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domenica 5 marzo 2017

T2 Trainspotting (2017)

E così, dopo tanto penare, anche io sono riuscita ad andare a vedere T2 Trainspotting, diretto da Danny Boyle, liberamente tratto da Trainspotting e Porno di Irvine Welsh e séguito del cultissimo Trainspotting. Come ne sarò uscita, io che la pellicola del 1996 l'avevo adorata?


Trama: vent'anni dopo la fuga di Renton da Edimburgo, il vecchio Mark torna a casa a seguito della morte della madre. Lì si riunisce a Spud, la cui vita è stata distrutta dall'eroina, e Sick Boy, ora gestore di un pub e colmo di risentimento per il tradimento dell'ex amico, mentre la minaccia di Begbie, appena evaso dal carcere e altrettanto infuriato con Renton, si fa sempre più pressante.


C'è una cosa, in vent'anni, che Renton non ha mai smesso di fare: correre. L'ex tossico che nel 1997 correva per fuggire dalla sicurezza di un grande magazzino, dopo due decenni lo fa su un tapis roulant, per mantenersi in forma, ma i risultati disastrosi sono sempre i medesimi. Si può continuare, per vent'anni, a correre cercando di sfuggire al passato che tenta di venirti a mordere le chiappe, alla nostalgia dei "bei tempi andati", alle dipendenze sbagliate, ad un destino che pare segnato per sempre? Chissà. Probabilmente sono le domande che si è posto Danny Boyle, al quale la cVitica non ha mai smesso di rinfacciare come dopo Trainspotting non avesse più azzeccato un film o quasi, terrificante The Beach in primis, ed eccolo quindi tornare dietro la macchina da presa per raccontarci le vicende di Renton e soci, in una zampata di nostalgia canaglia che ti prende proprio quando non vuoi. Ma attenzione, perché Boyle ha utilizzato un approccio subdolo e, se vogliamo, anche un po' ipocrita/paraculo ma perfettamente in linea con la tristezza dei personaggi della pellicola e, soprattutto, con la tristezza malinconica del pubblico pagante. Quella generazione di trentenni quasi quarantenni che piangono, me compresa, beninteso, gli anni '80, i vecchi film, i vecchi libri, le vecchie sceneggiature, i vecchi calciatori, i vecchi attori, la vecchia moda, i vecchi amici, le serate passate a "parlare invece che mandarsi messaggi su whatsapp o su facebook" e i cui esponenti si trincerano dietro tutti i loro preziosi ricordi manco il passato fosse stato tutto rose e fiori, zeppo di felicità. Ancora una volta, a buona parte di noi manca giusto di spararsi dell'eroina in vena ma per il resto siamo identici a Renton, Spud, Sick Boy e Begbie, un branco di tristi figuri che nella vita non sono riusciti a combinare nulla se non riproporsi, sempre identici a loro stessi, cambiando giusto genere di dipendenza ma lo stesso incapaci di staccarsi da un passato diventato sempre più mitico nelle loro teste. Lo scegli la vita di un tempo, beffardo insulto ad una pubblicità progresso inglese, è diventato un invito a guardare avanti, a staccarsi dal passato e da un presente fatto di ca**ate per concentrarsi su ciò che si vuole davvero, sulle cose, banalmente, importanti come gli affetti veri, che rischiano di passare in un attimo e non tornare più, lasciando solo delle ombre sul muro (che scena, quella!) e dei crudeli rimpianti. Accogliere il passato solo se ci consente di guardare al futuro con occhi diversi, questo sembra volerci urlare Danny Boyle, in ogni fotogramma.


Prima parlavo di ipocrisia/paraculaggine del regista ma in sostanza sono io che non so bene definire la sensazione provata guardando T2. Gli omaggi al primo film ci sono, e in abbondanza, al punto che quando non vengono riproposte intere sequenze ne arrivano altre a proporre varianti minime, quando non c'è la scenografia a tirarci un cazzotto fortissimo allo stomaco (quella maledetta camera di Renton, sempre identica, o il paesaggio scozzese immutato accanto alla fermata del treno) ci pensano dei bastardissimi accenni a quell'incredibile colonna sonora di vent'anni fa oppure dei remix creati ad hoc. Quando non c'è il sorriso mangiam**da di un Ewan McGregor che non sembra invecchiato nemmeno di un giorno arrivano i capelli ossigenati di Sick Boy, almeno i pochi che non sono andati in piazza. Quando non basta tutto questo, c'è la scrittura disordinata di un Ewen Bremner che da solo spezzerebbe il cuore ad un sasso, perché Spud nel primo film sarà anche stato un indegno cogl**ne ma vedere un VECCHIO indegno cogl**ne che è riuscito a sputtanarsi 4.000 sterline in eroina sprofondando negli abissi più abietti della società, abbiate pazienza, mi magona. Quindi, tornando all'"ipocrisia/paraculaggine" di Danny Boyle, forse sarebbe meglio definirla come un tentativo di riversare sullo spettatore le stesse sensazioni scomode ma condivisibili provate dai protagonisti, spingendoli ad esaltarsi come Begbie quando gli viene ricordata l'ormai mitica faccenda del boccale di birra lanciato alla cieca dal soppalco di un pub: al netto dei ventenni che popolavano la sala, i quali probabilmente avranno sentito parlare del primo Trainspotting senza nemmeno averlo visto e chissà cosa si saranno aspettati da questo film, T2 farà breccia essenzialmente nel cuore di chi ha amato il capostipite comprendendone comunque il gioco sottile e di chi ha pregato ardentemente per un sequel che non ne fosse una fotocopia pedissequa. I tempi di Trainspotting non possono più tornare, viene ribadito persino all'interno della pellicola, qualcuno (ma non vi dirò chi tra Renton e gli altri) lo ha capito, qualcun altro non lo capirà mai, qualcun altro accoglierà T2 col sorriso che merita e si asciugherà le lacrime di nostalgica commozione (qui mi tocca alzare la mano) per poi guardare avanti, lasciando i nostri amatissimi tossici ad un destino che è solo il loro, com'è giusto che sia.


