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martedì 18 settembre 2018

GOLD



2013 Gold
di Thomas Arslan di Nina Hoss, Marko Mandic, Peter Kurth, Uwe Bohm

Canada 1898: una piccola carovana di emigrati tedeschi viaggia verso ovest, attirata dal miraggio dell'oro. Mal gliene incolse.

Questo piccolo film tedesco, la cui uscita in questo blog avevamo pure segnalato all'epoca (con qualche dubbio) e che poi non avevamo piu' ripreso, nulla ha a che fare con gli avventurosi kraut western degli anni 60. Puo' funzionare, piuttosto, come una specie di cartina di tornasole del genere degli ultimi anni, dato che sembra racchiudere molti elementi che hanno caratterizzato diversi dei non molti, ma nemmeno pochi, western usciti in questo decennio ormai agli sgoccioli. C'e' l'ormai quasi irrinunciabile protagonista femminile (l'ottima e affascinante Nina Hoss), c'e' il ritmo tipico da film indipendente: "troppo lento" o "fascinosamente meditativo" a seconda dei gusti, c'e' la visione di un west scolorito e inospitale come non mai, c'e' il viaggio verso il nulla dominato dalla presenza costante della morte.

Gold assomiglia molto a Meek's Cutoff, ma l'opera minimalista di Kelly Reichardt potrebbe quasi passare per un normale film hollywoodiano in confronto a questa ancor piu' prosciugato film di viaggio all'insegna della morte, dove si parla ancora meno, dove i personaggi sono visti quasi come insetti e muoiono spesso da tali. Il fantasma di un altro titolo aleggia su tutta la pellicola, quello di Dead Man di Jim Jarmusch, del resto evocato esplicitamente dalla colonna sonora. E in effetti i personaggi, caratterizzati il meno indispensabile e tutt'altro che simpatici e accattivanti, sembrano dei tanti piccoli "dead men", immersi in un Far West piu' indifferente e letale dello spazio profondo, dove si puo' morire o cercare volontariamente la morte ad ogni passo, spesso per i motivi piu' futili e casuali. Raramente si e' visto un western piu' "ateo", sia in senso letterale, sia nel senso di "fede" nel genere cinematografico, dato che tutti i luoghi comuni del genere sembrano svuotati di ogni senso e possibile risvolto positivo. Al termine del film, dopo un ossessivo susseguirsi di alberi dopo alberi, non c'e nemmeno un qualche Cuore di Tenebra o la fine del viaggio, ma solo altra morte casuale e ancora altri alberi.

Operina a suo modo radicale, spietata e gelida, fatta apposta per respingere o per affascinare.

venerdì 14 settembre 2018

HOSTILES

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2017 Hostiles
di Scott Cooper con Christian Bale, Rosamund Pike, Wes Studi, Adam Beach, Q'orianka Kilcher, Rory Cochrane, Peter Mullan, Stephen Lang, Ben Foster

"Hostiles" e' un film interessante fin dall'idea di fondo che sembra sostenerlo: la visione dell'epopea del West come una guerra infinita e atroce, di cui il film racconta le fasi finali, tanto che tutti i protagonisti sembrano afflitti da una modernissima sindrome post traumatica da stress.
E' un film ben diretto da un solido artigiano come Cooper, che ha girato intorno al genere fin dall'esordio "Crazy Heart" (il ritratto di un cantante country alcolizzato, forse il suo titolo migliore perche' il piu' asciutto) e, ancora di piu', col successivo livido dramma suburbano "Il fuoco della vendetta".
E' un film che non ha paura di prendersi i suoi tempi e di assestare allo spettatore dei feroci pugni allo stomaco. E forse ancora piu' coraggiosamente e' un film che a livello di fotografia rinuncia agli standardizzanti e onnipresenti filtri odierni, facendo respirare gli splendidi paesaggi nei loro colori naturali.
Ed e', abbastanza ovviamente visto il cast di prim'ordine messo in campo, un film ottimamente interpretato.

Eppure a "Hostiles" manca qualcosa per fare quello scatto che eleva un buon film con tutte le sue cose in ordine a un bel film. O meglio, ha qualcosa di troppo, una specie di vergogna di raccontare quello che sta raccontando. Sostanzialmente sembra di vedere un western che chiede continuamente scusa di essere un western, con il senso di colpa che attanaglia il protagonista e i suoi compagni d'armi per il troppo sangue sparso che pare essersi trasferito agli autori. O viceversa.
Di questo vizio di base ne fa le spese la sceneggiatura, a volte claudicante con passaggi didascalici e fin troppo esemplificativi. Quando vediamo una giacca blu dell'ottocento in esaurimento nervoso che chiede letteralmente perdono ai "nativi", prima di farsi saltare il cervello, capiamo che non e' piu' il personaggio che parla, ma gli autori.

Vista la natura comunque dura e crudele del film il politicamente corretto provoca anche dei paradossi curiosi: tipo l'esasperata e continuamente rimarcata malvagita' di tutti gli avversari in cui si imbattono i protagonisti (stragisti, stupratori, prevaricatori, razzisti) che da visione foschissima della realta' del vecchio West rischia di scivolare nella paraculata, dato che finisce per giustificare agli occhi dello spettatore qualsiasi atto di violenza praticato dai "buoni".

Ad un certo punto viene anche citato, fin troppo esplicitamente, il monologo finale di Clint Eastwood de Gli spietati. Ma laddove per il personaggio di Eastwood l'aver "ucciso donne e bambini" e "creature che camminano e strisciano in tempi lontani" era un'ammissione di dannazione di dimensioni bibliche e dunque comunque epiche, lo stesso discorso messo in bocca a personaggi in preda a mille sensi di colpa (e un po' tutti dalla lacrima troppo facile) da' la sensazione di una visione quaresimale e alla fine manichea della Storia, con e senza la maiuscola.   

In definitiva, buon film "Hostiles", ma la cui affascinante cupezza odora a volte piu' di contrizione contingente che non di tragedia universale.

venerdì 9 dicembre 2016

The Homesman



2014 The Homesman
di Tommy Lee Jones con Tommy Lee Jones, Hilary Swank, Meryl Streep, Grace Gummer, Miranda Otto, Sonja Richter, David Dencik, John Lithgow, Tim Blake Nelson, James Spader; William Fichtner, Jesse Plemons, Evan Jones, Hailee Steinfeld 

Non ce ne vogliano Tarantino e i Coen, ma, come già undici anni fa con Le tre sepolture, anche in questi anni 10 Tommy Lee Jones è salito in cattedra (con gli stivali da cowboy) e ha sfoderato un'opera per cui potremmo riciclare le stesse identiche parole usate per descrivere il suo capolavoro del 2005: "Non solo il probabile capolavoro western del decennio, [...] ma uno dei più preziosi e solitari film americani degli ultimi anni."
Tutto questo almeno agli occhi dei non molti che hanno avuto la possibilità di vederlo. Circostanza particolarmente difficoltosa in Italia, dove la solita distribuzione demente ha provveduto a distribuirlo con due anni di ritardo e solo per il mercato home video.

Il quarto titolo da regista di Tommy Lee Jones - contando i due tv-movie The Good Old Boys del '95 e Sunset Limited del 2011, adattamento di un testo teatrale del molto affine Cormac McCarthy - è tratto dall'omonimo e ultimo romanzo di Glendon Swarthout, che negli anni 70 aveva già regalato al cinema western la storia per l'addio di John Wayne, Il Pistolero di Don Siegel.

The Homesman è un racconto di viaggio e di follia. Tre donne impazziscono per le impossibili condizioni di vita della frontiera. Per una sorta di riscatto personale una ranchera senza famiglia (Hilary Swank) si assume l'incarico di trasportarle con un carro all'est, dove potranno essere almeno accudite. Un vagabondo a cui la donna salva la vita (Tommy Lee Jones) diventerà il suo ispido e poco motivato compagno di viaggio.

