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lunedì 11 maggio 2009

La Pupa, il Pupo, le tecniche di seduzione

Molto di quel che un bambino diventerà si capisce da com'è da neonato
A cinque mesi la Pupa, che ora ha quasi quattro anni, ha cominciato - senza un vero perché - a ostentare la lingua. Alcuni amici e parenti incoraggiavano questa sua abitudine mostrandole la lingua a loro volta, il che va a dimostrare che un umorismo puerile non è sempre strettamente imputabile ai lattanti.
Per un certo periodo l’ha fatto tanto spesso che l’abbiamo ribattezzata “il linguino”. “Ciao, linguino,” la salutava mia sorella. “Come stai, bel linguino?” le chiedeva il nonno. “Non si è mai visto un linguino così carino,” gorgheggiava la nonna.
La Pupa era maledettamente in gamba. Sapeva anche piegare la lingua a metà e verso l’alto, come un foglio accartocciato. Quel che non mi era mai riuscito in trent’anni, lei l’aveva imparato in cinque mesi. Il suo era un talento naturale.
Normalmente le sue esibizioni erano divertenti. Ogni tanto vagamente imbarazzanti. Come si fa a spiegare a un estraneo che assolutamente no, non gliel’abbiamo insegnato noi a fare le linguacce?

Dopo poche settimane, come aveva iniziato, ha smesso. Avevo già nostalgia di quella curiosa abitudine quando un giorno all’Ikea, in fila alle casse assieme a mia mamma, avevo la Pupa su un braccio e un set di scatole Flört sull’altro e con la coda dell’occhio ho sorpreso un signore elegante, di una certa età, che… ci mandava dei baci. L’ho fulminato.
Ero lì lì per insultarlo, quando lui ha esclamato: “È stata lei, signora! Ha cominciato lei”.
“Lei chi? Io? Ma è matto?” gli ho risposto.
“No, non lei lei, signora! Lei sua figlia!”.
“A far cosa, scusi? Sta scherzando?”. “No, non scherzo. A mandarmi i bacetti!”. Ho guardato la Pupa. Aveva l’aria furba e l’espressione imperscrutabile.
Le code all’Ikea sono lunghe. Non avevo fretta. Ho continuato a fissare la Pupa. Anche quel signore la fissava. Ogni tanto spostavo lo sguardo su di lui. Poi di nuovo su di lei.
Siamo andati avanti così cinque minuti. Non succedeva nulla: lei era sempre immobile, assorta, indifferente. La fila avanzava, e dopo un po’ siamo arrivate alla cassa.
Con mia mamma commentavo a bassa voce che il mondo è pieno di pazzi. Poi la cassiera ci ha visto e ha sorriso, rivolta alla Pupa: “Ciao, bella!” le ha detto. La Pupa l’ha guardata. Deve avere deciso che quella donna le piaceva, perché un istante dopo, dal nulla, “Smack!”. La stagione del linguino era finita, quella dei baci appena cominciata.
La Pupa, a oggi, è una grande seduttrice. Sbatte le ciglia come io non ho mai fatto. Ama imbellettarsi con la mia cipria, è capace di indossare cinque o sei collane di perline tutte assieme e insistere per andare all'asilo così, si infila le mie scarpe "a tacco" (così le chiama) ticchettando allegramente, in notevole ancorché precario equilibrio, per tutta la casa.
I baci le piacciono sempre, anche se non li dà a caso. Studia il suo interlocutore, increspa le labbra, esita un po'. Li fa sospirare, quei baci. E poi, "Smack!", esattamente come quand'era neonata.
La Pupa è una tipa che incanta. Se va avanti così non avrà mai problemi a fare conquiste, riflettevo l'altroieri mentre guardavo intenerita quel patatone del Pupo, che compie oggi sei mesi. "E tu, coccolone?" gli ho chiesto. "Non sei un divo del cinematografo come tua sorella. Sei un tipo rassicurante, tu. Sei tutto pappa, nanna e ciccia". "Gaa, boo, daa!", mi ha risposto lui sorridendo. E poi, del tutto inatteso:
"Smack!".
Ora, sono due giorni che non fa altro che mandare baci.