Del regista Danny Boyle ho già parlato QUIEwan McGregor (Renton), Ewen Bremner (Spud), Jonny Lee Miller (Simon/Sick Boy), Robert Carlyle (Begbie), Kelly MacDonald (Diane) e Shirley Henderson (Gail) li trovate invece ai rispettivi link.

Comunque loro sono sempre due begli ometti, eh.
Lo scrittore Irvine Welsh torna ovviamente nel breve ruolo di Mikey Forrester. Se T2 Trainspotting vi fosse piaciuto recuperate senza indugio Trainspotting e magari aggiungete la lettura del romanzo omonimo e di Porno, su cui T2 è vagamente basato. ENJOY!


venerdì 3 marzo 2017

Trainspotting (1996)

Non che ce ne fosse bisogno ma in preparazione di T2 - Trainspotting ho deciso di "ripassare" Trainspotting, diretto nel 1996 da Danny Boyle e tratto dal romanzo omonimo di Irvine Welsh. Segue post MOLTO amarcordO...


Trama: Renton, Sick Boy e Spud sono tre giovani scozzesi con un unico interesse, la droga. Tra tentativi di disintossicazione, furti, risse e occasionali scopate, la loro "vita" si consuma portando con sé anche inevitabili tragedie.


Il 4 ottobre 1996 Trainspotting usciva in Italia. Io avevo 15 anni ed ero appena entrata alle superiori, dove cercavo di "disintossicarmi" da un'infanzia e una pre-adolescenza passata praticamente in mezzo ai bricchi, dove al massimo arrivavano gli horror, qualche Dylan Dog, i cartoni animati, un 40 % di musica buona ma popolare (Madonna, Guns'n Roses, Queen, U2) e un 60 % di musica diMMerda truzza da morire. Insomma, nell'allora "grande" Savona passavo giustamente per rozza sfigata, più che "passavo per" diciamo che ERO una rozza sfigata, e ciò si ripercuoteva anche sui miei gusti cinematografici, ça va sans dire. La memoria sta diventando ingannevole ma sono quasi sicura di non essere andata al cinema a vedere Trainspotting e di avere recuperato la videocassetta uscita con Panorama l'anno dopo, o forse addirittura nel 1998, anno in cui avevano riproposto al cinema Arancia meccanica e io mi ero perdutamente innamorata della Settima Arte che conta, quella che meraviglia, sconvolge, spinge alla visione compulsiva anche quando le immagini non sono piacevoli e anzi, ancora oggi non si riescono a guardare. E' buffo pensare che di un film ambientato nel mondo degli eroinomani io non abbia mai visto nemmeno una delle scene in cui Renton e soci si bucano ma se dicessi che quelle sono le sequenze più devastanti di Trainspotting mentirei: vogliamo parlare di baby Dawn, che ancora oggi mi perseguita negli incubi? vogliamo ricordare la worst toilet of Scotland, una roba da conato immediato? vogliamo parlare dello squallore degli ultimi mesi di vita di Tommy? Come già con Arancia meccanica, genitori e amici distanti da quell'idea di cinema mi hanno dato per anni delle botte di pazza, maniaca, pervertita al pensiero che potesse piacermi un film simile ma con quelle che sarebbero poi diventate le mie migliori amiche si poteva parlare con tranquillità e costruire (noi con altri adolescenti sparsi per il mondo) il mito della pellicola di Danny Boyle, le contraddizioni che ne hanno fatto un cult per i decenni a venire e che oggi fanno venire le palpitazioni all'idea di andare a vedere un secondo capitolo.


Le contraddizioni, dicevo. Eravamo ragazzine di sedici/diciassette anni, in piena crisi ormonale. Come avremmo potuto sottrarci al fascino indiscutibile di Renton e Sick Boy, all'apice della loro giovinezza? Due ragazzi così belli che non perdono il loro carisma neppure quando vengono mostrati vomitanti, drogati, schifati dalle ragazze, letteralmente coperti di merda, ma non è una cosa assurda? Eppure Danny Boyle mette in scena senza troppi fronzoli tutto lo schifo della loro non-vita, prende tutta la curiosità che potrebbe suscitare l'idea di provare "un orgasmo moltiplicato mille volte" e la ricaccia in gola allo spettatore facendogli passare ogni velleità di provare ad infilarsi un ago in vena. Boyle (assieme a Welsh, per carità) cattura lo squallore di una triste realtà scozzese e lo rende stiloso senza privarlo dell'incredibile senso di vuoto e tristezza che lo caratterizza, creando un film stupendo e disturbante che non poteva non penetrare nella testa e nel cuore di un'adolescente che negli anni '90 stava cercando di uscire dal guscio creato da un ambiente non dissimile da quello frequentato da Renton e soci: va bene, noi non avevamo i treni da veder passare ma io avevo un intero prato (non parco. Prato, è diverso) davanti a casa dove al mattino non era difficile trovare siringhe e affini, ché il disagio pre-nuovo millennio si sentiva tanto a Luceto quanto ad Edimburgo. Avevo le stesse paure e i medesimi dubbi di Renton, come chiunque altro alla mia età. Choose Life, quale aberrazione. Che significa choose life? Una vita banale e noiosa, famiglia, casa, lavoro e TV invece di, chessò, viaggi intorno al mondo, un'esistenza da artista bohémien, la possibilità di passare da un uomo all'altro manco fossi stata figa? Ma che orrore, la non-vita dei nostri genitori, consumata nello stare dietro al mutuo da pagare, ai problemi quotidiani, al rispetto delle regole, ai figli ingrati, sempre frenata da paletti invisibili e limiti invalicabili. Eppure. Eppure la libertà forse è anche quella di crescere e "mettere la testa a posto", afferrando con le unghie e con i denti quello che è importante per noi e al diavolo quello che pensano gli altri, la "società che non esiste" o i "so-called friends".