Curiosamente nel 2008 era uscito un fiacchissimo filmetto per la tv con una trama molto simile, La febbre della prateria (Prairie Fever) di Stephen Bridgewater e David S. Cass, dove a dover trasportare nella prateria con un carro tre donne impazzite era Kevin Sorbo, l'Hercules televisivo degli anni 90. E già solo questo fa intuire la differenza di tono tra le due pellicole.



Come già ne Le tre sepolture l'attore-regista dimostra di possedere una sensibilità unica, sia come narratore laconico di personaggi indimenticabili e umanissimi, sia nel saper catturare su uno schermo la gelida e indifferente bellezza della natura, riuscendo a creare atmosfere sature e nitide, di un profondità allusiva che rimanda al miglior cinema americano degli anni 70. Un altro racconto di viaggio attraverso paesaggi splendidamente desolati, che diventano lo specchio crudele in cui i due protagonisti saranno costretti a specchiarsi.

The Homesman è anche un film sulla follia, raramente sbattuta in faccia allo spettatore in modo così diretto e brutale in un film di finzione, soprattutto americano. Non si fanno molti sconti allo spettatore nel mostrare cause ed effetti della malattia mentale delle tre donne. Nella prima mezz'ora di film Tommy Lee Jones usa delle sconnessioni temporali per creare un accavallarsi imprevedibile di brevi sequenze, in cui si mescolano pugni nello stomaco (un neonato gettato in una latrina) e episodi di ambiguità fantasmatica, in cui lo spettatore non sempre comprende se quel che vede è la realtà o sono situazioni filtrate dalla mente allucinata delle tre donne impazzite.



Come in altri titoli di questi ultimi anni è un film che mette in scena un punto di vista femminile sul West. Quello distorto delle tre donne malate, che fuggono attraverso la follia da una vita di una durezza insopportabile. E quello dispertamente solitario della protagonista, condannata a restare una "signorina" perché la sua ipersensibilità e il suo bisogno di calore umano sono scambiati per smania zitellesca di trovare "l'uomo di casa" del titolo. L'immagine di Hilary Swank che finge di suonare un piano ricamato su un tappetino è una folgorante metafora del labile confine tra sanità e malattia mentale, differenza spesso stabilita solo dal contesto. Ma pur mostrando simpatia per le sue anti-eroine Tommy Lee Jones non concede letture consolanti. Se il suo è un cinema che ritrae un mondo di perdenti e di esistenze al margine, le donne in quel mondo sono destinate alle sconfitte più feroci e totali. Nessuna cura attende le tre malate alla fine del viaggio e anche il tentativo della protagonista di trovare una dignità per se stessa e per le tre poverette verrà ripagato dalla realtà nel più spietato dei modi.

Allo stesso tempo è impossibile non provare simpatia per il personaggio interpretato dallo stesso Tommy Lee Jones, nonostante sia un concentrato di tutti i peggiori vizi che si possono attribuire ad un maschio adulto: vagabondo, perditempo, sporco, rozzo, insensibile, egoista, all'occorrenza assassino spietato. L'incontro con le quattro donne lo costringe per un momento ad uscire dalla sua vita stordita e senza scopo, ma è una crescita umana da cui ricaverà solo rimorsi e il realizzare della sua irrimediabile solitudine.

La presenza di Hailee Steinfeld, nella parte della ragazzina a cui il protagonista fa una tragicomica proposta di matrimonio, suggerisce un accostamento con la recente versione de Il grinta. Se il film dei Coen descriveva un mondo in cui il paradosso e l'irrazionale erano dentro la realtà stessa delle cose, Tommy Lee Jones si spinge un po' più in là descrivendo un mondo in cui è la follia ad essere insita in ogni cosa, nella crudeltà inconcepibile della natura, nella violenza irrazionale che sembra governare il comportamento di tutti i personaggi che i protagonisti incontrano durante il viaggio.



Quello che Tommy Lee Jones ricava dal romanzo di Swarthout è anche un affondo politico nerissimo e spietato nei confronti dell'America dei giorni nostri. La metafora non potrebbe essere più esplicita e potente quando si assiste ad una delle rese dei conti finali più nichiliste e casuali mai viste. Resa dei conti non gratuita, però. Con la stessa rabbia senza speranza con cui il suo personaggio porta a compimento una vendetta che non porta alcun sollievo o senso di giustizia, così l'autore descrive una grande nazione fondata sul sangue e il sacrificio di pionieri poveracci e disperati, dove alla fine però a stabilire chi possiede cosa, a spartirsi la torta e a banchettare (letteralmente) sono solo i più ricchi e avidi. Una visione del tutto simile a quella del Cimino de I cancelli del cielo (significativa la presenza di un cameo di Meryl Streep, scoperta proprio da Cimino ne Il cacciatore), probabilmente meno scandalosa solo perché quello di Tommy Lee Jones è un film a basso costo, non un kolossal eretico che "spreca" una montagna di dollari per attaccare una società fondata sul dollaro.

Una visione che a poche settimane dalla grottesca vittoria di Trump acquista ulteriore lucidità e si illumina di luce ancora più sinistra, ma che non è ottusamente manichea. Il film si guarda bene infatti dallo scadere nella retorica inversa e non idealizza in nessun modo la figura del povero colono e dell'America provinciale, di cui anzi mostra la violenza, la grettezza, l'egoismo, l'insensibilità e soprattutto la profonda ipocrisia morale.

I tentativi di ristabilire un po' di giustizia nelle cose o anche solo i semplici atti di gentilezza sono sterili e spesso postumi: la vendetta senza catarsi del protagonista, il tentativo di dare alle tre donne impazzite un'esistenza più dignitosa da cui probabilmente non trarranno comunque beneficio, il tema delle sepultura come ultimo ed estremo atto di rispetto della dignità umana. Tema quest'ultimo che riporta a Le tre sepolture, film che nella sua cupezza necrofila lasciava nel finale uno spiraglio alla speranza, una possibilità di riscatto attraverso l'assunzione (pur coercitiva) di un senso di responsabilità verso il prossimo. Spiraglio di speranza negato in The Homesman.

Il finale è solo oblio, solitudine e disperazione affogata nell'alcool. Le uniche paradossali testimoni della vicenda sono tre donne, rese virtualmente cieche e mute della loro follia. Il tempo cancellerà ogni cosa, come la corrente del fiume porta via la lapide di legno, in una delle immagini finali più potenti e sconsolate del cinema recente.



Nel ruolo potenzialmente scivoloso delle tre malati mentali se la cavano con classe e intensità Grace Gummer, figlia di Meryl Streep, la collaudata caratterista Miranda Otto e l'attrice danese Sonja Richter.

Hilary Swank aggiunge un altro indimenticabile personaggio nella sua galleria di beautiful loser al femminile. Riesce a commuovere senza essere lacrimosa, rendendo in pieno le sfaccettature di un personaggio tanto apparentemente spigoloso e prosaico quanto alla fine fragile e poetico.

Tommy Lee Jones sembra uno dei pochi veri sopravvissuti della New Hollywood, stagione che per altro lo vide come attore di seconda fila. Mentre molti divi di quell'epoca sono tristemente decaduti, il suo carisma e la sua figura sono invece cresciuti, rendendolo oggi una specie di Clint Eastwood alternativo, meno glamour e ancora più fuori dalle mode.
Tempo fa fece molto ridere l'immagine di lui unico serio in mezzo a una ridanciana folla hollywoodiana. Anche si fosse trattato di una posa o di una gag preparata, è un'immagine che ci sembra rappresentare alla perfezione i suoi film da autore completo, un cinema adulto e serio in un panorama cinematografico sempre più infantile e scemo.

