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sabato 27 aprile 2013

i film - I tre del mazzo selvaggio (Pancho Villa)



Il 1972 per il western italiano è un anno di delirio autodistruttivo, con decine di ignobili western "fagioli" che vanno a intasare le sale. Ben presto, nauseato, il grande pubblico girerà per sempre le spalle al genere. Oltreoceano per il western crepuscolare americano è invece ancora tempo di capolavori e grandi film, ma che raramente ottengono significativi riscontri commerciali. In questo scenario di decadenza imminente per tutto il genere, iniziano a venir meno l'interesse per le coproduzioni hollywoodiane in Spagna: solo due.



La prima è un gioiello di cui abbiamo già scritto: Hannie Caulder di Burt Kennedy, in Italia scelleratamente intitolato La texana e i fratelli Penitenza (giusto per dire l'aria che tirava). Partendo da uno spunto di puro sensazionalismo exploitation, è un rape & revenge incredibilmente poetico e rarefatto, unico nel suo genere, in riuscito equilibrio tra la stilizzazione "pop" dei western spaghetti e la concretezza dei western americani. Amalgama riuscito così bene solo al sottovalutato Kennedy.

1972 I tre del mazzo selvaggio (Pancho Villa)

di Gene Martìn. Con Telly Savalas, Clint Walker, Chuck Connors, Anne Francis, José María Prada

Dopo che dei trafficanti d'armi americani hanno tentato di fregarlo, Pancho Villa decide di invadere a suo modo gli Stati Uniti. Sarà "The only man to invade the U.S.A", come recitava la frase di lancio del poster americano.

Un altro triste segno della volgarità dei tempi il titolo italiano, ebete e insensato (i "tre" non sono un "mazzo" né altro, visto che Chuck Connors fa un personaggio secondario che non compare neanche mai in scena con gli altri due), per un film che chiude la stagione dei western di ambientazione rivoluzionaria girati in Spagna dagli americani, iniziata quattro anni prima sempre con un film su Villa, Viva! Viva Villa!. Attori principali, sceneggiatura originale e buona parte dei soldi sono ancora americani, ma per il resto il film è spagnolo, a cominciare dal regista Eugenio "Gene" Martìn, che si era fatto le ossa come aiuto regista proprio nelle grosse produzioni americane girate in Spagna nei primi anni 60. Martìn sei anni prima aveva diretto un bellissimo western spaghetti tradizionale come The Bounty Killer, poi nel '71 il pessimo E continuavano a fregarsi il milione di dollari, infine questo rivoluzionario picaresco. Tre film totalmente diversi, che non sembrano minimamente girati dalla stessa mano. 



Più simpatico e spigliato della versione con Brynner, è un film piacevole, ma la storia gira completamente a vuoto. Non è nulla più di un lungo aneddoto picaresco, dove non c'è alcun reale sviluppo narrativo, quasi fosse l'episodio di un telefilm di cui già si conoscono i personaggi e si sa che torneranno in un episodio successivo. Il film vive delle mattane del personaggio di Villa, interpretato da un prevedibilmente straripante Savalas, che si mangia tutto il film gigioneggiando senza freni. Dosi abbondanti di humour nero nelle scene in cui, con il suo consueto sorriso serafico, accoppa a sangue freddo qualcuno personalmente o lo fa fucilare. In una scena getta una sua amante nuda dalla finestra, in un'altra fa la sceneggiata fingendosi moribondo per scoprire dei traditori e alla fine guida personalmente un treno per andare a schiantarsi contro un altro treno. Il film tira avanti così, tra scene madri e scenette più o meno riuscite. Pur partendo da fatti reali, fortunatamente il film non ha nessuna pretesa storica, proponendosi come una allegra cialtronata dalla prima all'ultima scena.

Tutto sommato la parte più interessante del film è la prima, non non a caso la più seria, quella più puntata sulle scene d'azione (molto buone tutte le sparatorie del film, girate con uno stile particolare, brusco ed energico) e dove il vero protagonista è il braccio destro americano di Pancho Villa, uno statuario ed ancora efficace Clint Walker, che deve andare in America a recuperare le armi, ma i venditori che hanno già intascato i soldi tentano di ucciderlo. È un personaggio un po' alla Corto Maltese, un avventuriero con berretto e giubba da marinaio nel Messico rivoluzionario.



Per la prima ed ultima volta, per quanto riguarda questo filone di film, è invertito il classico rapporto tra Stati Uniti e Messico. Qui è il territorio americano il territorio ostile che deve essere invaso ed espugnato dai protagonisti, anche se il tutto è giocato sui toni della commedia e della satira. Satira che non va per il sottile, soprattutto nel descrivere l'esercito americano come una banda di perfetti idioti. Ma anche apprezzandone i toni caustici, c'è da dire che non funzionano per niente le (per fortuna) poche scene con Chuck Connors nella parte di un generale americano imbecille, visto che le gag di cui è protagonista sono ai livelli di un film con Ciccio e Ingrassia. 

martedì 23 aprile 2013

i film - Una città chiamata Bastarda



Nel 1971 furono ben otto i western diretti da registi statunitensi in Europa. Tutti abbastanza interessanti. Tramite coproduzioni che coinvolgevano vari paesi, girare in Spagna doveva essere all'epoca talmente conveniente che il cinema americano attraversava l'oceano per filmare titoli che poi di fatto non avevano nulla di europeo, come nel caso di pellicole quali Chato, Doc, Il giorno dei lunghi fucili e Io sono Valdez. Western assolutamente americani, che non rientrano, se non alla lontana, nella tipologia di film che stiamo cercando di mappare.