Le (dis)avventure al limite del picaresco di Renton e soci sono passate alla storia perché sono grottesche ma realistiche, perché sono il viaggio allucinante di una testa matta, di un narratore inattendibile che per quanto sia sfatto e stronzo non può che starci simpatico. Perché, in soldoni, Renton siamo noi. Pieni di dubbi, timorosi della solitudine al punto da circondarci delle peggio persone per non ascoltare i pensieri ansiogeni, il terrore di crescere (sì, anche quando superiamo i trent'anni, fidatevi) e quella maledetta voce che ci ricorda di essere dei falliti in un modo o nell'altro, sempre e comunque; mica tutti, infatti, hanno la sicurezza di un Begbie o un Sick Boy, che affrontano la vita violentandola, oppure l'ingenuità fastidiosa di uno Spud, che probabilmente il cervello non ce l'ha neppure, figurati se riesce a sentire le voci. Molto spesso, ci ritroviamo ad essere Renton, costantemente in bilico tra la nostra parte buona e quella cattiva o, ancora peggio, Tommy, costretti a pagare per un unico, fatale errore compiuto in un momento di disperazione. Qualche giorno fa parlavo, seduta ad un tavolo sorseggiando un borghesissimo spritz durante un ancor più borghese aperitivo, assieme alla mia migliore amica di allora (ciao Noruzza, ti adoro), a suo marito e al mio ragazzo (c'era anche Filippo, patatino, ma lui non parla ancora e fa tanta nanna), di come probabilmente se avessimo visto Trainspotting oggi non ci avrebbe segnato per nulla, tanto i tempi sono cambiati, e probabilmente l'avremmo liquidato come un film ben diretto, simpatico, ma nulla più. Una sorta di Snatch tra drogati, si potrebbe dire. E invece ne parliamo ancora adesso dopo vent'anni, citandone frasi e sequenze a memoria, sfruttandolo per termini di paragone, probabilmente guardando al ritorno delle Gazelle come un presagio di tempi migliori, durante i quali potremo sentirci più giovani alla faccia della vita. Che poi così schifo non fa, suvvia, soprattutto se si ha avuto la fortuna di venire formati da pellicole come questa.


Del regista Danny Boyle ho già parlato QUI. Ewan McGregor (Renton), Ewen Bremner (Spud), Jonny Lee Miller (Sick Boy), Kevin McKidd (Tommy), Robert Carlyle (Begbie), Kelly MacDonald (Diane) e Shirley Henderson (Gail) li trovate invece ai rispettivi link.

Peter Mullan interpreta Swanney, alias Madre Superiora. Scozzese, ha partecipato a film come Piccoli omicidi tra amici, Braveheart - Cuore impavido, Harry Potter e i doni della morte - Parte I e War Horse. Anche regista, sceneggiatore e produttore, ha 58 anni e quattro film in uscita.


Lo scrittore Irvine Welsh interpreta il pusher Mikey. Purtroppo non posso delucidarvi sulle differenze tra libro e film in quanto non ho mai letto il libro di Welsh (shame on me!) e, nell'attesa di dirvi se T2 - Trainspotting merita o meno, nel caso Trainspotting vi fosse piaciuto consiglio il recupero di Arancia meccanica, Piccoli omicidi tra amici, Gridlock'd e Requiem for a Dream. ENJOY!

domenica 27 novembre 2016

Robert Altman Day - Gosford Park (2001)


Dopo una lunghissima pausa è arrivata Alessandra di Director's Cult a tirare fuori da letargico torpore il F.I.C.A., gruppetto di blogger sempre pronti ad unirsi per celebrare registi, attori e Cinema in generale. Oggi tocca a Robert Altman, a dieci anni dalla sua morte, finire sotto i riflettori e io ho scelto di riguardare un film che non vedevo dal lontano 2001, Gosford Park, premiato con l'Oscar per la miglior sceneggiatura originale. ENJOY!


Trama: a Gosford Park, tenuta dell'opulenta famiglia McCordle, si riuniscono per un weekend tutti i più alti esponenti del parentado e qualche ospite più o meno illustre, oltre ai membri della relativa servitù. Tra una battuta di caccia e un pettegolezzo ci scapperà anche il morto...



Prima di cominciare il post, l'inevitabile premessa: di Altman avrò visto sì e no un paio di film, ovvero l'adorato M.A.S.H. e il bellissimo America oggi, con qualche spezzone di Popeye - Braccio di ferro da bambina. Ciò che ho guardato di suo mi è piaciuto ma non ho mai elevato il regista americano a feticcio, conseguentemente non mi sono mai documentata molto in merito, nemmeno ai tempi dell'università quando, per svariati motivi, mi è capitato di recuperare le pellicole di cui sopra e, ovviamente, Gosford Park. Visto al cinema, per inciso, non perché diretto da Altman ma semplicemente in quanto ambientato in un'Inghilterra affascinante, fatta di Ladyships e Lordships, dove la divisione tra chi sta al piano di sopra (i padroni) e chi in quello di sotto (i servi) è netta ma permeabile. Sì, lo ammetto, le ambientazioni alla Downton Abbey (che, secondo le intenzioni dello sceneggiatore Julian Fellowes, avrebbe dovuto essere uno spin-off del film poi ha preso tutta un'altra direzione) mi sono sempre piaciute tantissimo e il piglio tra il serio e il faceto con cui Altman ha scelto di affrontare questo ambiente probabilmente a lui sconosciuto è talmente interessante che le due ore e passa di film volano via come fossero mezza. Che poi, in soldoni, Gosford Park è un film fatto "di nulla", all'interno del quale l'unico evento davvero degno di nota è l'omicidio di uno dei protagonisti con conseguente investigazione; eppure, nonostante il fulcro dell'azione sia un delitto, chiunque capirebbe che Altman e compagnia non erano interessati a girare un giallo, quanto piuttosto un "documentario" antropologico imperniato sui rapporti tra servitù e padroni, su due microcosmi separati giusto da una rampa di scale. Logorroico e difficile da seguire, Gosford Park immerge subito lo spettatore in un intrico di parentele, nomi e legami dati per scontati ma che si chiariscono solo mano a mano che la pellicola prosegue, e che costringe a mettersi nei panni del servo che raccoglie spizzichi e bocconi di conversazioni per mettere insieme un quadro generale il più possibile esaustivo e, neanche a dirlo, succulento. Inutile fare domande dirette come il povero ispettore Thompson: in Gosford Park ogni informazione passa attraverso l'attenta e silenziosa osservazione, attraverso il rapporto privilegiato tra padroni e valletti personali, fatto di un amore/odio comprensibile soltanto da chi lo vive quotidianamente sulla propria pelle, attraverso riti e consuetudini che sicuramente a noi risultano ridicoli ma comunque imprescindibili per quel tipo di società.