Del resto, in confronto a un film complesso, profondo e esemplare come The Homesman, anche alcuni film recenti trattati bene e benino in questo blog ci fanno un po' la figura di film per bambini.

venerdì 2 dicembre 2016

Kill Or Be Killed



2015 Kill Or Be Killed
di Duane Graves, Justin Meeks con Justin Meeks, Paul McCarthy-Boyington, Gregory Kelly, Deon Lucas, Bridger Zadina, Larry Grant Harbin, Arianne Martin, Luce Rains, Timothy T. McKinney, Edwin Neal, Michael Berryman

Una banda di tagliagole, dopo aver fatto evadere un loro complice, si mette in viaggio per andare a recuperare il bottino di una rapina. Durante il tragitto si lasceranno dietro una scia di sangue. Oltre agli sceriffi qualcosa di ben più temibile si metterà alle loro calcagna.

Bella sorpresina, che riconcilia con la spesso frustrante abitudine di rovistare nel cinema più marginale e arrabattato in cerca di perle misconosciute. Weird western, a conti fatti più western che weird, con una componente thriller al limite dell'horror, omaggiando il cinema più cinico e sensazionalista degli anni 70.

Mettiamo in chiaro la natura del film: trattasi di pellicola dignitosamente guardabile, ma assolutamente e implacabilmente low budget. Le scene d'azione sono girate al risparmio, con spari e incendi visibilmente aggiunti in post-produzione, e gli attori sembrano per lo più non-professionisti. Dice tutto che il maggior valore produttivo del film sia il fulmineo cameo di Michael Berryman, caratterista lombrosiano dal distintivo testone a cono visto in decine di b-movie dagli anni 70 ad oggi. Per altro utilizzato in una particina in cui potrebbe esserci stato chiunque altro al suo posto. Berryman è anche produttore associato del film; a naso potrebbe significare che ha lavorato gratis o per un tozzo di pane e che gli è stato promessa una parte degli (improbabili) incassi del film.

Insomma, se cercate un film fatto come dio comanda, professionale e rifinito, rivolgete la vostra attenzione pure ad altro. Se invece siete in vena di godervi lo spettacolino di un luciferino e ghignante gran-guignol allestito nel vecchio West, accomodatevi. Non è detto che ne resterete soddisfatti, ma troverete pane per i vostri denti.



Come altri western a basso budget, ma con una certa ambizione, di questi anni, Kill Or Be Killed racconta di un percorso verso il nulla e la morte. Intuizione visiva felice che il punto di arrivo del viaggio dei personaggi, il nascondiglio del bottino, sia segnato da un buco su una mappa. La storia inizia come una commedia violenta e picaresca, ma ben presto diventa un piccolo viaggio all'inferno, con un accumularsi di nefandezze che crea un clima malato di totale amoralità. Poi si trasforma ancora in uno slasher stralunato, privo di una suspense tradizionale, dove gli omicidi sembrano punizioni bibliche. Il finale, onirico e agghiacciante, è uno di quelli capaci di far venire la bava alla bocca agli appassionati della verosimiglianza, ma per chi scrive è il colpo di coda finale che eleva il tutto da filmetto interessante a operina compiuta, con una sua poetica e una sua ragione di esistere.

Lo sviluppo narrativo è quanto meno sgangherato, con almeno un paio di personaggi interessanti che si perdono per strada (tra cui un prete bellicoso), ma Kill Or Be Killed è anche un film a suo modo ben calibrato, non una pellicola che si limita a spingere biecamente il tasto della violenza. Violenza che infatti più che mostrata viene fatta intuire, esibendone più spesso le conseguenze. Le scene più crudeli vengono sempre lasciate fuori campo, con l'effetto di risultare più inquietanti, mentre abbondano invece i particolari più grotteschi (uno dei protagonisti quasi in ogni scena subisce una qualche mutilazione). Una probabile costrizione dovuta alla ristrettezza del budget trasformata in una scelta stile.

Soprattutto è un film coerente che sa creare un suo piccolo mondo allucinato. Il west messo in scena è un posto grottesco e squallido, popolato solo da prede e predatori, dove si uccide casualmente e in genere per i motivi più meschini e stupidi. Nel cervello di quasi tutti personaggi del film non alberga troppa intelligenza. A cominciare dai protagonisti. Una banda di mezzi freak i cui delitti vanno dall'omicidio a sangue freddo allo stupro, che vediamo anche commettere piccoli crimini miserabili, di solito furbamente evitati nel cinema che mette in scena dei fuorilegge. Tipo compiere una mezza strage per rubare le offerte di una chiesa o rapinare poveracci come prostitute e barcaioli.



I due registi, Duane Graves e Justin Meeks (il secondo anche attore protagonista non male, che qui mostra una vaga somiglianza con Oliver Reed, anche per via della stazza), sono una coppia di sinceri appassionati del vecchio cinema da drive in e dei grindhouse. Tra i molti emuli dunque dei soliti Tarantino / Rodriguez / Rob Zombie, ma meglio della maggior parte di quei molti. I loro due precedenti lungometraggi sono due horror che, dai trailer, sembrerebbero interessanti: The Wild Man of the Navidad del 2008, dall'originale e pittoresca ambientazione redneck, e Butcher Boys del 2012, che pare una specie di versione suburbana di "Non aprite quella porta". Sembrerebbero particolarmente ispirati nel trovare l'orrore in contesti tipicamente americani, intrisi di folklore e disagio sociale, cosa che accade anche in questa loro terza prova .

martedì 22 novembre 2016

Forsaken / Il fuoco della giustizia



2016 Forsaken / Il fuoco della giustizia
di Jon Cassar con Kiefer Sutherland, Donald Sutherland, Demi Moore, Brian Cox, Michael Wincott

Modello figliol prodigo, pistolero ammazzasette torna a casina dal babbo predicatore, al quale promette di appendere la pistola al chiodo e di rinunciare per sempre alla violenza. Ma visto che il paese è sotto il tallone della solita banda di mascalzoni dovrà cambiare idea. Ma con tutta calma, che il film non può finire dopo mezz'ora.

Quante volte abbiamo visto messo in scena il canovaccio dell'eroe che per tutto il film non può reagire a qualche angheria, che subisce e sopporta, fino a quando nel finale esplode e fa fuori tutti?
Tante. E quasi sempre in infimi filmetti di serie C.
Proprio perché è un'idea infima e di terza categoria.
Il ricatto emotivo che dovrebbe innescare questo tipo di situazioni si scontra quasi sempre con la difficoltà di creare una motivazione sensata e non umiliante che giustifichi la prolungata passività del protagonista. Così finisce quasi sempre che i protagonisti di questi film, più che degli eroi con la pazienza di Giobbe, sembrino degli idioti masochisti. Esattamente quel succede anche in questo caso, con gli sceneggiatori che per allungare il brodino si dilungano in noiosi intrecci sentimentali e arzigogolate strategie dei cattivi, pur di rimandare l'inevitabile scontro decisivo alla fine del film.



Dopo anni di carriera in cui lo si ricordava generalmente solo come cattivo in due cult degli anni 80 come "Stand By Me" e "Ragazzi perduti", Kiefer Sutherland è diventato famoso e apprezzato nel nuovo millennio come protagonista della fortunata serie televisiva "24", nella parte del mastino federale Jack Bauer. Al di fuori fuori di quella serie, ci sembra però essere rimasto un attore normale, non molto carismatico, sicuramente poco portato per il western (genere che aveva per altro già frequentato), dato che sembra uno di quelli parecchio impacciati quando devono indossare un cappello e uno spolverino da cowboy.
Come se non bastasse qui si confronta con il leggendario padre Donald che, pur servito malissimo da una sceneggiatura che gli appioppa un personaggio monocorde e piuttosto stupido, sovrasta il figlio tanto a livello recitativio che fisico (quasi venti centimetri di dislivello tra padre e figlio).
Se Brian Cox nella parte del solito intrallazzatore cattivo è sprecato, l'unico personaggio potenzialmente interessante è quello affidato all'ottimo caratterista Michael Wincott, che qui incredibilmente non fa il solito personaggio laido a cui da anni è abbonato, ma un pistolero prezzolato con un suo codice d'onore. Peccato che non entri praticamente mai nella storia.