La sporca marmaglia di "La spina dorsale del Diavolo"

Rientrano invece perfettamente nella tipologia le altre quattro pellicole. La prima delle quali è una singolare produzione italo-americana, girata nell'allora Jugoslavia e non per una volta in Spagna, il notevole La spina dorsale del Diavolo (The Deserter) di Burt Kennedy, di cui abbiamo già scritto. In questo contesto ci limitiamo ad annotare come il film di Kennedy riproponesse quasi tutti gli elementi tipici del filone: la discendenza ancora più marcata del solito da "Quella sporca dozzina", con il pugno di uomini impegnato in una missione sucida, un nemico asserragliato in un luogo teoricamente imprendibile e lo sconfinamento in un territorio messicano dove le "normali" regole morali sembrano abolite. Del tutto eccentrico nel filone (e non solo) invece il film successivo...

1971 Una città chiamata Bastarda (A Town Called Hell)

di Robert Parrish (e Irving Lerner ) con Robert Shaw, Martin Landau, Stella Stevens, Telly Savalas, Fernando Rey, Al Lettieri, Michael Craig, Dudley Sutton, Paloma Cela, Maribel Hidalgo, Aldo Sambrell, Luis Rivera, Tito Garcia, Cris Huerta

Durante la rivoluzione, nella cittadina di Bastarda (si chiama così anche in originale, per una volta non è una trovata campata in aria dei distributori nostrani) piombano i rivoltosi che sterminano prete e borghesi del villaggio. Dieci anni dopo il paese è tiranneggiato dai rivoluzionari di un tempo capitanati da un sadico (Savalas) e il nuovo prete è uno dei due capi rivoltosi di dieci anni prima (Shaw). A bordo di un carro funebre giunge in città una bella vedova americana (Stevens) in cerca di vendetta per il marito, ucciso dal rivoluzionario Aguila, misterioso personaggio avvolto nel mito e di cui nessuno conosce l'identità. A capo di truppe regolari torna in paese anche l'altro capo dei rivoltosi di dieci anni prima (Landau), anche lui alla ricerca di Aguila. In un clima sempre più esasperato a base di uccisioni ed esecuzioni scoppierà una nuova rivolta. 

Penultimo film diretto da Parrish, un veterano di Hollywood oggi piuttosto dimenticato, ma ai tempi di grande culto soprattutto tra i critici francesi. Era al suo quarto e ultimo western, dopo che negli anni 50 aveva diretto il bellissimo Il meraviglioso paese con Robert Mitchum, in cui aveva già messo in scena un Messico violento e turbolento (per quanto un posto ameno e di tutto riposo se messo in confronto al Messico lugubre e funereo di "Una città chiamata Bastarda"). Negli anni 60 si era specializzato in coproduzioni europee poco considerate e di altalenante riuscita, tra le quali spiccano però almeno due titoli che andrebbero decisamente riscoperti: la colorata fantascienza pop di Doppia immagine nello spazio e il film qui presente. Che è uno di quei film in cui gli autori sembrano avercela messa tutta per creare un prodotto che piacesse a meno gente possibile. Troppo malato e artistoide per soddisfare il grande pubblico, troppo fuori dagli schemi per gli appassionati del genere, troppo strampalato e sensazionalistico per compiacere la critica più severa. Ed è anche il classico caso film "maledetto", quindi mal distribuito, circolante in versioni variamente tagliate e compromesso dagli interventi della produzione. Insomma un titolo perfetto per incontrare i favori di questo blog.



Tutto ambientato all'interno o negli immediati dintorni delle mura di un paesino messicano è un affascinante e onirico western rivoluzionario, che colpisce per gli insoliti squarci visionari, per i momenti di sogghignante crudeltà e soprattutto per l'atmosfera morbosa e irreale che si respira dall'inizio alla fine. La storia potrebbe essere letta come una specie di "Aspettando Godot" con i morti ammazzati durante l'attesa. La vicenda è punteggiata da sogni indecifrabili e flashback che non spiegano nulla, ma anzi spesso complicano ancora di più la trama. Ermetica e senza spiegazione soprattutto la presenza di due personaggi muti e misteriosi: l'inquietante e cadaverico killer che accompagna la vedova sul carro funebre, esplicitamente definito uno spettro nei credits del film, e la bellissima donna che vive nella stanza del prete, che forse rappresenta il diavolo, forse la morte o chissà che altro.

Il clima surreale del film si tiene lontano dalle tentazioni psichedeliche e sperimentali di altre pellicole dell'epoca (facile citare Matalo!), ma si rifà piuttosto allo stile freddo e distaccato dalle pellicole di Buñuel, dove anche le cose più improbabili e assurde venivano raccontate con un tono impassibile e straniante. Di marca surrealista è sicuramente l'impietoso distacco e il sottofondo di acre sarcasmo con cui vengono mostrate le numerose scene di violenza, un bel campionario di omicidi a sangue freddo, fucilazioni e impiccagioni. Non mancano neppure i simboli religiosi mostrati in chiave incongrua e blasfema, come l'angioletto di pietra che il personaggio di Robert Shaw restaura e accudisce per tutto il film o il cadavere di Telly Savalas esposto in una posa che ricorda il martirio di San Sebastiano. Alcune sequenze richiamano inoltre alcuni episodi della Guerra Civile spagnola. L'inizio nella chiesa, con i rivoluzionari che uccidono i notabili del paese e poi fucilano simbolicamente l'altare, rimanda ad azioni realmente compiute dai partigiani anarchici.

La trama, complicata e oscura, rispetta poche regole del classico racconto avventuroso. Quello che dovrebbe essere il protagonista resta in disparte e inerte per gran parte del film, personaggi che sembrano centrali vengono uccisi in maniera spiazzante e inaspettata, mentre alcune sequenze chiave non vengono neanche mostrate (ma questo lo scriviamo con il beneficio del dubbio, dato che come dicevamo del film circolano versioni variamente sforbiciate).