Spinta dalla necessità di riuscire a cogliere anche il più piccolo sussurro e il più sottile degli sguardi indiscreti, la cinepresa di Altman si sdoppia e non sta mai ferma, sguscia dietro porte socchiuse e diventa parte integrante del fermento presente a Gosford Park in un weekend particolarmente difficile, soffermandosi sui mille lavori in cui sono impegnati cuochi, valletti, camerieri ed autisti e non liquidando alcun gesto come inutile o superfluo, neppure quelli dei nobili indolenti. E le emozioni, in tutto questo? In un mondo severamente regolato come quello di Gosford Park l'emotività è di norma riservata agli aristocratici, che la trasformano in un teatrino con il quale è difficile empatizzare. La sofferenza, quella vera in quanto costretta a rimanere celata, è prerogativa di quella servitù tanto disprezzata quanto necessaria, al punto che le scappatelle notturne si sprecano, come se i padroni cercassero disperatamente qualcosa di "reale" a cui appigliarsi al di là dei freddi rapporti tra pari. E' per questo che Gosford Park trova il suo punto di forza principalmente negli attori, sia nei grandi nomi capaci di mangiare la scena con poche battute che nelle semplici comparse, ancora più genuine ed indispensabili in un film corale come questo. Nella miriade di attoroni che popolano i due piani di Gosford Park ce ne sono alcuni che hanno catturato particolarmente la mia attenzione e che reputo degni di menzione, fermo restando che tutti i coinvolti avrebbero meritato l'Oscar. Cominciamo con sua maestà Maggie Smith, un concentrato di wit, cattiveria, taccagneria e sguardi fulminanti, la vecchia carampana che neppure il capofamiglia vuole avere accanto durante il pranzo, e continuiamo scendendo al piano inferiore, dove si nascondono le vere perle: l'impacciata ma decisa Kelly MacDonald, la compassata Helen Mirren, la magnetica Emily Watson, il miserevole Alan Bates e quella faccia da schiaffi di Richard E. Grant che come servo farebbe venire i brividi persino a Tim Curry sono gli attori che mi hanno colpita più di tutti ma probabilmente l'elenco cambierebbe a seconda dello spettatore, tanto non ce n'è uno che sia meno che bravissimo. In conclusione sono dunque felicissima di aver riguardato Gosford Park e di averlo finalmente potuto vedere in inglese, che persino nel 2001 avevo capito quanto più potente sarebbe stato un film simile in lingua originale, quindi grazie Robert Altman per questo particolarissimo esperimento cinematografico!

Robert Altman ha già fatto capolino sul Bollalmanacco col suo M.A.S.H., racconto anti-militare zeppo di humour nero.


I miei compagni di ventura hanno invece partorito questi post, che vi consiglio di leggere:

Director's Cult - I protagonisti
Non c'è paragone - Nashville
Solaris - Radio America
White Russian - I compari



mercoledì 6 marzo 2013

Anna Karenina (2012)

Folgorata dal trailer, completamente digiuna del romanzo di Lev Tolstoj da cui è stato tratto, lunedì sera sono andata a vedere Anna Karenina, diretto nel 2012 dal regista Joe Wright e vincitore di un premio Oscar per i migliori costumi.


Trama: Russia, fine '800. Anna Karenina è sposata con un rispettabile ufficiale governativo ma si innamora perdutamente del giovane Conte Aleksej Vronskij. L'uomo ricambia il suo affetto ma le convenzioni sociali porteranno Anna alla follia e alla rovina...


La mia ignoranza è crassa, lo ammetto, ma ogni tanto sono contenta di essermi persa qualche opera fondamentale della letteratura, così posso gustarmi appieno film dalla trama "risaputa" come questo Anna Karenina. Che, giusto cielo, è un film popolato da personaggi così odiosi che mi chiedo come il romanzo di Tolstoj abbia potuto sopravvivere al passare dei secoli visto che, a partire dalla protagonista, verrebbe voglia di prendere a badilate nella faccia tutti i coinvolti. Salvo solo il povero, sfigatissimo pel di carota Levin, che prima si vede rifiutata una proposta di matrimonio e poi, dopo anni, riesce a conquistare la finta oca giuliva che ama da sempre. La storia della "santa" Anna, infatti, è la storia di una stronza (esemplare il modo in cui prima chiede perdono al marito perché in punto di morte e poi, appena guarita, lo manda a spigolare per tornare dall'amante), egoista, zoccola e pure piagnona, che si innamora di un dongiovanni efebico e francamente pure leppegoso, alla faccia del marito mollo, succube e senza palle. Completano l'opera un fratello fedifrago, una cognata talmente scema da farsi intortare e rimanere assieme al marito traditore, una mocciosetta che manda a quel paese il pretendente per gli occhi blu di un ufficialetto da quattro soldi e un numero imprecisato di pettegole, peppie, zitelle e cutrettole della peggior specie. Insomma, un bel quadretto di perversione che fa rimpiangere più di una volta i complessi e compassati personaggi de L'Età dell'innocenza, catturati in una storia simile eppure ammantati di incredibile dignità.