C'è davvero poco da aggiungere su un film che non si può dire brutto o particolarmente fatto male, ma irrimediabilmente mediocre, tedioso e totalmente insapore. Una robetta talmente innocua e banale che, c'è da scommettere, ci sarà sicuramente più di uno in giro che ne parlerà bene descrivendolo come un "buon vecchio classico western". Che può anche andare come definizione, se il termine di paragone per definire un "classico western", piuttosto che l'opera di un Anthony Mann, è La signora del west.

venerdì 18 novembre 2016

In a Valley of Violence



2016 In a Valley of Violence
di Ti West con Ethan Hawke, John Travolta, Taissa Farmiga, James Ransone, Karen Gillan, Burn Gorman, Toby Huss, Larry Fessenden

Che ci fa un giovane hipster nel vecchio far west? Nonostante il cognome non era facile immaginare un regista come Ti West alle prese con un genere come il western. Classe 1980, West è il più teorico, minimalista e se vogliamo furbo esponente della generazione di registi horror emersa dalla seconda metà dello scorso decennio. Il suo manifesto programmatico è "The HouseOf The Devil" del 2009, diventato meritatamente un piccolo cult di questi anni. Un film che per quasi tutta la sua durata mostra semplicemente una bella figliola che si aggira in una sinistra dimora, giocando così con divertita intelligenza sulle aspettative che un determinato genere di situazioni crea nello spettatore. Formula poi ripetuta praticamente identica anche nel successivo e narrativamente ancor più basico "The Innkeepers".

Alle prese con la polvere e il sole del western West resta fedele al suo stile narrativo ridotto all'osso, ma cambia registro, adottando un passo più classico e adulto. Se si diverte anche in questo caso ad aprire e mostrare gli ingranaggi del giocattolo lo fa in modo più sottile e meno apertamente sarcastico. Un approccio chiamiamolo più maturo comunque inevitabile, trattandosi del suo primo film di un certo rilievo produttivo, con attori non solo noti ma decisamente famosi come John Travolta e Ethan Hawke.



Il film ha le sembianze di un povero ma dignitoso b-movie di altri tempi, con pochi attori in scena e quattro case e un paio di anfratti come scenografie. La storia, semplicissima e lineare, sarebbe piaciuta ad un Budd Boetticher o a Elmore Leonard: un uomo arriva in una classica cittadina sperduta nel nulla, subisce un terribile sopruso e si vendica. Quasi tutto qui. Ma l'aderenza a un meccanismo narrativo basato su uno dei più semplici ed efficaci meccanismi di azione e reazione è solo apparente.

All'inizio pare infatti di trovarsi davanti ad una versione moderna di una di quelle commedie western anni 60 e 70 in cui era specializzato (ahinoi e ahilui) l'altrimenti talentuoso Burt Kennedy, con tanto di protagonista che si porta appresso una cagnetta intelligente e umanamente interattiva che sembra presa di peso da un qualche antico telefilm per ragazzi alla Rin Tin Tin. West lavora però sotto la superficie del mostrato, facendo intuire fin dalle prime scene la presenza di una violenza sotterranea che attende solo di esplodere. Quando poi ciò accade, e tutto sembra incanalarsi negli schemi prefissati di un truce e sanguinario revenge movie, West spiazza ulteriormente lo spettatore disattendendo quasi tutte le aspettative e frustrando ogni possibile catarsi.

Il risultato è un film non del tutto risolto, a tratti vistosamente difettoso, ma felicemente obliquo e ambiguo. Ambiguità riscontrabile già a livello visivo, visto che è un film dai temi e dall'anima molto americani, ma anche un chiaro omaggio ad una certi colori e suoni dei western all'italiana. I titoli di testa sono corredati da disegni pop come nei primi anni degli spaghetti western, c'è una bella colonna sonora fischiata (in cui si intromettono moderati accenni elettronici carpenteriani) e la fotografia ha toni spenti e cieli verdognoli come si trattasse di una pellicola degli anni 60 ingiallita dal tempo. Un filtro finto-vintage applicato con abbastanza buon gusto da non diventare quella patina monotona e posticcia di tanti prodotti nati sulla scia di "Grindhouse" di Tarantino e Rodriguez. A livello di storia e personaggi il film di West ha però poco o nulla da spartire con i prodotti nostrani, ricordando piuttosto certi dirty western americani degli anni 70.



Interessante il lavoro che West compie sui personaggi. Molti di loro nel corso del film si rivelano diversi da quello che appaiono in un primo momento, svelando spesso lati e motivazioni inaspettate. Lo sceriffo di John Travolta, che all'inizio sembra replicare per l'ennesima volta la figura del violento finto-sonnacchioso in cui si è specializzato dall'epoca di "Pulp Fiction", pur nella sua ambiguità si rivelerà il personaggio più umano della situazione. Invece il protagonista, a cui inizialmente va tutta la simpatia dello spettatore, farà emergere lati sempre più meschini e sgradevoli.

Ma soprattutto, esattamente come nei film del già citato Tarantino, quasi tutti i personaggi quando aprono la bocca si prodigano in dialoghi e monologhi estenuanti e torrenziali, che dilatano i tempi delle sequenze e ridefiniscono il ritmo dell'azione. L'unico privo di eloquio è proprio il taciturno protagonista. Tanto è vero che il torto maggiore di cui sembra volersi vendicare è quello di essere stato privato della sua unica opportunità di comunicare col mondo.



Se come stile West si riconferma regista di impeccabile sobrietà, pecca ogni tanto di mancanza della stessa nella scrittura. L'ambizione gli prende a volte la mano, alcune scene di introspezione scivolano nel melodramma e nel finale c'è qualche scena madre di troppo. Anche il livello politico della storia è reso in modo eccessivamente didascalico in alcuni dialoghi. Non c'era bisogno di sottolineare esplicitamente in un dialogo quanto il personaggio di Hawke sia il risultato della cattiva coscienza della Storia degli USA. Bastavano da sole le sue azioni o la bella sequenza onirica, un incubo che è l'unica scena a richiamare l'estetica dei film precedenti di West, per capire che ci troviamo davanti alla tipica "macchina da guerra" inceppata, il reduce alla Rambo o alla Travis Bickle che una volta privato di una guerra ne scatena una sua privata.

Nota conclusiva con avvertenza di SPOILER, se così vi piace (anche se bisogna essere spettatori ben ingenui per non immaginare fin dal trailer e dalle premesse iniziali cosa accadrà a metà film per scatenare la violenza del protagonista): "In a Valley of Violence" si aggiunge alla lista di storie degli ultimi anni che mettono in scena una storia di vendetta scatenata dalla morte violenta di un cane.

giovedì 3 novembre 2016

The Duel / By Way of Helena



2016 The Duel o By Way of Helena
di Kieran Darcy-Smith con Liam Hemsworth, Emory Cohen, Woody Harrelson, Alice Braga, William Sadler, Christopher Berry, Raphael Sbarge, José Zúñiga

C'è un Cuore di Tenebra nel Texas ai confini col Messico. Dal Rio Grande affiorano cadaveri di peones messicani che qualcuno ha ucciso e scalpato. I giustificati sospetti cadono sulla piccola e blindata comunità religiosa fondata dal luciferino Abraham (Harrelson). Quando sparisce anche la nipote di un generale messicano viene mandato ad indagare sotto copertura il giovane ranger David Kingston (Hemsworth), che ha la pessima idea di portarsi dietro la bella moglie messicana (Braga).