I difetti del film sono intuibilmente figli delle sue ambizioni. Per quanto inventive, regia e sceneggiatura non possiedono abbastanza lucidità e compostezza per controllare tutti i loro simbolismi. Alcune allegorie finiscono quindi per essere un po' facili, come il retorico metaforone finale in cui si scopre che il leggendario condottiero che tutti stanno cercando non sarebbe una persona concerta, ma una personalità che di volta in volta si incarna e rinasce nel paladino rivoluzionario di turno. Altrove si rischia di esagerare in bizzarrie fine a se stesse, come nel delirante flashback in cui della gente balla in un saloon americano al ritmo di un'anacronistica hit rockabilly del 1959, The Battle Of New Orleans di Johnny Horton, sequenza non a caso sforbiciata in diverse versioni.  

Da lustrarsi gli occhi il cast. Robert Shaw è fin troppo serioso e pecca in qualche uscita eccessivamente teatrale, ma è affascinante e torvo al punto giusto.
Anche se veniva da una lunga fila di apparizioni in decine di telefilm western, il sempre ottimo Martin Landau non sembra avere una faccia troppo adatta per il genere, ma in un film tanto inconsueto ci può stare tranquillamente un villain con un'aria diversa dal solito come la sua.
Chi sembrava invece nato per fare film di questo tipo è Telly Savalas, al solito poderoso nel miscelare ironia sorniona e sadismo. Da antologia la sequenza in cui, serafico, fa impiccare una coppia di coniugi assassini e per buon conto fa ammazzare anche la madre di lei che si lamenta. Dopo che il suo personaggio esce di scena il film perde qualcosa.
Presenza quasi fissa in questi western euro-americani, Fernando Rey contribuisce ad accentuare l'aria buñueliana del film, dato che era uno degli attori feticcio del grande regista spagnolo. Stavolta fa un cieco, paradossale testimone in grado di svelare il segreto che tutti vogliono scoprire.
Stella Stevens, nota per la parte della vitale prostituta in La ballata di Cable Hogue di Peckinpah, stavolta non si spoglia, fa la dama in nero con tendenze necrofile, ma riesce ad essere comunque molto sexi.
Infine il cast secondario è tutto un fiorire di faccioni dei caratteristi più tipici degli spaghetti western, come Aldo Sambrell, Luis Rivera, Tito Garcia, Cris Huerta. Unica invece nel genere la presenza di Al Lettieri, qui al primo dei suoi due soli western per il cinema. Il secondo sarà tutto americano, anche se inizialmente doveva essere un'altra coproduzione girata in Almeria, La rossa ombra di Riata.  

Grande merito nella creazione dell'atmosfera tesa e allucinata che attraversa tutto il film va alla splendida colonna sonora, creativa e suggestiva, del compositore argentino Waldo de los Rios.

martedì 9 aprile 2013

i film - Il ritorno dei magnifici sette



La prima grossa e convinta produzione western americana girata in Spagna fu proprio il sequel di un film che aveva avuto un'enorme influenza sulla nascita e l'estetica degli "spaghetti", I magnifici sette di John Sturges del 1960, noto remake in chiave western de "I sette samurai" di Kurosawa. Per quanto non privo di spunti interessanti il seguito non lo si può definire particolarmente brillante, ma fissò alcuni elementi che poi torneranno spesso nei western euro-americani: l'ambientazione in un Messico folkloristico e stereotipato, il commando di uomini impegnati in un'impresa disperata, spettacolari sequenze d'azione vicine all'estetica dei film bellici, la presenza di attori come Fernando Rey, Julián Mateos, Elisa Montés e lo stesso Brynner, che saranno tra i volti più ricorrenti di questo tipo di produzioni.

1966 Il ritorno dei magnifici sette (Return Of the Seven)

di Burt Kennedy con Yul Brynner, Robert Fuller, Julián Mateos, Warren Oates, Claude Akins, Elisa Montés, Fernando Rey, Emilio Fernández

Chico, il giovane peone dei magnifici sette originali, viene sequestrato insieme a tutti gli uomini del suo villaggio. Il rapitore è un signorotto locale in cerca di schiavi per la ricostruzione di una chiesa in memoria dei figli morti. In aiuto del giovane accorrono i due altri sopravvissuti del film precedente, Chris e Vin, ai quali si aggiungono quattro nuovi compari.

L'originale è oggi generalmente considerato come l'ultimo grande titolo del western classico americano, perlomeno a livello di successo commerciale e capacità di imporsi nell'immaginario collettivo. Il prototipo ebbe un successo strepitoso soprattutto in Europa e la presenza di futuri idoli del cinema degli anni 60 e 70 del calibro di Steve McQueen, Charles Bronson, James Coburn e Eli Wallach gli da un'aria curiosamente più moderna di quella del sequel. Erano passati solo sei anni dal film precedente, ma in effetti questo Ritorno era nato già vecchio. In un 1966 segnato da western come Il Buono il brutto il cattivo, Django e La Resa dei conti, le vicende vagamente cavalleresche e i dilemmi etici dei sette pistoleri/samurai avevano perso irrimediabilmente fascino e interesse. Infatti il film gira a vuoto e, come gli altri due sequel che verranno, ha anche il grave difetto di riprodurre in maniera pedissequa e ossessiva tutte le tappe narrative dell'originale: sopruso iniziale / arruolamento dei sette pistoleri / primo scontro / dilemmi psicologici e fraternizzazione con la popolazione / scontro finale e sacrificio.



Ma se non è un film riuscito riesce ad essere almeno un film interessante. Pur ricalcandone lo schema dura un'ora in meno dell'originale, con la sceneggiatura del futuro regista horror di culto Larry Cohen che snellisce parecchio le parti moraleggianti e punta quasi tutto sull'azione. Nell'ultima mezz'ora di film non si fa quasi altro che sparare, con un gran lavoro degli stuntman e (purtroppo) un gran stramazzare di cavalli. Il finale è mortifero e spettacolare, con un'aria quasi da war-movie. I sette lottano asserragliati in una fontana contro centinaia di avversari e il cattivo interpretato da un minaccioso Emilio Fernández esce di scena con una grande morte, forse l'unica cosa realmente memorabile del film. Interessante anche il cambio d'atmosfera rispetto all'originale. Il Messico è visto sempre come una specie di terra senza tempo medievaleggiante, ma si respira un'atmosfera triste, da tragedia permanente. Alla fine la pace ritrovata dei contadini appare una cosa  fragilie e precaria, priva di quella speranza in un'armonia universale mutuata da Kurosawa. Oltre all'influenza degli spaghetti western, probabilmente era l'aria dei tempi ad essere diventata più cupa, con i telegiornali di tutto il mondo pieni di immagini dei villaggi del Vietnam, messi a ferro e fuoco quanto e più di quelli dei poveri peone della serie.