Detta così, potreste pensare che il film non mi sia piaciuto, invece l'ho adorato. Della storia, lo ammetto, non me n'è fregato nulla. Anzi, pur non avendo letto il romanzo ho trovato persino discutibile l'idea di mettere tra i personaggi il fratello di Levin ed abbozzare appena una breve e risibile sottotrama relativa ad una specie di "rivoluzione Russa", visto che il personaggio serve giusto a far capire a Levin la profondità di spirito della novella moglie e non certo a farlo riflettere sulla condizione del proletariato. Questa volta, quindi, i miei occhi sono stati completamente catturati dalla bellezza incredibile delle immagini che scorrevano sullo schermo, tanto che avrei potuto continuare a guardare Anna Karenina per ore ed ore. Ogni scena è un'opera d'arte, un tassello di una vicenda ambientata all'interno di un teatro, dove i servitori danzano attorno ai padroni, gli impiegati timbrano documenti a ritmo di musica, i treni sono giocattoli e le case sono quelle delle bambole, dove ogni sequenza si riversa in un'altra grazie alla semplice apertura di una porta, dove persino i prati vengono rinchiusi all'interno di un palcoscenico e l'unico personaggio che arriva a meritare un ambiente "reale", un vero paesaggio innevato, è l'unico che riesce a ragionare al di fuori delle convenzioni e coronare il suo sogno senza venire meno alla propria natura. La regia di Joe Wright è un capolavoro, le scenografie e i costumi sono pura arte e le coreografie sono magnifiche, una su tutte quella del ballo che segna la nascita dell'amore tra Anna e Vronsky. Davanti a questo florilegio di luci e colori, davanti a questo tripudio di incastri e sfasamenti, sinceramente, che Anna Karenina abbia la faccia da vajassa di Keira Knightley, che lo sfigato Kick-Ass passi per essere un irresistibile ufficiale e che Jude Law sembri un prete pedofilo che giocherella con l'inquietante prototipo di un preservativo sono cose che passano in secondo piano, come molti dei ridondanti dialoghi. Il mio consiglio è di buttarvi nella Russia di fine '800 e prepararvi a un incredibile spettacolo!


Di Kelly MacDonald (Dolly), Keira Knightley (Anna Karenina), Jude Law (Karenin), Olivia Williams (Contessa Vronsky), Susanne Lothar (la principessa Shcherbatsky, madre di Kitty) e Aaron Taylor-Johnson (Vronsky) ho già parlato ai rispettivi link.

Joe Wright è il regista della pellicola. Inglese, ha diretto film come Orgoglio e pregiudizio e Hanna. Anche produttore e attore, ha 40 anni.


Matthew Macfadyen (vero nome David Matthew Macfadyen) interpreta Oblonsky. Inglese, ha partecipato a film come Orgoglio e pregiudizio, Funeral Party, Grindhouse (era nel fake trailer Don’t), Frost/Nixon – Il duello, Robin Hood e I tre moschettieri. Ha 38 anni e un film in uscita.


Domhnall Gleeson interpreta Levin. Irlandese, figlio del grande Brendan Gleeson, lo ricordo per film come Non lasciarmi, Harry Potter e i doni della morte: Parte 1, Il Grinta e Harry Potter e i doni della morte: Parte 2. Ha 30 anni e tre film in uscita.


Emily Watson interpreta la contessa Lydia Ivanova. Inglese, la ricordo per film come Gosford Park, Red Dragon ed Equilibrium, inoltre ha doppiato un personaggio de La sposa cadavere. Ha 45 anni e otto film in uscita.


Tra gli altri interpreti segnalo anche la presenza del figlio di Stellan Skarsgård, Bill, nei panni di Makhotin, uno degli avversari di Vrosnky durante la corsa di cavalli. Quanto allo stesso Vronsky, era proprio destinato ad essere rappresentato come un essere molle ed implume, perché Robert Pattinson era stato preso in considerazione per il ruolo, mentre per quelli di Levin, Kitty e della Contessa Lydia sono stati rispettivamente convocati James MacAvoy, Saoirse Ronan e Cate Blanchett, che però hanno tutti rifiutato. Se Anna Karenina vi fosse piaciuto, consiglio la visione del già citato e meraviglioso L'età dell'innocenza, Moulin Rouge e Romeo + Giulietta. ENJOY! 

giovedì 13 settembre 2012

Ribelle - The Brave (2012)

Tra i vari film che aspettavo con parecchia trepidazione per l’anno cinematografico appena iniziato c’era il nuovo film della Pixar, Ribelle – The Brave (Brave), diretto dai registi Mark Andrews, Brenda Chapman e Steve Purcell.


Trama: Merida è una principessa molto poco convenzionale, insofferente alle rigide regole dettate dalla madre. Nel tentativo di cambiare il suo destino, però, la ragazza combina un pasticcio difficile da risolvere…


Vi siete mai chiesti perché, il 90% delle volte, nei cartoni animati dedicati alle principesse le regine madri sono morte, lontane, vittime di incantesimi o altro? Se ve lo siete chiesti ma non siete mai riusciti a capire il perché, Brave (lo so, sono spocchiosa, ma il titolo italiano non mi piace, ok?) vi offrirà la risposta su un piatto d’argento: perché sono delle grandissime, pignolissime, precisinissime e perfettissime rompicoglioni in grado di scoraggiare e zittire anche il più prode e grebano dei guerrieri. Come dite, sto recensendo un film per bambini quindi sarebbe meglio usare un linguaggio appropriato? Avete ragione, ma in questo caso la definizione è calzante, perché la pellicola è interamente incentrata sul conflitto tra madre e figlia, tra dovere e desiderio, tra una strada già tracciata e la libertà, che porta ad una giusta riflessione sul destino, sull’equilibrio e, soprattutto, sulla capacità di ascoltare gli altri per cercare di evitare i danni causati da testardaggine ed egoismo. Come avrete capito quindi, pur con questo spunto a suo modo “originale”, se mi passate il termine, Brave risulta così il più disneyano, classico e, per estensione, semplice dei film della Pixar, cosa che ha fatto storcere il naso a molti ma non a me, bambina cresciuta, nostalgica e ormai stufa delle variazioni parodistiche e “adulte” sul tema. Intendiamoci, la storia della rossa principessa non rimarrà nei miei annali personali, molto probabilmente tra una settimana o due me la sarò già dimenticata, ma per il tempo passato in sala è stata un valido intrattenimento che mi ha fatta ridere (un casino), emozionare e commuovere (sì, sul finale, per quanto telefonato).


