cassel (Re di Roccaforte), Toby Jones (Re di Altomonte) e John C. Reilly (Re di Selvascura) ho già parlato ai rispettivi link.

Matteo Garrone è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Originario di Roma, ha diretto film come L'imbalsamatore, Gomorra e Reality. Anche produttore e attore, ha 47 anni.


Shirley Henderson interpreta Imma. Scozzese, ha partecipato a film come Rob Roy, Trainspotting, Il diario di Bridget Jones, Harry Potter e la camera dei segreti, Che pasticcio Bridget Jones!, Harry Potter e il calice di fuoco, Marie Antoinette, Lo schiaccianoci 3D, Anna Karenina e a serie come Doctor Who. Ha 50 anni e un film in uscita.


Alba Rohrwacher interpreta la padrona del circo. Originaria di Firenze, ha partecipato a film come Melissa P., Mio fratello è figlio unico, Caos calmo, La solitudine dei numeri primi, Bella addormentata e Hungry Hearts. Ha 36 anni e tre film in uscita.


Massimo Ceccherini interpreta il padrone del circo. Originario di Firenze, lo ricordo per film come S.P.Q.R. 2000 e 1/2 anni fa, Cari fottutissimi amici, I laureati, Il ciclone, Fuochi d'artificio, Viola bacia tutti, Lucignolo e Faccia di Picasso. Anche regista e sceneggiatore, ha 50 anni.


Stacy Martin, che interpreta la giovane Dora, era la giovane Joe in Nymphomaniac mentre il Necromante altri non è che il meraviglioso Iettatore di Avanti un altro, alias Franco Pistoni. ENJOY!

Qui trovate la recensione di Lucia e quella de I 400 calci, con le quali mi trovo assolutamente d'accordo!

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