Del cast del primo film torna solo un imbronciato Yul Brynner. Se la sostituzione di Horst Buchholz con Julián Mateos nei panni di Chico è abbastanza indolore, non si può certo dire che l'anonimo Robert Fuller non faccia rimpiangere il Vin di Steve McQueen. Incolori anche gli altri quattro nuovi "magnifici". Si fanno notare comunque un già ghignante Warren Oates, alle prese con un troppo stereotipato personaggio di pistolero donnaiolo, e un insolitamente cupo Claude Akins, futura star di commedie televisive (lo sceriffo "Lobo"). Alla fine quello che esce meglio è il già citato Emilio Fernández, che da vigore e personalità al classico capo dei bandoleros con baffoni e sombrero, e che sembra fare le prove generali del Generale Mapache de Il mucchio selvaggio.

venerdì 19 ottobre 2012

i film 50 - Tempo di terrore / Tempo di uccidere


1967 Tempo di terrore o Tempo di uccidere (Welcome to Hard Times)
di Burt Kennedy con Henry Fonda, Janice Rule, Aldo Ray, Janis Pai, Keenan Wynn, John Anderson, Warren Oates, Denver Pyle, Lon Chaney Jr, Elisha Cook Jr., Edgar Buchanan, Royal Dano.

Ci siamo già imbattuti altre volte in Burt Kennedy. Grandissimo sceneggiatore di western aspri e affascinanti negli anni 50, tra cui cinque celebri titoli diretti da Budd Boetticher e un paio di non meno preziosi gioielli diretti da Gordon Douglas (L'urlo dei comanches e La guida indiana). Nel 1961 esordisce alla regia con I canadesi, bel racconto di foreste nordiche e giubbe rosse con cui sembra voler continuare il discorso fatto con Boetticher e Douglas.
Invece, incredibile a dirsi, Kennedy detestava i western che sceneggiava. Odiava la violenza e amava l'ironia, per cui per tutti gli anni 60 e 70 si specializzerà come regista in commedie western, dove a farla da padrona sarà la farsa più bonacciona e innocua. Parliamo di titoli non certo memorabili quali Il dito più veloce del West, L'infallibile pistolero strabico, Dingus: quello sporco individuo e Quel maledetto colpo al Rio Grande Express (l'ultimo suo western per il grande schermo e il migliore della serie, anche perché il meno umoristico). Film che a onor del vero in America riscuotevano anche un lusinghiero successo.
A nostro parere un enorme spreco di talento, perché le volte che invece faceva sul serio Kennedy ha dimostrato spesso di essere un regista non banale e parecchio originale, con film come La Texana e i fratelli Penitenza (a dispetto del cretinissimo titolo italiano un western serissimo), il notevole euro-western La spina dorsale del diavolo e una buona imitazione dei western urbani di Hawks come Appuntamento per una vendetta.

Ma il suo film più originale è senz'altro questo misconosciuto e dimenticato film del 1967 "Tempo di uccidere" (o "Tempo di terrore"). Film ambiguo fin dal titolo originale "Welcome to Hard Times" dove al significato letterale se ne aggiunge uno più specifico, dato che Hard Times è anche il nome del desolato paesino in cui si svolge tutto il film.
Il carattere inclassificabile della pellicola è ben evidenziato dai più disparati titoli che il film collezionerà in giro per il mondo: in Gran Bretagna è "Killer on a Horse" (titolo che riprende una delle scene più crude del film), in Francia è "Frontiere in fiamme" (Frontière en flammes), nei paesi di lingua tedesca è "L'incendiario dell'Arkansas" (Mordbrenner von Arkansas), per i finlandesi è "Lo straniero sta arrivando" (Muukalainen lähestyy), in Brasile diventa "L'uomo con la morte negli occhi" (O Homem Com a Morte nos Olhos), in Spagna "Una pallottola per il diavolo" (Una bala para el diablo).


In un minuscolo paese giunge un giorno uno straniero (Aldo Ray) che si rivela essere una vera furia della natura. Senza dire una parola, ridendo soltanto, l'uomo violenta, uccide, appicca un incendio che distrugge mezzo paese e se ne va. Il paesino semidistrutto viene abbandonato da tutti, tranne che dal sindaco (Henry Fonda), una prostituta violentata dallo straniero, il figlio dell'unico uomo del paese che aveva provato a reagire e un misteriso stregone indiano che fa le veci del dottore. Il paese si ripopola con l'arrivavo di un avido pappone e le sue quattro prostitute, il fratello gemello di uno dei vecchi abitanti e un becchino pistolero (Warren Oates). Ma passato l'inverno lo straniero ritorna...


Tratto da un romanzo di E.L. Doctorow è il western più ambizioso di Kennedy, dove riesce a fondere un suo personale discorso sulla violenza con quei suoi soliti ritratti di gente stravagante, la cui umanità nelle sue commedie veniva soffocata però dalla esigenze ridanciane. Pur mettendo in scena un west fangoso e disadorno, non è un film realistico. In tutta la pellicola si respira un'atmosfera strana e irreale, satura di presagi misteriosi. È un western unico nel suo genere, non più classico, non ancora crepuscolare, ma men che mai è influenzato dall'allora imperante western all'italiana. Le sequenze violente anticipano forse le sequenze più allucinate dei western di Clint Eastwood, mentre le parti più da commedia, con i continui e inaspettati scarti tra dramma e ironia, fanno pensare al Peckinpah de La ballata di Cable Houge, ma con un sottofondo molto più inquietante.