Lungi da me rivelare alcunché sulla trama, il cui sviluppo, colpi di scena compresi, pur rimanendo celato nei trailer è comunque facilmente intuibile dal momento esatto in cui una disperata Merida fugge nel bosco, pertanto mi concentrerò sulla realizzazione di Brave. L’animazione, innanzitutto, è ineccepibile. Impossibile non venire attirati dai rossi, meravigliosi capelli della protagonista, dalla bellezza quasi mozzafiato dei paesaggi naturali ricreati dalle mani capaci degli animatori, dall’incredibile realismo degli orsi adulti o dai giochi di luce ed ombra all’interno del castello. Anche il character design dei personaggi è molto bello: gli animatori si sono particolarmente sbizzarriti con i pretendenti alla mano di Merida, un trio di esseri a dir poco inguardabili (uno di loro sembra il Trota, giuro!!) accompagnati da degni e ancor più improponibili padri, fulcro delle sequenze più esilaranti dell’intera pellicola assieme al trio di demoniaci fratellini della rossa principessa e alla strega “intagliatrice”. Per finire, tolta la gnegnosissima canzonetta cantata dalla nostrana Noemi, anche la colonna sonora è uno spettacolo, perché richiama un paio di generi che adoro, come la musica celtica e quella d’ispirazione medievale. L’unico difetto tecnico di Brave è che tutta questa mirabilia animata è purtroppo incupita da un 3D più inutile del solito, che forse aumenta un po’ la profondità dell’insieme ma, per il resto, è davvero poca roba. Vi consiglio quindi di guardare l’ultimo lavoro Pixar in una “banale” sala priva di questa tecnologia e di non lasciarvi scoraggiare dalle recensioni negative, soprattutto se avete dei bimbi, perché Brave merita sicuramente una visione e soprattutto perché….


… beh, perché prima del film proiettano il meraviglioso corto La luna di Enrico Casarosa. Non vi anticiperò nulla di nulla su questo piccolo, delizioso e poetico capolavoro di animazione, perché dovete rimanere come sono rimasta io: a bocca aperta, con la lacrima nell’occhio come Ranatan, emozionata come una bimba piccola e con un incredibile desiderio di trovarmi catapultata per magia su quella splendida luna animata. Anzi, a pensarci bene La luna vale da solo il prezzo del biglietto e, non me ne vogliano gli estimatori del carinissimo Brave, è nettamente superiore al film che precede.


Di Kelly MacDonald (voce originale di Merida), Billy Connolly (voce originale di Fergus), Emma Thompson (voce originale di Elinor), Julie Walters (voce originale della Strega, doppiata in italiano dalla grandissima Anna Mazzamauro), Robbie Coltrane (Lord Dingwall, doppiato in italiano da Giobbe Covatta) ho già parlato nei rispettivi link.

Mark Andrews è uno dei registi e sceneggiatori della pellicola. Al suo primo film come regista, ha diretto precedentemente tre corti animati. Americano, è anche designer e animatore.


Brenda Chapman è una dei registi e sceneggiatori della pellicola. Americana, ha diretto anche Il principe d’Egitto. E’ anche animatrice e produttrice.


Steve Purcell è coregista e cosceneggiatore della pellicola, nonché voce originale del Corvo, alla sua prima esperienza come regista. Americano, anche fumettista e animatore, ha 51 anni.


Kevin McKidd presta la voce in originale a Lord McGuffin (doppiato in italiano da Shel Shapiro) e al figlio. Ve lo ricordate lo sfortunato Tommy di Trainspotting? Eccolo qui, bello cresciuto e reduce dall’aver partecipato a film come The Acid House, Ideus Kinky – Un treno per Marrakech, Dog Soldiers, Hannibal Lecter – Le origini del male e a serie come Grey’s Anatomy. Scozzese, anche regista, ha 39 anni e un film in uscita.


Craig Ferguson presta la voce in originale a Lord Macintosh (doppiato in italiano da Enzo Iacchetti). Scozzese, ha partecipato a film come Lemony Snicket – Una serie di sfortunati eventi e doppiato serie come Freakazoid!, Hercules, The Angry Beavers, American Dad! e Futurama. Anche sceneggiatore, compositore, produttore e regista, ha 50 anni e un film in uscita.


Rimanendo in ambito “doppiaggio originale”, Reese Witherspoon avrebbe dovuto prestare la voce a Merida, ma è stata costretta a rinunciare per altri impegni, mentre lo strano modo di parlare del figlio di McGuffin è semplicemente il dialetto usato nel nord della Scozia, il Doric. E ciò mi fa venire parecchia voglia di vedere il film in lingua originale. Ah, rimanete fino alla fine dei titoli di coda, così saprete se l’ordine fatto da Merida alla strega è arrivato! Ovviamente, se il film vi fosse piaciuto, consiglierei la visione di Mulan. ENJOY!

mercoledì 20 luglio 2011

Harry Potter e i doni della morte - parte II (2011)

Avete ripassato tutti i libri? Avete riguardato tutti i film o, perlomeno, il penultimo? Sarebbe meglio, visto che sto per imbarcarmi nella recensione di Harry Potter e i doni della morte – parte II (Harry Potter and the Deathly Hollows – part II), il finale della saga del maghetto creato da J.K.Rowling, diretto dall’ormai veterano David Yates.