lunedì 27 aprile 2009

Risvegli notturni - La saga continua

Finisce che poi alcuni si addormentano camminando
Scrivo questo post in stato di trance, perciò non sono interamente responsabile dei suoi contenuti. E' che il Pupo, ultimamente, di notte è imprevedibile. Sul mio libro (che, volendo, trovate qui) ho dedicato ampio spazio al tema delle notti travagliate dei neogenitori. Ecco una cosa a cui davvero non si può essere preparati, prima di avere un figlio: la stanchezza che ti investe e ti schiaccia. L'amica Marilde, nel suo bel blog La solitudine delle madri, racconta la maternità con una doppia immagine molto efficace: un dono, e una mancanza. Mi vengono in mente mancanza di autonomia, di libertà di movimento. E poi di sonno.
A spiegarla di giorno, quando i contorni delle cose non sono bigi e cupi come di notte, sembra quasi divertente. In estrema sintesi, fino all'anno di vita il ciclo del sonno del bambino è indipendente dall'ambiente e regolato solo dai bisogni interni legati alla fame e alla sete. A mano a mano che cresce, però, gradualmente si adatta a ritmi più "umani" (= adulti). Questo dovrebbe avvenire a partire dal quarto mese. Ma il Pupo sta vivendo una spaventosa regressione. Un'altra amica blogger, Raperonzolo, mi consola e assieme mi terrorizza: mi dice che con il suo secondogenito è andata avanti due anni a botte di otto/nove risvegli per notte. Per quanta esperienza una mamma abbia, per quanto brava sia a snocciolare inappuntabili riflessioni accademiche, poi nella realtà il comportamento di un neonato riserva sempre sorprese. A volte meravigliose, altre volte meno.
Il Pupo, ora, ha sicuramente un paio di problemi oggettivi: ha più fame del solito e sta mettendo i dentini. Vorrei svezzarlo ma siamo in partenza per una gita all'estero, perciò devo aspettare qualche giorno.
Ultimamente funziona così: si sveglia alle due o alle tre di notte, piange, provo a calmarlo. Gli metto il ciuccio in bocca senza dire una parola, al buio. Una parte di me spera sempre che non mi riconosca e si accontenti del caucciù ma grazie al suo potentissimo olfatto - il neonato riconosce l'odore del latte della madre anche a poche ore di vita - lui mi becca subito e inizia a emettere una serie di suoni rauchi e gutturali a circa 120 decibel. Il suo papà finge indifferenza oppure non sente. Finisce che sveglio anche lui con piccole pacche ritmiche sul fianco, mentre rifletto su quanto un bambino possa a mettere a dura prova la vita di una coppia. A quel punto lui si alza emettendo a sua volta suoni rauchi e gutturali, in controtempo col neonato. Prova a calmarlo a sua volta. Il Pupo s'infuria perché non è scemo e capisce che suo papà non ha il latte. Insistiamo un po', convinti - la riflessione non è priva di una sua coerenza - che se ogni volta accontentiamo le sue richieste di cibo non ne usciremo mai più. In teoria un bambino della sua età dovrebbe essere in grado di gestire almeno un risveglio, riaddormentandosi da solo. E' un passo importante nella conquista dell'autonomia. Lo stiamo aiutando a diventare uomo, rifletto ancora mentre il Pupo passeggia per la casa in braccio a suo padre, che si muove in automatico fermandosi (quasi sempre) e invertendo la rotta quando incontra un ostacolo tipo un muro o un mobile, come fanno quei robottini aspirapolvere di recente immessi sul mercato. Io penso che alcuni padri finiscano con l'addormentarsi camminando.
Dopo un'ora di questo tran tran ci arrendiamo. Il Pupo continua a digrignare i denti che non ha. Ha vinto. Lo allatto sapendo che si sveglierà ancora, prima dell'alba. Torno a letto che mi fa male tutto: schiena gambe palpebre persino sopracciglia. In lontananza, nel sonno, la Pupa grida qualcosa rivolta a Topolino. Dio la benedica perché, occasionali incubi a parte, almeno lei è in grado di dormire dodici ore filate. Abbraccio da dietro il papà del Pupo, gli accarezzo la schiena. "Domani sera ti invito a casa mia e ti mangio di baci," gli mormoro fingendo di averlo appena incontrato. "Volentieri, bella. Sei uno schianto," fa lui stando al gioco, poi crolla svenuto.
Ce la faremo, è il mio ultimo pensiero prima del black out.