I primi venti minuti, con lo straniero che porta morte e distruzione nel paese in maniera imprevedibile e bestiale, culminanti con la visione infernale dell'incendio, sono un grandissimo pezzo di cinema. Poi il film diventa una stralunata commedia umana, popolata da personaggi dalle evidenti valenze metaforiche, ma che non diventano mai dei rigidi simboli, grazie alla salutare ambiguità delle caratterizzazioni e all'imprevedibilità della vicenda.
Tutto sembra costruito per arrivare al riscatto conclusivo della meschina umanità messa in scena, invece il finale è quanto di più spiazzante si possa immaginare, con la violenza che si rivela incontrollabile e i cui effetti saranno ancora più amari e devastanti della prima volta.


Memorabile l'inquietante straniero senza nome interpretato da un sanguigno Aldo Ray, che porta la rovina in autunno e riappare in primavera, quasi diventando l'incarnazione delle angosce della piccola comunità, che si sta sfaldando dopo non essere riuscita realmente a solidarizzare durante l'inverno (bellissima la sequenza della festa di Natale, in cui dopo un attimo di trovato senso di comunità tutti finiscono per passare la notte da soli). Lo straniero appare quindi come una sorta di punizione biblica. Inoltre la figura dell'energumeno feroce che senza motivo porta distruzione nei paesini isolati era un personaggio tipico del folklore americano ottocentesco. 

Decisamente unico nel genere è anche il protagonista interpretato da un fragile Henry Fonda, un avvocato e sindaco dal nome emblematico: Blue. Un idealista tormentato e vigliacco, che pur in buona fede sbaglierà tutto fino alla fine, non solo incapace di proteggere e salvare chi gli sta a cuore, ma anzi artefice della tragedia finale.


Il film è popolato da tutta una serie di personaggi interpretati da un'eccezionale parata di alcuni dei più noti caratteristi americani di quegli anni. I nomi si possono leggere in cima a questo articolo e nella maggior parte dei casi diranno molto poco, ma le facce sono quelle famigliari a tutti gli appassionati di cinema americano. 

L'unica nota negativa riguarda l'irritante e troppo convenzionale colonna sonora di Harry Sukman, che nei momenti di relativa calma sembra voler far passare il film per la solita gioviale commedia western di Kennedy. Fortunatamente più efficace (o non presente) nei momenti di tensione.

giovedì 15 marzo 2012

i film 20 - La spina dorsale del diavolo

LA SPINA DORSALE DEL DIAVOLO (The Deserter) 
di Burt Kennedy (e Niksa Fulgozi?), con Bekim Fehmiu, John Huston, Richard Crenna, Chuck Connors, Ricardo Montalban, Ian Bannen, Slim Pickens, Woody Strode, Patrick Wayne



Notevole western violento, oltre che inconsueta coproduzione italo-statunitense-jugoslava (com’era nello stile di Dino De Laurentiis), ragione per cui nella versione europea viene accreditato come regista lo slavo Niksa Fulgozi, mentre in tutte le altre Burt Kennedy, regista americano che poi tornerà in Europa per dirigere l’altrettanto riuscito La texana e i fratelli Penitenza.
Il film, come detto, si distingue per un inconsueto tasso di violenza, già a partire dal feroce incipit che vede la moglie del capitano protagonista scuoiata viva con il nostro costretto a darle il colpo di grazia, dal che si può anche capire perché decida di disertare e dedicare la sua esistenza allo sterminio degli indiani, andando a vivere nel deserto insieme a un cane lupo addestrato ad aggredire i pellerossa. Si capisce un po’ meno il suo look alla Sandokan, ma vabbè...
L’ex-capitano ritornerà nelle file dell’esercito quando un generale un po’ beone, interpretato da uno John Huston perfettamente calato nella parte, deciderà di fargli addestrare un reparto di disperati per andare a massacrare gli apaches nel loro territorio, cioè oltre la spina dorsale del diavolo (che è una catena di montagne).
La pellicola, come si vede, ha ben poco di europeo e guarda esplicitamente ai modelli americani, in particolare Sierra Charriba di Sam Peckinpah e soprattutto Quella sporca dozzina di Robert Aldrich, andando in controtendenza rispetto ai prodotti filo-indiani del periodo e adottando un punto di vista sugli apaches poco politicamente corretto e simile al contemporaneo Nessuna pietà per Ulzana, tanto che venne accusata da alcuni critici di razzismo e compiacimento della violenza.



Al di là di queste disquisizioni, che lasciano tutto il tempo che trovano, il film è un solido revenge-western “di missione”, interpretato da un efficacissimo e particolarmente assortito cast internazionale che comprende lo slavo Bekim Fehmiu (recentemente scomparso e doppiato magistralmente da Pino Locchi), per cui la pellicola doveva essere veicolo per una mai nata carriera hollywoodiana, come gran protagonista, tosto e carismatico al di là del look un po’ assurdo, gli americani Richard Crenna e Chuck Connors, John Huston, Woody Strode che torna a vestire la divisa dell’esercito dopo I dannati e gli eroi di Ford, il grande caratterista peckinpahiano Slim Pickens, il figlio di John Wayne, Patrick, lo scozzese Ian Bannen, il messicano Ricardo Montalban (che tanto per cambiare interpreta la parte di un indiano), gli italiani Fausto Tozzi, Lucio Rosato e Mimmo Palmara (che è il cattivissimo capo apache).
Bella la fotografia di Aldo Tonti e gli esterni in Spagna e Jugoslavia (gli interni, invece, vennero girati a Roma). Un po’ troppo roboante la colonna sonora di Piero Piccioni. La sceneggiatura è del noto romanziere western Clair Huffaker. Burt Kennedy nel suo libro Hollywood Trail Boss, in cui racconta i dietro le quinte dei set dei suoi film western, riporta un’interessante diario dell’avventurosa lavorazione del film.