Trama: avevamo lasciato Harry, Ron ed Hermione a Villa Conchiglia, salvi grazie al sacrificio dell’elfo Dobby, mentre il buon Lord Voldemort, dopo aver profanato la tomba di Silente, si appropriava dell’invincibile bacchetta di Sambuco. Ora i nostri devono penetrare alla Gringott, dove sicuramente è nascosto un altro Horcrux, e tornare a Hogwarts per la battaglia finale…



Lasciatemi subito dire una cosa: sono soddisfatta di questo ultimo capitolo, sicuramente uno dei pochi che è riuscito a mantenere un miracoloso equilibrio tra fedeltà all’opera originale ed esigenze cinematografiche. La saga di Harry Potter si è così degnamente conclusa con un film che, effettivamente e purtroppo, approfondisce poco e si distacca quasi completamente dalle spiegazioni filosofiche e morali della Rowling, ma che nel compenso ci regala delle splendide immagini e, finalmente, una battaglia conclusiva degna di questo nome, dopo le clamorose mancanze del sesto episodio.



All’ingresso del cinema, avevo “solo” tre punti fermi che regista e sceneggiatori avrebbero dovuto mantenere, a costo di partire per gli USA e fare sommaria giustizia: il duello tra Bellatrix e Molly, il tanto atteso bacio tra Ron ed Hermione e, soprattutto, una degna rappresentazione del passato di Piton. Sono stata esaudita in parte perché, se è vero che la sequenza dedicata a Severus è commovente, poetica e molto dolorosa (splendide le immagini delle foglie tramutate in mille piccoli uccellini e quella, straziante, della scoperta del cadavere di Lily, che mi ha fatto versare copiose lacrime) e il bacio tanto bramato è stato accolto in sala da un’ovazione da stadio, il duello che la Rowling è riuscita a rendere toccante ed emozionante in due parole viene invece trattato nel film come una mera postilla, quasi un riempitivo. Per il resto, sufficienza piena con qualche riserva. La trama viene sfoltita parecchio, semplificata ma non impoverita, vengono aggiunte nuove scene, trovate nuove soluzioni per descrivere quello che già ci aveva mostrato la scrittrice inglese, la figura di Silente viene quasi completamente “ripulita” (per la serie: che ci frega che, in fin dei conti, fosse un uomo di mmmm…? D’altronde, chi se l’è mai filato?!? Però magari qualche parola in più sul passato di Aberforth, Ariana e Grindelwald potevano spenderla a beneficio di chi è digiuno dai romanzi…) e il parallelo con Gandalf viene infine reso in tutta la sua ovvietà, trasformando il barbuto mago in una sorta di Yoda che elargisce al povero Harry dei consigli inutili quanto il sostegno dei defunti che lo accompagnano al confronto finale con Voldemort.



E che confronto!! Le scene della battaglia, come ho detto, sono epiche. Dopo un’introduzione da brivido, con agghiaccianti urla femminili ad accompagnare la voce di Voldemort, alla faccia dei 300 e di Hero i Mangiamorte salutano Hogwarts con una pioggia di scintille manco fosse il quattro luglio, prima di una corsa mozzafiato su un ponte in pieno stile action movie e, per tornare in tema Signore degli Anelli, arrivano anche giganti armati di falci e statue di pietra semoventi. Il ritmo del film diventa così talmente frenetico che, prima della pausa tra un attacco e l’altro, sembra siano passati solo una ventina di minuti dall’irruzione dei nostri alla Gringott, altra sequenza diretta magistralmente, con una vorticosa discesa nelle segrete della banca e un’impressionante fuga a dorso di Drago (non di Draco. A quello ci arriviamo dopo!). Dopo averci mostrato, comunque, il destino di Piton, il film giustamente e necessariamente rallenta per introdurci nella parte più “riflessiva”, per darci il tempo di piangere i defunti (punto a sfavore: la morte di Fred manca assolutamente di pathos, un altro episodio “di passaggio”, messo tanto per dare un contentino) e prepararci alla necessaria riflessione con morale annessa e inevitabile nostalgia per il tempo che fu, accompagnata alla consapevolezza che questa (a meno che la Rowling non ci ripensi) sarà l’ultima volta che vedremo Harry, Ron ed Hermione, ormai cresciuti e pronti a congedarsi dal pubblico (lacrimuccia, lacrimuccia). Rimane giusto il tempo per uno stacco temporale che ci porta in avanti di 19 anni, ma qui subentriamo nei difetti del film e nei momenti esilaranti. Apriamo quindi un altro paragrafo!



Lucius... vabbé, lo sai cosa mi necessita... :Q______


Ah, l’ironia, la sublime ironia. A volte volontaria, e questo Harry Potter e i doni della Morte – Parte II è molto più ironico del cupo libro della Rowling, ricco di momenti esilaranti affidati ad un Ron che, come sempre, è mattatore ma stavolta anche fichissimo eroe, ad un Neville che viene schernito dai Mangiamorte manco fossimo in un film dei Vanzina e si profonde in dichiarazioni amorose ad una perplessa (e meravigliosa) Luna Lovegood, ad una splendida Minerva MacGrannitt che manda a spigolare il povero Gazza (costretto a pulire fino all’ultimo) e ad un incazzosissimo Voldemort che per ogni “Mio Signore…” pigolato da uno dei suoi lacché risponde con un inequivocabile “AVADA KEDAVRA!!” che fa a pugni con la sua vocina dolce e sommessa (il doppiatore italiano in questo caso merita voto 10). Per quanto riguarda l’ironia involontaria sconfinante nel trash la palma d’oro va invece all’inutile ultimo capitolo, quel “19 anni dopo” che è commovente ed indispensabile nel libro della Rowling, ma che al cinema mette solo una gran tristezza. Colpa dei truccatori, gente. Un conto è sbattersi per rendere credibile Brad Pitt in un film come Il curioso caso di Benjamin Button, dove gli effetti speciali e il make – up per ringiovanire o invecchiare il protagonista dovevano essere al top pena la rovina dell’intera pellicola, ma qui si vede che han fatto proprio un lavoro a tirar via. Ma io mi chiedo QUALE trentottenne andrebbe in giro conciato come i protagonisti da adulti???? Gli unici che se la cavano sono Harry ed Hermione, ma Ron con la buzza che gli tende un’orrenda camicia di flanella non si può guardare, e Ginny versione Desperate Housewife con capello rosso cotonato e calza 90 denari viola è semplicemente imbarazzante, anche se il peggio conciato è lo stempiatissimo Draco Malfoy, che dimostra più o meno 90 anni (i geni di Lucius non hanno attecchito pare. Oddio, ho detto Lucius. Scusate, la bava, ehm…). Inguardabile anche il ringiovanimento al computer di Piton durante i flashback, salvato solo dall’innegabile bravura di Alan Rickman. E fu così che arrivammo a parlare degli attori…