Ambientato in un West superstizioso e pentecostale, The Duel o By Way of Helena è un film narrativamente sfilacciato, ma interessante e affascinante, che ha il suo punto di forza in un'atmosfera da horror - thriller esoterico degli anni 70, pur per fortuna restando a tutti gli effetti un western e mantenendo gli eventi sempre su un piano realistico, anche se spesso ambiguo.

Un dtv con alcuni limiti di budget e visivi del mercato direct-to-video, ma con dentro più cinema di tanti film che arrivano in sala. 


I due titoli con cui circola il film si riferiscono alla medesima cosa. Il duello alla maniera di Helena (intesa come città) è la cruenta usanza di legare insieme due duellanti che si devono uccidere a vicenda con un coltello a lama corta. Così all'inizio del film il protagonista ancora bambino vede morire il padre, proprio per mano dell'uomo su cui da adulto dovrà indagare.
A dispetto di quel che suggeriscono gli strilli di locandina, il protagonista non è però mosso dallo scontato desiderio di vendicare il padre, ma piuttosto sembra voler conoscere meglio l'uomo che lo ha ucciso, andando forse anche in cerca di una figura paterna. Altri personaggi del film, a cominciare da quello della moglie, sono più o meno consciamente in cerca di qualcosa, ma la comunità guidata dal diabolico personaggio di Harrelson si rivelerà per tutti il contesto peggiore in cui risolvere un qualsiasi dubbio esistenziale o soddisfare un qualche inconfessabile desiderio.

Se per le atmosfere profondamente nordiche di Blackway si è sottolineato il fatto che il regista fosse svedese, qui si può notare come il regista Kieran Darcy-Smith sia australiano. Origine geografica a cui non si può fare a meno di ricollegare il senso di disagio e inquietudine che il film riesce a trasmettere, mettendo in scena un West dove il Diavolo e il Male sembrano essere di casa, standoci pure belli comodi. In qualche modo "australiana" pare anche la scelta di filmare una storia piuttosto cupa con una fotografia spoglia e luminosa, che dona al tutto una solarità malata.


La storia da una parte nutre ambizioni quasi da gotico americano, mettendo in scena personaggi dai nomi biblici, con relazioni e dialoghi di conseguenza, dall'altra accumulando idee e situazioni un po' da western spaghetti squinternato (come ad esempio la soluzione del mistero sulle morti dei messicani).
La regia di Darcy-Smith, pur tentata qui e là da qualche lirismo malickiano (come nel bel duello iniziale, esageratamente commentato con della musica sacra), è solida e con i piedi per terra come si conviene ad un film di genere. Usa la lentezza e un certo sguardo anti-hollywoodiano per creare un clima di incertezza e soprattutto di grande tensione, che esplode in efficaci momenti di violenza. Su tutti, l'inaspettata e originale modalità con cui si svolge la cruenta resa dei conti finale.

Harrelson, ottimo come quasi sempre, costruisce un personaggio che è una specie di ragno umano, allo stesso tempo repulsivo e magnetico. Gran parte della riuscita del film è giocata sulla capacità ammaliatrici del suo personaggio (e quindi dell'attore), la cui capacità di sedurre e condizionare gli altri potrebbe dipendere tanto da un qualche reale potere esoterico, quanto dalla capacità psicologica di scrutare nell'animo altrui. La pelata e l'eloquio richiamano nientemeno che il Marlon Brando di "Apocalypse Now!", mentre il lato più sadico e spiritato del personaggio sarebbe piaciuto a un Klaus Kinski.
Contro di lui il fisicamente imponente, ma fondamentalmente ingenuo, personaggio di Liam Hemsworth (fratello del più celebre Chris), praticamente l'unico bianco che si vede nel film che non sia un sadico o un fanatico imbevuto di razzismo e religiosità apocalittica. Con la barba lunga sembra una specie di Jim Morrison nel West.
A chiudere il triangolo attoriale e narrativo c'è Alice Braga, intensa e bellissima come sempre, alle prese con il personaggio più tormentato, ma alla fine forse anche quello non del tutto risolto.


A margine da notare come il film di Darcy-Smith unisca due tematiche molto sentite nel cinema americano di questi anni: quella dello scottante e mai risolto rapporto tra gli americani e gli scomodi vicini messicani, e quella delle sette religiose o comunque di una religiosità vissuta in maniera chiusa e fanatica. Tematica quest'ultima molto presente nel recente cinema horror di questi anni, ma affiorata qui e là anche in alcuni western recenti come Sweetwater, The Mountie, Meek's Cutoff e l'austriaco The Dark Valley.

giovedì 27 ottobre 2016

Blackway | Go With Me



2015 Blackway o Go With Me 
di Daniel Alfredson con Anthony Hopkins, Julia Stiles, Alexander Ludwig, Ray Liotta, Hal Holbrook

Come si fa a spiegare lo strano entusiasmo che può suscitare un film come Blackway?
Non assomiglia neanche lontanamente a un capolavoro, perché non lo è. Anzi, ha tutte le sembianze di un film americano qualunque, dove una certa ricercatezza di regia cede il passo in alcuni punti a stereotipi visivi e sonori abusati. Ad esempio nelle scene d'azione, per altro pochissime, dove la convenzionalità della confezione stride con il carattere volutamente dimesso e casuale che gli autori volevano dare alle azioni. Non è difficile quindi incappare in internet in stroncature impietose, con alcuni che parlano di un thriller totalmente fallito, altri di un'americanata impersonale, altri ancora di un patetico tentativo di noir alla "Fargo" affogato in un'estetica da dtv.

E allora? E allora il "segreto" per apprezzare il film è evidente fin dal fatto che se ne parla in questo blog: Blackway è un western. Un bel film western. E non solo: è anche uno dei pochi veri western visti al cinema quest'anno. Blackway non è un western solo perché c'è gente coi fucili (meno comunque di quanti ne impugnino i personaggi in uno dei poster) o perché c'è un viaggio di ricerca tra splendidi paesaggi selvaggi. Queste sì sono cose assolutamente generiche che si trovano anche in tanti polizieschi, noir, action che affollano una qualsiasi videoteca.
Quel che rende Blackway un vero western è il tono piano del racconto, una narrazione soffice e calma come una nevicata. È la tranquillità hawksiana con cui i personaggi accettano i loro ruoli, i loro laconici scambi di battute la trasparenza delle loro azioni. È la descrizione affettuosa di un'America sì lugubre, violenta e desolata, ma vista anche come un meraviglioso contenitore di storie umane, senza il cipiglio da fustigatore delle contraddizioni della patria del capitalismo.
Anche l'ironia sotterranea che attraversa tutto il film, il livello forse più incompreso dai detrattori, non è mai un sarcasmo demolitore, è piuttosto l'ironia di chi racconta una storia in modo intelligente, sentendosi complice dei personaggi e degli spettatori, ma lontanissimo da qualsiasi strizzata d'occhio post-moderna.



Un film tanto e così palesemente americano è stato girato da un regista svedese.
Daniel Alfredson, solido regista di pellicole di genere, conosciuto fino ad ora per aver diretto in patria gran parte della serie Millenium, la trasposizione in film dei celebri romanzi Stieg Larsson. Si avverte per tutto il film uno sguardo molto europeo e soprattutto molto nordico, ma non ne risulta il classico distacco dell'Autore del vecchio mondo che dice la sua su qualche aspetto della realtà americana. Alfredson lavora da artigiano sapiente, usando la sua sensibilità tutta svedese per mostraci con occhi nuovi cose viste e straviste. Si noti come riesce a dare un senso e ad usare in modo persino poetico l'onnipresente filtro blu della fotografia, ormai da anni uno logoro luogo comune estetico dei film che vogliono raccontare di un'America fredda e marginale.