John Huston, Burt Kennedy e Bekim Fehmiu sul set del film

venerdì 3 febbraio 2012

i film 6 - La texana e i fratelli Penitenza

1972 La texana e i fratelli Penitenza (Hannie Caulder) 
di Burt Kennedy, con Raquel Welch, Robert Culp, Ernest Borgnine, Christopher Lee, Jack Elam, Strother Martin, Diana Dors, Aldo Sambrell, Stephen Boyd


Western di produzione interamente inglese, girato in Spagna e diretto dall’americano Burt Kennedy.
Nonostante l’assurdo titolo italiano (tanto più che anche nel nostro doppiaggio i fratelli si chiamano Clemens e non Penitenza) e il fatto che Kennedy (storico sceneggiatore di Budd Boetticher) sia conosciuto soprattutto per i suoi western-commedia è un film del tutto serio e pure piuttosto violento, e anche il folle trio di fratelli interpretato da Ernest Borgnine, Jack Elam e Strother Martin, che rapinano, stuprano e uccidono, litigando come comari anche nel bel mezzo delle sparatorie, tutto sommato fa ben poco ridere.



Di tipicamente europeo, oltre a qualche caratterista locale come Aldo Sambrell, ci sono il sadismo, l’amoralità, i personaggi sopra le righe e le figure archetipiche dei bounty-killers, mentre l’estetica e la violenza, con gli schizzi di sangue in bella vista, sono sicuramente più vicine ai western di Sam Peckinpah (con Il Mucchio Selvaggio citato esplicitamente nella sanguinosa rapina alla banca iniziale), cosicché risulta davvero curioso vedere quello che sembra in tutto e per tutto un tipico western americano girato in Almeria negli stessi set di quello italiano.


Il film è costruito intorno alle grazie di Raquel Welch, nel ruolo della Hannie Caulder del titolo originale, una vedova che grazie agli insegnamenti di un cacciatore di taglie (Robert Culp) persegue la vendetta sugli assassini del marito e suoi violentatori. Se la cosa vi ricorda Uma Thurman in Kill Bill avete fatto centro: per Quentin Tarantino il film di Kennedy è “definitely of the revenge movies I was thinking about”.
La cosa che Tarantino ama di più del film è il grande Robert Culp, attore sottostimato e purtroppo scomparso di recente, davvero perfetto nel ruolo del maestro iniziatore, anche se nel doppiaggio italiano la sua voce è molto meno cool che in in originale.
Noi, più banalmente, confessiamo di preferirgli la bellissima Welch che, vestita unicamente di uno striminzito poncho, ci pare incarnare la più perfetta icona erotica western possibile, all’epoca infatti di grande successo e popolarità (tanto al suo look si ispirarono anche pubblicazioni a fumetti come la Raquel del nostro Stelio Fenzo).


Piuttosto curiosa, infine, la presenza di Christopher Lee, in uno dei suoi rarissimi ruoli non horror, quello dell’armaiolo messicano che costruisce la pistola su misura per la bella e spietata vendicatrice.

Mauro Mihich

giovedì 5 gennaio 2012

i registi 1 - Budd Boetticher

BUDD BOETTICHER
Il poeta dei B-Movie

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Ovvero quando la produzione seriale hollywoodiana non aveva il terrore di sembrare intelligente e quando capitava andava volentieri a spasso con l'arte.
 
La vita di Oscar Boetticher Junior (classe 1916) cambia durante un viaggio in Messico, dove perde la testa per la corrida, una passione sfrenata a cui sacrificherà matrimoni, salute e carriera (e diciamo pure "contento lui..."). In breve Boetticher baratta un' agiata vita da sportivone da college in America con un'esistenza da bohème in Messico. Ma è grazie a quella sua insana passione che un giorno entra nel cinema, come consulente tecnico di "Sangue e arena". Diventato regista, per tutti gli anni 40 dirigerà una serie di anonimi filmetti a bassissimo costo. E' solo negli anni 50 che la sua carriera ha una svolta. Neanche a dirlo l'occasione si presenta con un film sulla corrida, "L'Amante del torero", il cui soggetto è basato in parte sui suoi burrascosi trascorsi messicani. Il film è manomesso dai produttori, ma per Boetticher (che da qui in poi inizia a firmarsi come Budd Boetticher) è il lasciapassare per un cinema meno misero e soprattutto per il genere che lo renderà quasi famoso: dei venti film che dirigerà negli anni 50 tredici saranno dei western.

(Per completezza: oltre ai western girerà due notevoli gangster - "L'assassino è perduto" e "Jack Diamond gangster", il secondo da molti considerato il suo capolavoro - due mosci film d'avventure subacquee - "La città sommersa" e "Ad est di Sumatra" - un film bellico - "L'autocolonna rossa"- e, ovviamente, due film sui toreri - "L'amante del torero" e "Il grande matador".)

I suoi primi tre western chi li ha visti è bravo.

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1951 L'Ultimo fuorilegge (The Cimarron Kid)
di Budd Boetticher. Con Audie Murphy, Beverly Tyler

Dovrebbe essere il tipico western con Audie Murphy, nei panni per lui consueti del giovane pistolero irregolare che vive sul filo della legge. "Tratto da un racconto di Louis Stevens, [...] è il suo 1° western. Di normale amministrazione sino alla mediocrità, con una buona interpretazione di A. Murphy (Morandini)".

1952 Bronco Buster (inedito in Italia) 
di Budd Boetticher. Con John Lund, Scott Brady, Joyce Holden

Western (moderno?) inedito in Italia. Potrebbe essere interessante: racconterebbe la vita dei cowboy da rodeo specializzati nel cavalcare tori (vedi caso..), con uno stile semplice, realistico e anti-spettacolare. Quasi sicuramente più simpatico dei suoi film sulla corrida.