venerdì 24 aprile 2009

La base per ogni rapporto sano è instaurare un bel dialogo

Oggi tesissimo confronto tra me e il Pupo, cinque mesi e mezzo
Lui, guardandomi con intensità: "Gaaaa".
Io: "Pupo, perché hai ripreso a svegliarti due, anche tre volte per notte? Non sai che la mamma è esausta?".
Lui: "Prr".
Io: "Prr a te. Sono stanca davvero, sai? Se tu dormissi almeno cinque o sei ore di fila nessuno si offenderebbe. Anzi ne guadagneremmo in salute e non sarei sempre sull'orlo del collasso".
Lui: "Ah, ah, ah".
Io: "Lo trovi divertente? Io mica tanto. Che poi tu ti accendi e ti spegni come un interruttore, a me invece ci vuole mezz'ora ogni volta".
Lui: "Ah, ah, ah".
Io: "Bravo Pupo, sei proprio bravo. Come ridi tu non ride nessuno. Però la mamma deve badare a te, e anche alla Pupa, e poi lavora, e deve scrivere il blog, e poi il papà non so perché non è sintonizzato sulle tue stesse frequenze e quindi quando ti svegli e piangi non ti sente".
Lui: "Ah, ah, ah".
Io: "Sì, detta così fa ridere, ma alle due e diciannove di notte è un po' meno comico. Certo, tra qualche anno ci scherzeremo sopra, ma ora come ora sono strabica per la stanchezza, ho delle occhiaie paurose e mi si accentua l'orribile ruga tra gli occhi. Quando sono così stanca al Pam mi chiamano 'signora' anziché 'signorina', e questo è un pessimo segnale".
Lui: "Ah, ah, ah".
Io: "Sì, come no".
Lui: "Ah! Ah!"
Io: "Vabbe', ne riparliamo domani. Stanotte mi prometti di dormire?".
Lui: "Ah, ah, ah! Gaa. Daa. Bo! Prrrr!"
Io: "Quando avrai diciott'anni e uscirai per andare a ballare, la mattina dopo giuro che ti sveglierò alle sette. Il motorino te lo scordi e la Playstation, mi cascasse il cielo sulla testa, se la vuoi te la compri coi tuoi soldi".

giovedì 23 aprile 2009

Dalla culla al lettino

Le lacrime a cui non posso rinunciare
Il passaggio dalla culla al lettino avviene per ragioni di spazio. A un certo punto il bambino diventa troppo lungo, e va spostato. O troppo largo, come nel caso del Pupo, che a cinque mesi è quasi nove chili per 70 centimetri (ma noi gli diciamo che è grosso, non grasso).
Questo comporta, in genere, alcuni inconvenienti: il giaciglio perde la dimensione-mangiatoia cui il neonato era abituato. In confronto, il lettino è una sterminata prateria. Alcuni bambini, come il Pupo, aborrono il cambiamento e manifestano aperto dissenso riprendendo a svegliarsi la notte, pretendendo pure - sfacciati - di mangiare nonostante per peso e altezza abbiano sfondato il centesimo percentile.
La neomamma ringrazia.
Tornando al lettino, esso deve rispettare alcuni standard tecnici, come tutte le attrezzature per l'infanzia.
I manuali danno alcune raccomandazioni, tipo: niente piumini o cuscini fino all’anno di vita; attenzione a che la distanza tra le sbarre non superi i 6,5 centimetri; meglio mettere il neonato sdraiato nella parte inferiore del lettino, perché non possa, scivolando ulteriormente verso il basso, finire con la faccia sotto le coperte. Le mamme registrano scrupolosamente queste indicazioni ma sono molto più attente all’aspetto psicologico del piccolo trasloco. In genere lo trovano commovente e non c’è nulla che si possa fare per convincerle del contrario. Perché in effetti è vero, gli oggetti usati dai propri figli hanno una carica emotiva fenomenale. Ogni cosa che appartenga a un bambino sorride del suo sorriso; la culla in cui ha dormito ha pianto, fino a ieri, del suo pianto.
Attraverso gli oggetti che usano i bambini arrivano a possedere la vita delle persone. Del resto la vecchia culla in giunco con una ruota difettosa è stata la prima casa del Pupo e della Pupa, e prima che ci fossero loro era la casa di altri bambini che io non ho conosciuto. Ora che arriva il momento di metterla via ne sento già la nostalgia e spero o mi illudo di poterla usare ancora per un altro bambino, un giorno.
Allo stesso modo le scarpe col tacco in cui la Pupa ha mosso traballando, per gioco, i suoi primi passi da donna, sono cento volte più belle e più vive di qualunque altra scarpa potrò mai indossare; e le briciole sparse qua e là nell’auto e i fazzoletti usati stropicciati sotto al cuscino e i segni delle manine sulla parte inferiore del vetro di una finestra rendono ogni posto diverso da com’era prima. Lo fanno diventare un luogo amato, e lo fanno respirare.
Il passaggio dalla culla al lettino avviene per ragioni di spazio ma è un passaggio dell’anima oltre che fisico. Forse soprattutto dell’anima. Perché serve coraggio per dire “adesso” e pensare che adesso è ora, serve fantasia per guardare distante e non fermarsi a contare le lacrime, per immaginarsi il futuro e credere che sarà bello, se non più di oggi, almeno altrettanto.