Blackway è il nome di un vicescriffo corrotto, maniaco sessuale, ricattatore, spacciatore, magnaccia e assassino, che i tre protagonisti devono cercare e affrontare. Fin dalla decisione di dedicare alla nemesi dei personaggi il titolo del film siamo quindi di fronte ad una specie di Moby Dick da paesello, una piccola ricerca del Male tra motel, segherie, povere case per arrivare alle incombenti montagne, descritte come luoghi arcani e misteriosi. Ognuno dei tre lo cerca per ragioni personali che vengono mostrate in flashback che si incastrano alla narrazione in modo curioso, con uno stile forse debitore dei film da regista di Tommy Lee Jones. La tensione semplice e implacabile su cui si basa il fascino del film è innescata dal mostrare tre antieroi, umanissimi e fallibili, che si avvicinano gradualmente ad un personaggio che diventa sempre più inquietante man mano che, attraverso i flashback o le testimonianze di altri personaggi, si compone il suo sinistro ritratto.



Un film di questo tipo è fatto in grandissima parte dalle facce degli attori.
Julia Stiles sembra invecchiata tutta di un colpo, ma anche per questo funziona perfettamente, nelle parti di una cameriera dall'aria dimessa e un po' sconfitta, ma ancora abbastanza avvenente da mettere in moto certi avvenimenti. Hopkins azzecca un ruolo e un film dopo non so quanti anni (forse da recuperare "Il caso Freddy Heineken", coevo a questo e sempre diretto da Alfredson). Alexander Ludwig se la cava bene nel potenzialmente scivoloso ruolo del marcantonio balbuziente, poco sveglio ma dal cuore d'oro. Si fa notare anche il grande caratterista Hal Holbrook, novantenne, nella parte del vecchio proprietario della segheria. Infine un luciferino Ray Liotta, come Blackway, divora le poche scene in cui appare.

Uno di quei piccoli grandi film che si fanno voler bene più di tanti capolavori.


Un grazie ai "colleghi" dei 400 Calci per aver segnalato un film che ha dato lo spunto a chi scrive di tornare a scrivere sul blog. 

venerdì 25 marzo 2016

The Hateful Eight


2015 THE HATEFUL EIGHT
di Quentin Tarantino, con Samuel L. Jackson, Kurt Russell, Jennifer Jason Leigh, Walton Goggins, Demián Bichir, Tim Roth, Michael Madsen e Bruce Dern

Ogni nuovo film di Quentin Tarantino è sempre un evento. E da quando il cineasta americano ha deciso di dedicarsi al nostro genere preferito, coltivando l’ambizione di essere ricordato come un regista western e di vedere i suoi film «in uno scaffale insieme a quelli di Peckinpah, Leone, Corbucci e Boetticher», per noi appassionati l’evento diventa ancora più grande. Tanto più che nello sconsolante panorama cinematografico odierno, caratterizzato da prodotti puerili e para-adolescenziali studiati a tavolino e costruiti in serie dai manager delle grandi case di produzione per venire indirizzati a spettatori sempre più passivi e anestetizzati, il fatto di riuscire ancora a lavorare con budget da decine di milioni di dollari e allo stesso tempo a girare unicamente i progetti che “sente” e desidera, seguendo caparbiamente le sue ossessioni e la sua visione e mantenendo il controllo totale sul final cut e su tutte le fasi della lavorazione (distribuzione compresa), è più unico che raro e, oltre a rendercelo ancora più prezioso (e simpatico), ce lo fa avvicinare a grandi registi-demiurghi come Stanley Kubrick e Sergio Leone, ai quali nemmeno troppo velatamente Tarantino sembra ora volersi ispirare.

A indicare la grandeur di Tarantino basterebbe la scelta del tutto anacronistica, oltre che molto costosa, di girare questo suo ultimo film non solo su pellicola, in piena era digitale ormai completamente abbandonata, ma anche in 70 millimetri e addirittura in un formato panoramico non più usato da 50 anni (l’Ultra Panavision 70) e alla decisione di affiancare alla normale distribuzione una pre-release analogica replicante fedelmente le modalità di proiezione dei kolossal degli anni ’50 e ’60 che prevedevano un’ouverture musicale e un intervallo di 15 minuti (la versione del film distribuita, purtroppo in poche sale, in questo formato raggiunge la durata-monstre – anche per Tarantino – di ben 187 minuti). La cosa non ci sembra un semplice vezzo cinefilo ma anzi perfettamente esemplificativa del modo di Tarantino di intendere la settima arte, la maniera migliore per affermare perentoriamente a tutti che lui sta facendo (grande) cinema.


Il regista pulp e citazionistico delle prime opere ha infatti ormai lasciato posto a un Autore a tutto tondo, padrone di una cifra stilista inconfondibile e personale e il giochino di trovare i riferimenti più o meno nascosti nelle sue pellicole lascia sempre più il tempo che trova. L’impressione, insomma, è che Tarantino, pur tenendo sempre ben presente la lezione dei grandi maestri che lo hanno preceduto, abbia ormai pagato i suoi debiti di ispirazione e sciolto i legami col passato intraprendendo una nuova strada del tutto autonoma, unica e innovativa.

Il riferimento cinematografico più immediatamente contiguo per The Hateful Eight è infatti un altro film tarantiniano, Le iene, di cui ripropone la struttura narrativa e le caratteristiche di messa in scena, di impianto molto teatrale, con le medesime unità di tempo, luogo e azione e un gruppo di motherfuckers chiusi forzatamente in una stanza a scannarsi tra di loro. Tarantino stesso poi indicherebbe anche una derivazione dalle serie televisive western degli anni sessanta (da cui dipende certamente anche la scelta di chiamare il personaggio interpretato da Samuel L. Jackson con il nome del produttore di Bonanza e Rawhide Charles Marquis Warren) in cui in un episodio a stagione capitava che i personaggi principali venissero presi in ostaggio da un gruppo di fuorilegge con un passato oscuro da rivelare e il pubblico doveva scoprire chi fossero buoni e chi i cattivi. L’idea iniziale di Tarantino era appunto quella di fare un film unicamente su queste tipologie di caratteri, dando loro delle armi e rinchiudendoli in una stanza a discutere delle loro storie, senza però un personaggio positivo a fare da punto di riferimento morale.


Beffardo fin dal titolo – ché gli “odiosi” protagonisti del film non sono solo gli otto che compaiono nella locandina e, a ben guardare, questo non è nemmeno l’ottavo film di Tarantino (difficile infatti non considerare Kill Bill come un’unica pellicola ) – The Hateful Eight non è, come del resto era facile aspettarsi, un film western nell’accezione canonica che si da al termine, ma molto d’altro e molto di più.
Diviso simmetricamente in due parti uguali e contrapposte – la prima eminentemente di attesa poggiata solo sui dialoghi fluviali tra i personaggi e la seconda con l’incandescente deflagrazione dei conflitti tra gli stessi tra picchi di sadismo e fiumi di sangue - The Hateful Eight è un filmone enorme, ingombrante, esaltante e repellente. Da digerire, rivedere, rimuginare.

Un western misantropo da teatro delle crudeltà, ma anche un giallo che non rispetta nessuna regola del giallo, e un dramma da camera che si trasforma in un horror senza il sollievo del soprannaturale. Lentissimo, parlatissimo, nerissimo, grottesco: com’era facile aspettarsi dalle premesse è il film di Tarantino più anti-commerciale e ostico. Tarantino non cerca mai il coinvolgimento dello spettatore. L'ironia è biliosa, non c’è nessuna gag di alleggerimento, nessun dialogo mirabolante, nessun twist che lascia a bocca aperta. L'unica sequenza vagamente cool e killbilliana, col giochino temporale che ci si può aspettare dall'autore, è il capitolo "I quattro passeggeri", che però è un lento e sadico gioco ai danni dello stomaco degli spettatori - che ormai già hanno capito cosa è accaduto e quindi sta per accadere. Un gioco che nessuno vuole davvero veder portare avanti.