Ovviamente, in un film così corale ci possono essere poche figure di spicco (nonostante il protagonista, Daniel Radcliffe, sia sempre espressivo come un gatto di marmo…) e tante piccole parti che invece non sviluppano appieno il loro potenziale, ma lasciatemi levare il cappello davanti alla misurata, dolce interpretazione di Evanna Lynch nei panni di Luna Lovegood, troppo poco sullo schermo, ahimé, ma abbastanza per entrare nel cuore. Sempre bravissimi Rupert Grint ed Emma Watson, che qui duettano in modo superbo nel mostrare il nuovo legame nato tra Ron ed Hermione; magistrale Alan Rickman nel suo ambiguo, profondissimo ruolo, che purtroppo perde sempre nel doppiaggio italiano (la sua vera voce è insostituibile, sorry); stupenda Helena Bonham Carter nel doppio ruolo di un’Hermione sotto effetto della pozione polisucco, impacciata sui tacchi ed imbarazzata, e in quello della solita, perfida e affascinante Bellatrix; immancabile Jason Isaacs, a confermare come non importa quanto il suo personaggio sia abbruttito, sfigato e vessato da Voldemort (un po’ deludente, per essere il villain, lo ammetto, anche se Ralph Fiennes è sempre bravo!!), perché basta il sangue puro a rendere sexy un mago, anche quando fugge a gambe levate dalla battaglia! Infine, un applauso a Matthew Lewis che, dopo sette film, ha finalmente l’occasione di mostrare tutta la bellezza del suo sottovalutato Neville Paciock, l’anima umile e sfigata di ogni spettatore che avrebbe voluto andare a Hogwarts. Compresa la sottoscritta, ovvio.



Ho già parlato, e più volte, sia del regista David Yates che di quasi tutti gli attori che recitano in questo film, quindi metterò il loro nome linkabile, in caso voleste saperne di più: Daniel Radcliffe (Harry Potter), Rupert Grint (Ron Weasley), Emma Watson (Hermione Granger), Alan Rickman (Severus Piton), Helena Bonham Carter (Bellatrix Lestrange), Julie Walters (Molly Weasley), Jason Isaacs (Lucius Malfoy), Robbie Coltrane (Hagrid), Ralph Phiennes (Voldemort), Michael Gambon (Albus Silente), Emma Thompson (la professoressa Sibilla Cooman), Gary Oldman (Sirius Black) e per finire John Hurt (il fabbricante di bacchette, Olivander).

Maggie Smith (vero nome Margaret Natalie Smith) interpreta la professoressa Minerva McGrannitt. Una delle più grandi attrici inglesi viventi, vincitrice di due Oscar, la ricordo, oltre che per tutti i film della serie Harry Potter, per pellicole come Invito a cena con delitto, Camera con vista, Hook – Capitan Uncino, Sister Act – Una svitata in abito da suora (e seguito) e Gosford Park. Ha 77 anni e due film in uscita.



Kelly MacDonald interpreta il fantasma di Helena Corvonero. Scozzese, la ricordo per film come Trainspotting, Elizabeth, Gosford Park, Neverland – Un sogno per la vita e Non è un paese per vecchi, inoltre ha partecipato ad un episodio della serie Alias. Ha 35 anni e tre film in uscita.



Ciarán Hinds interpreta Aberforth Silente. Irlandese, ha partecipato a film come Excalibur, Mary Reilly, Il mistero dell’acqua, Era mio padre, Calendar Girls, Il fantasma dell’Opera e Il rito. Ha 58 anni e cinque film in uscita, tra cui il seguito dell’orrendo Ghost Rider, che uscirà nel 2012 (speriamo il mondo finisca prima!!) e che avrà per protagonista sempre Nicolas Cage. Orrore.



David Thewlis (vero nome David Wheeler) interpreta Remus Lupin. Inglese, ha partecipato a film come Poeti dall’inferno (ma poveraccio, non se lo ricorderà nessuno visto che gli occhi delle bimbeminkia dell’epoca erano tutti per Leonardo Di Caprio..), Dragonheart, Sette anni in Tibet, Il grande Lebowski, Gangster N°1 e The Omen. Anche regista e sceneggiatore, ha 48 anni e tre film in uscita.



Warwick Davis interpreta sia il professor Vitious che il folletto Unci Unci. Voi forse non lo sapete, ma ci siete cresciuti con il nanetto inglese, e lo capirete scorrendo i titoli dei film a cui ha partecipato, cose come Il ritorno dello Jedi, Labirynth dove tutto è possibile, Willow e soprattutto Leprechaun (e tutti i seguiti, gente, il Leprechaun è LUI!!). Anche sceneggiatore e produttore, ha 41 anni e due film in uscita.



E con questo si concludono sia la recensione che la serie di Harry Potter. Grazie a J.K.Rowling per avere creato un mondo così fantasioso popolato da personaggi così reali. Grazie a tutti gli attori e i registi che, tra alti e bassi, si sono adoperati per rendere immortale la saga del maghetto anche su pellicola. Per parafrasare Silente: “Certo, tutto questo è solo nelle nostre teste… ma perché diavolo dovrebbe essere meno reale?” Vi lascio con un piccolo tributo a tutti questi anni di avventure cinematografiche, se ne trovate uno migliore fatemelo sapere, provvederò a metterlo. ENJOY!!!

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