1953 Le Ali del falco (Wings of the Hawk) 
di Budd Boetticher. Con Abbe Lane, Van Heflin, Julie Adams, Antonio Moreno

Il suo unico western rivoluzionario. Un cercatore d'oro americano si trova coinvolto suo malgrado nella rivoluzione che sconvolge il Messico. "Uno dei 5 film che Boetticher diresse nel 1953. Un po' troppi anche per un regista bravo e svelto come lui. La confusione messicana è descritta con sagacia. Heflin piuttosto impacciato. Girato in 3D. (Morandini)"

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1953 Dan il terribile (Horizons West)
di Budd Boetticher.Con Rock Hudson, Robert Ryan, Julie Adams

Come il successivo, un film con protagonista Rock Hudson. La presenza della star significava per Boetticher un budget decisamente superiore ai suoi soliti e la possibilità di concedersi qualche ambizione psicologica, ma lo costringeva anche a toni lugubri e un po' melodrammatici per lui insoliti. Comunque realizzò due pellicole "gemelle" interessanti e affascinati. Due fratelli tornati dalla guerra imboccano strade opposte: uno diventa fuorilegge (Ryan ovviamente), l'altro un onesto cittadino (Hudson ancora più ovviamente). Inevitabile lo scontro.

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1953 Seminole
di Budd Boetticher. Con Rock Hudson, Anthony Quinn, Barbara Hale

Altra storia di fratellanza divisa dal destino. In questo caso sono di scena un ufficiale (Hudson) e il capo dei Seminole Osceola (Quinn), amici d'infanzia che si trovano a doversi fare la guerra. Western filo-indiano, antimilitarista, triste e pessimista, di grande fascino. Tradimenti e guerriglia sullo sfondo delle splendide paludi della Louisiana. Giustamente spesso citate le sequenze della fallimentare spedizione punitiva nella palude, con i soldati sfiancati dalla guerriglia che affondano letteralmente nella palude sotto il peso delle loro armi..

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1954 Il Traditore di Forte Alamo (The man from the Alamo) 
di Budd Boetticher. Con Glenn Ford, Julie Adams, Chill Wills

Altro gran bel film. Ingiustamente accusato di aver abbandonato i propri compagni a Alamo, un uomo dimostra la stoffa di cui è fatto vendicando la strage della sua famiglia e salvando da solo una carovana di sole donne dall'attacco dei banditi. Prima dell'incontro fondamentale con lo sceneggiatore Burt Kennedy, Boetticher dimostra già di avere le idee chiare sul tipo di western che vuole fare: niente psicologia, romanticismo o epica. Solo uomini che si battono per la vita e il loro personale codice morale. Lo stile è già quello secchissimo e senza fronzoli degli imminenti capolavori con Randolph Scott.

Il "ciclo Ranown"

Nel 1956 Boetticher stipula un accordo con il produttore Harry Joe Brown e l'attore Randolph Scott per produrre sette film che divennero poi noti come il "ciclo Ranown" (dal nome della piccola casa di produzione). Oltre che con il suo attore feticcio l'incontro fondamentale sarà quello con lo sceneggiatore Burt Kennedy (poi futuro regista specializzato in western comici), che sceneggerà cinque di quei sette film.

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1956 I Sette assassini (Seven Men from Now) 
di Budd Boetticher. Con Randolph Scott, Gail Russell, Lee Marvin, Walter Reed, John Larch

Un ex-sceriffo cerca i sette rapinatori che durante una rapina gli hanno ucciso la moglie. Basterebbe la strepitosa scena iniziale in cui Scott fredda i primi due, per capirlo: trattasi di un western praticamente perfetto. Un bosco, sabbia, rocce, un fiumiciattolo, qualche indiano, una strada cittadina e qualche comparsa: a Boetticher e Kennedy non serve altro per dare vita al loro west. "Assenza di introspezione psicologica, di folclore, di motivazioni storiche o sociali. Contano soltanto i fatti e l'ossessione della vendetta (Morandini)." E come negli altri film, c'è il contrasto tra la violenza tragica dettata dalla vendetta e quella cieca dettata dalla cupidigia. Resa dei conti finale da leccarsi i baffi. Nemesi di un sofferto Scott, c'è un minaccioso e strepitoso Lee Marvin.

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1957 I Tre banditi (The Tall T) 
di Budd Boetticher. Con Randolph Scott, Maureen O'Sullivan, Richard Boone

Scott stavolta è un cowboy come tanti, che pensa ai fatti suoi. Ma quando si vede preso in ostaggio insieme ad una donna da tre spietatissimi banditi deve ingegnarsi per eliminarli uno ad uno, sia per salvarsi sia per vendicare la morte di alcuni amici. Western essenzialmente di dialoghi, ma tesissimo e particolarmente violento (c'è di mezzo anche l'assassinio di un bambino). Tratto da un racconto di Elmore Leonard è un altro film di impeccabile sobrietà e bellezza, costruito con pochi elementi e pochi personaggi, modellati con magistrale essenzialità. A fianco di un lupesco Richard Boone nella parte del capo dei cattivi, un giovanissimo Henry Silva che fa già il pistolero glaciale.

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1957 Decisione al tramonto (Decision at Sundown) 
di Budd Boetticher. Con Randolph Scott, Noah Beery jr, John Carroll, Valerie French

Un film triste, pessimista, complesso, il più insolito del ciclo, il primo non sceneggiato da Kennedy. Tutto ambientato in una stalla e in un saloon, ribalta la situazione di "Mezzogiorno di fuoco": è il protagonista in cerca di vendetta che irrompe nella cittadina e rovina il matrimonio dell'avversario. Ma stavolta la cittadinanza è tutt'altro che passiva. Il personaggio di Scott non ha le idee molte chiare, il cattivo non è poi così cattivo e il finale spiazza le aspettative, soprattutto degli spettatori. Niente scontri etici o civili, ma solo conflitti umani e psicologici, dove nessuno rappresenta il Bene o il Male. A dispetto del titolo italiano Tramonto è il nome della cittadina (Sundown).