Il consueto apparato citazionista tarantiniano è ridotto ai minimi termini, con riferinenti presi alla lontana, smontati, masticati e assimilati nella storia in modo fluido e poco eclatante. Un processo opposto rispetto al caleidoscopico affastellarsi di schegge dell'immaginario (più o meno) collettivo di Django Unchained.
Significativo, ad esempio, come rimangano sotterranei i molteplici e fecondi riferimenti a "La cosa" di Carpenter, di cui addirittura per la colonna sonora sono stati ripresi alcuni brani inediti dello score morriconiano del '82, quando ad un primo, superficiale livello di lettura saltano agli occhi forse solo la presenza di Kurt Russel e l'ambientazione nevosa.

Il clima di sulfurea attesa dell'interminabile prologo sembra uscire da un film di Jim Jarmusch e soprende trovare in un western l'influenza massiccia di un autore molto poco western come Polanski. Meno soprendenti ma altrettanto gradite le influenze di un paio dei più corrosivi cantori della fine del mito del west cinematografico come Cimino e Altman. Nonostante la celebrata presenza di Morricone (usato in modo anti-leoniano, il motivo principale è una di quelle sue marcette stralunate alla Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto) e gli omaggi a Corbucci, c'è invece pochissimo degli spaghetti western.
The Hateful Eight è un film americanissimo, nella forma e nella sostanza. Dove non solo Tarantino continua il suo filone di film politici, ma rilancia, abbandonando temi genericamente umanitari dei due film precedenti e affondando il bisturi in uno dei fondamenti della società americana, fino ad arrivare ad un finale paradossale degno - appunto - dell'Altman più virulento.

A livello visivo è allo stesso tempo il suo film più classico e rigoroso, ma anche il più complesso e affascinante. Un tripudio di fiocchi di neve, lanterne, focolai, luccichii, riflessi, luci, penombre. La scelta di girare in 70 mm un film quasi interamente ambientato in un interno dilata gli spazi, ingigantisce e impegna la visione come da anni non siamo più abituati, almeno nel cinema americano.


Il cast è di quelli che con Tarantino andrebbe in stato di grazia anche col pilota automatico.
I poli estremi sono Tim Roth con le sue giravolte istrioniche e il torpore fatiscente di Madsen. Ma è Jennifer Jason Leigh quella che impressiona e inquieta. Eppure non era stata nemmeno la prima scelta per il personaggio di Daisy, per cui inizialmente era stata prevista un'attrice più giovane e "glamour". Visto il film impossibile immaginare chiunque altra. La sua ultima ultima scena, grottesca e allucinata, è uno delle sequenze horror più potenti degli ultimi anni, un'immagine iconica quasi come la Carrie di Sissy Spacek e la Regan di Linda Blair. Goggins, il mefistofelico coprotagonista della serie televisiva "Justified", al suo primo ruolo di rilievo non televisivo tiene testa alla grande ai cinematografici faccioni mitologici che gli stanno attorno. L'unico che ci è sembrato fuori luogo è stato Channing Tatum, l’opzione inizialmente prevista di James Remar era probabilmente più calzante.

Dopo questo dittico-capolavoro Tarantino pare intenzionato a continuare a dare il suo contributo al western con almeno un altro film, che dovrebbe chiudere un’ideale trilogia (anche perché secondo lui «devi fare tre western per poterti definire un regista western») e che dovrebbe continuare a parlare del tema razziale (la supremazia dei bianchi e il razzismo istituzionalizzato degli Stati Uniti com’è noto sono argomenti molto sentiti dal regista), che è l’unico apporto innovativo e originale che ha affermato di poter aggiungere al genere. Noi possiamo solo sperare che l’attesa non sia troppo lunga.

giovedì 25 febbraio 2016

Bone Tomahawk



2015 BONE TOMAHAWK
di Craig S. Zahler, con Kurt Russell, Richard Jenkins, Patrick Wilson, Matthew Fox, Lili Simmons

Nell’attesa della recensione di The Hateful Eight, film-evento irrinunciabile per ogni appassionato di cinema (non solo) western, un sostanzioso antipasto (e anche un’occasione per rilanciare il nostro blog) può essere costituito da Bone Tomahawk, pellicola uscita lo scorso autunno negli Stati Uniti (ma reperibile attraverso le solite piattaforme online anche in Italia: una distribuzione nelle sale cinematografiche non pare per il momento prevista), se non altro per la particolarità di essere interpretata dallo stesso protagonista del film di Quentin Tarantino, un magnifico Kurt Russell, che sfoggia peraltro il medesimo look ottocentesco con barba e baffoni.
Bone Tomahawk è stato infatti girato immediatamente prima di The Hateful Eight, quindi nel 2015 c’è stata l’occasione di vedere Russell (che aveva frequentato il genere solamente una ventina d’anni addietro con il Tombstone di Pan Cosmatos) in ben due western, che speriamo costituiscano un’occasione di rilancio per questo bravo attore ultimamente poco utilizzato dal cinema americano.

Bone Tomahawk è scritto e diretto da quel Craig S. Zahler di cui abbiamo dato notizia sul nostro blog a proposito dell’annunciato progetto Brigands of Rattleborge, uno script particolarmente violento finito in cima alla Black List (la lista delle migliori sceneggiature non prodotte pubblicata annualmente dagli Studios americani) che dopo essere stato acquistato dalla Warner Bros era stato affidato nientemeno che al coreano Park Chan-wook (progetto che pare però purtroppo essersi arenato).
Quella di Brigands of Rattleborge è solo una delle venti sceneggiature finora vendute al cinema dal poliedrico Zahler, che è anche apprezzato romanziere (i diritti del suo ultimo romanzo, Mean Business on North Ganson Street, sono stati opzionati da Leonardo DiCaprio, che dovrebbe trarne un film a breve) e anche musicista (genere di riferimento l’heavy metal). Siccome l’unico suo copione ad essere finora diventato film è però quello di The Incident, un horror diretto nel 2011 dal francese Alexandre Courtes, Zahler, frustrato dai tanti progetti non andati in porto, ha deciso di compiere il grande passo e passare in prima persona dietro la macchina da presa.


Tra le varie declinazioni del Weird Western, genere negli ultimi anni quanto mai (mal) frequentato, mancava forse ancora quella ‘cannibal’, un sottofilone tra i meno rispettabili dell’horror, di matrice prettamente italiana, tornato di recente in auge grazie al film di Eli Roth The Green Inferno. Le similitudini, però, si fermano qui: se Roth sceglie per la sua pellicola come suo solito un approccio quanto mai ludico e superficiale Zahler sembra invece ben intenzionato a fare le cose sul serio e a maneggiare la materia con reverenza, scrupolo e competenza.

Il risultato è un oggetto quanto mai curioso e indecifrabile, che potremmo definire come una sorta di impossibile mix tra Sentieri selvaggi e La montagna del Dio cannibale.
Dopo un breve e fulminante prologo in cui vediamo Sid Haig tagliare (letteralmente) la gola a un gruppo di pionieri per poi venire a sua volta fatto a pezzi il film assume i ritmi piani e distesi di un autentico e classico western, nei quali l’autore si prende tutto il tempo, utilizzando come tema portante il tradizionale archetipo del viaggio, per mettere in scena e sbozzare i personaggi e per descrivere le dinamiche che intercorrono tra di loro, nelle quali si può apprezzare la sua capacità di delineare efficacemente caratteri e psicologie e l'ottimo senso per i dialoghi, arricchiti da un uso non banale di vocaboli desueti e vernacolari.
Paradossalmente questo rallentamento e rarefazione della pellicola, in cui di fatto poco o niente succede, contribuisce ad accrescerne esponenzialmente il livello di tensione.
Nell’ultima mezz’ora, con l’incontro con il clan di indiani cannibali, il film opera però uno scarto deciso e prende completamente le distanze dagli stilemi del western per abbracciare quelli di un horror graficamente molto violento, e si chiude con un finale teso e cattivo, di quelli che restano impressi.