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1958 Il Cavaliere solitario (Buchanan Rides Alone) 
di Budd Boetticher. Con Randolph Scott, Jennifer Holden

Un cavaliere solitario arriva in una paesino ai confini col Messico e mette uno contro l'altro i due clan rivali che la dominano. Ricorda qualcosa la trama? Un altro western urbano, ma più spensierato e tradizionale, con tanto di protagonista raddrizza-torti a tempo perso, ripreso da una serie di romanzi pulp dell'epoca (limitato quindi l'apporto di Kennedy, nemmeno accreditato). Non c'è l'aria tragica dei film precedenti, anzi la prima parte brillante mette forse in evidenza il debito di Boetticher nei confronti del cinema di Hawks. Nella seconda, la migliore, ci sono delle belle scene violente imperniate sull'avidità umana, più tipiche per Boetticher. Colorato e divertente, autori e attori non sembrano prendersi troppo sul serio, ma senza perdere l'affiatamento e lo stile ormai collaudati.

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1958 L'Oro della California (Westbound) 
di Budd Boetticher. Con Randolph Scott, Virginia Mayo, Michael Dante

"[...]Probabilmente uno tra i meno riusciti. Anche perché manca il loro sceneggiatore abituale Burt Kennedy e la cosa si sente. La sceneggiatura è, non a caso, il vero punto debole del film: artificiosa, contorta e appesantita da un paio di inutili storie d’amore. Inoltre non parla di vendetta, come i precedenti, e anche se il cowboy interpretato da Scott è comunque sempre l’incarnazione di una giustizia superiore è un po' troppo morbido e bonaccione (in un paio di casi fa anche la figura del coglione, poi per fortuna si riscatta nel gran finale). Boetticher salva il tutto con la sua regia veloce ed essenziale (il film dura poco più di un’ora), asciutta e senza fronzoli, secca e violenta e Scott con la sua maschera quasi stilizzata di eroe western e la recitazione sotto le righe e sottilmente ironica, purtroppo al tempo assolutamente sottovalutata. La valorizzerà appieno qualche anno dopo Sam Peckinpah con il suo primo grande capolavoro, Sfida nell’Alta Sierra. Scena migliore l’assalto alla diligenza (una delle poche in esterni, Boetticher girava sempre con budget ridottissimi e non sempre se le poteva permettere), con annessa strage di donne e bambini: sembra quasi diretta da Walter Hill. (Mauro Mihich)"

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1959 L'Albero della vendetta (Ride Lonesome) 
di Budd Boetticher. Con Randolph Scott, James Coburn, Lee Van Cleef, Karen Steele

Per Scott ancora un personaggio spinto dal desiderio di vendetta. L'albero del titolo è la meta e il teatro della resa dei conti finale di questo ennesimo ed affascinante western del trio Boetticher, Kennedy, Scott. Immerso in paesaggi scabri e bellissimi è un film dove non mancano sparatorie e indiani cattivi, ma dove come sempre conta soprattutto il confronto psicologico tra il protagonista e i suoi avversari. Scontro che si combatte a viso aperto, tra battute di spirito e virili dichiarazioni d'intenti. Ennesimo western per palati fini, dove gli autori riconfermano una concisione e un' essenzialità incantevoli. Film d'esordio di James Coburn, ma c'è pure Lee Van Cleef... giusto per capire che sinfonia di facce viene suonata da Boetticher.

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1960 La Valle dei mohicani (Comanche Station) 
di Budd Boetticher. Con Randolph Scott, Nancy Gates, Claude Akins

Ultimo film e uno dei più belli del trio Boetticher, Kennedy, Scott. Il più poetico, il più scopertamente pessimista e malinconico, girato con uno stile ancora più prosciugato dei precedenti, esaltato dall'orizzontalità del Cinemascope. Indimenticabile la figura tragica del protagonista, che durante l'inutile ricerca della moglie rapita dagli indiani salva e si innamora invano della moglie di un altro, che in un finale disperato si rivelerà un rivale impossibile. Scott ha già la faccia triste e disillusa che lo renderà immortale due anni dopo in "Sfida sull'Alta Sierra" di Peckinpah. Sparatorie secchissime, personaggi che muoiono con il sorriso o una battuta sulle labbra, uso magistrale del cinemascope. Distillato di western puro al 200%.

Ultimi anni

Negli anni '60 Boetticher decide di mandare al diavolo la carriera e la sua vita cercando di girare un film sull'amico Carlos Arruza. Un celebre torero, manco a dirlo. Il documentario ("Arruza", che poi uscirà nel 1972) lo porterà al fallimento economico e umano, fino a spalancargli le porte della galera e persino del manicomio. Rinsavito, tornerà alla regia solo nel 1969, naturalmente con un western, ma ormai la sua carriera cinematografica era finita e il film rappresenterà il suo addio al cinema come regista.

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1971 A Time for Dying  
di Budd Boetticher Con Richard Lapp, Anne Randall, Robert Random, Victor Jory, Audie Murphy

Mai arrivato in Italia e visto da pochi anche in America. E' anche l'ultimo western di Audie Murphy (con cui Boetticher aveva girato proprio il suo primo western), la cui morte durante la postproduzione del film causò una serie di problemi legali che decretarono il fallimento commerciale del film e la sua invisibilità. Protagonista è un ingenuo pistolero, specie di Candido nel West, che viaggia nel West facendo vari incontri, tra cui alcuni personaggi leggendari, come Roy Bean e un attempato Jesse James (Audie Murphy). Western dal budget davvero troppo risicicato, crepuscolare più nelle intenzioni che nei risultati. L'unica cosa interessante è che pur impostato sui toni della commedia, si conclude con un finale che è un vero pugno in faccia agli spettatori, molto simile a quello de Il grande silenzio di Corbucci. Peccato che prima di arrivare a quel finale la storia giri a vuoto e i personaggi siano poco interessanti se non stucchevoli, simili a quelli dei western commedia che l'ex compare Burt Kennedy girava in quel periodo. Non quindi un canto del cigno, ma di sicuro un addio definitivo.

Budd Boetticher muore, se non proprio dimenticato, non troppo ricordato, nel novembre del 2001.