Come detto l’autentico valore aggiunto del film è costituito da Kurt Russell, protagonista di un’interpretazione degna dei grandi del passato: la laconicità, l’essenzialità dei gesti,il portamento elegante e virile rimandano ai grandi divi del western classico, come il fatto di riuscire a riempire lo schermo con la sola presenza scenica o anche la semplice voce.
Anche il resto del cast funziona benissimo, a partire da Richard Jenkis che fornisce un’ironica e inedita interpretazione del classico “vecchietto” alla Walter Brennan, fino a due giovani promesse di formazione televisiva come Patrick Wilson e Matthew Fox. Soprattutto quest’ultimo è assai convincente nel ruolo di un compassato gentiluomo d’armi.
Merita sicuramente una menzione, infine, anche la deliziosa Lili Simmons.


Il film, va detto, non è esente da difetti e in alcuni punti palesa la poca esperienza di Zahler dietro la macchina da presa, che si limita a una regia corretta ma abbastanza anodina, forse non all’altezza della sceneggiatura e carente soprattutto di immaginazione visiva (la poca mobilità delle inquadrature e l’ampio uso di campi medi d’altro canto evoca echi carpenteriani, come pure la raffigurazione metafisica del male e l’utilizzo dello spazio in funzione della creazione della suspense); in alcuni momenti anche i dialoghi, in particolar modo quelli di Richard Jenkins, pur efficaci nella loro straniante ironia (che segue consapevolmente la lezione di Tarantino) a volte spezzano eccessivamente la tensione finendo per risultare un po’ ridondanti, e forse l’intera pellicola avrebbe giovato di una minor durata.

Bisogna però dare atto al regista di avere girato con il budget minuscolo di un piccolo film indipendente (gli esterni sono stati girati interamente in California, non potendosi permettere il New Mexico) un western con un mood molto affascinante e non privo di preziosismi ed eleganza e lo aspettiamo fiduciosi alla sua seconda prova.

mercoledì 12 agosto 2015

mercoledì 4 marzo 2015

The Mountie



2011 THE MOUNTIE / THE WAY OF THE WEST / LAWMAN 
di Wyeth Clarkson con Andrew W. Walker, Jessica Paré, George Buza, Earl Pastko, John Wildman, Tony Munch , Matthew G. Taylor, Andrey Ivchenko

E' piuttosto sconcertante il numero di western amatoriali o semi-amatoriali che vengono prodotti ogni anno da un po' di anni a questa parte. A questa data, per il 2015 secondoIMDb ci sarebbero già in cantiere cento(!) film western. Lasciando perdere tutti quei film d'altro genere per cui l'etichetta "western" del sito sarà stata messa lì perché si vede un deserto o uno cavallo, stiamo parlando di almeno una cinquantina di titoli. Alcuni di questi non verranno mai completati e spariranno anche da IMDb, altri diventeranno i classici film fantasma di cui resterà solo un titolo, di altri ancora comparirà il trailer su youtube prima di scomparire a loro volta, i più fortunati finiranno in qualche sito streaming totalizzando visualizzazioni a una cifra e zero commenti. Pochi, pochissimi, troveranno un loro minuscolo pubblico e i loro 15 minuti di gloria. Quel che sconcerta è quindi la vastità della proposta in relazione alla quasi inesistente domanda di prodotti simili.

Eppure, pur considerando l'abbattimento dei costi (e della conseguente qualità media) dovuto alla tecnologia digitale, mettere in piedi anche il più banale dei film resta un'operazione per cui ci vuole comunque qualcuno che spenda tempo e risorse personali. Molto tempo e molte risorse.
Al che si potrebbe buttarla sul romantico, immaginando questo esercito di sognatori che producono e dirigono il loro film western contro ogni legge del mercato e del pubblico, spinti solo dall'amore per il genere. Ma poi basta guardarne qualcuno di questi pseudo-film per far sparire ogni alone poetico alla faccenda. C'è di buono (si fa per dire) che il livello è in genere talmente infimo che in genere bastano pochi minuti di visione o anche solo un trailer per decidere di dedicarsi ad altro.


Raramente ci sono invece titoli che si lasciano vedere dall'inizio alla fine, come questo "The Mountie", film canadese di quattro anni fa, circolato (e si rifà per dire) anche con i titoli "The Way of the West" e "Lawman". L'amatorialità del prodotto risalta già dalla povertà grafica del carattere scelto per i titoli di testa e di coda, ma per il resto a livello tecnico ci troviamo davanti ad un filmetto fatto con gusto, cura e consapevolezza dei pochissimi mezzi a disposizione.

Come ormai caratteristico di molti western di questi anni dieci, il film sceglie un'ambientazione atipica e intrigante, quella di una minuscola comunità russa dispersa tra le montagne del Canada, un accampamento di misere tende dove - bella intuizione visiva - l'unico edificio in legno è la chiesa. Il prete è in combutta con una banda di criminali che costringe la piccola comunità a coltivare l'oppio. Un giorno capita da quelle parti una giubba rossa che proprio a causa dell'oppio ha un tragico errore da riscattare: sotto effetto della droga durante una sparatoria in un fumeria d'oppio uccise per sbaglio una ragazzina.

Bella fotografia, bei costumi, colonna sonora professionale, tocchi di regia non banali, il fascino aristocratico delle giubbe rosse. Gli attori sono probabilmente tutti non professionisti, ma i buoni hanno le giuste facce (nota per gli spettatori maschietti: la figlia del prete, che - ovviamente - si innamora del protagonista è praticamente una sosia di Liv Tyler) e i cattivi le giuste ghigne. Tutto sembrerebbe concorrere alla realizzazione di un gioiellino misconosciuto. Dove il film frana rovinosamente è nella scrittura.



Anche a quel livello, in realtà, gli autori avrebbero fatto scelte intelligenti, mettendo in piedi una storiella semplicissima e riducendo al minimo i dialoghi. Ma a conti fatti la sceneggiatura si rivela una specie di collezione delle più tipiche ingenuità dello sceneggiatore dilettante. Un affastellarsi di idee anche buone, ma messe giù senza avere il senso del narrazione e senza capacità di dare una progressione drammatica agli eventi. Le cose sembrano succedere a caso, i personaggi fanno cose incoerenti e spesso in contrasto con la loro caratterizzazione, si passa senza soluzione di continuità da un tono realistico e crepuscolare a scene da spaghetti western. Per dire, il protagonista passa da sequenze in cui appare come lo straniero senza nome di Clint Eastwood ad altre in cui è un antieroe impotente. Nel finale appare tra i fumi delle esplosioni come in "Per un pugno di dollari" e uccide ad uno uno i suoi avversari come "Il cavaliere pallido, ma allo stesso tempo per cavarsela deve essere salvato dal suo cavallo(!), da una bambina(!!), da un ritardato(!!!) e infine da un suo collega.



Ma ha senso giudicare un prodotto di questo tipo come un film normale?
Ha più senso criticarlo per quello che non è riuscito ad essere o apprezzare quello che, nonostante tutto, è riuscito ad essere? E se da una parte il coevo Good for Nothing, con mezzi probabilmente altrettanto limitati, è riuscito ad essere un autentico gioiello, dall'altra è comunque meglio di un'infinità di direct-to-video senz'anima che magari godono di buona fama tra estimatori del trash. Alla fine è un'operina fatta con evidente amore, per il western e per il Canada, che non riesce ad essere un prodotto professionale, ma ci prova ad esserlo più di molti prodotti realmente professionali.

mercoledì 25 febbraio 2015

The Retrieval



2014 THE RETRIEVAL
di Chris Eska con Ashton Sanders, Tishuan Scott, Keston John Bill Oberst Jr., Christine Horn, Alfonso Freeman, Raven Nicole, Jonathan Brooks

Ormai si può certificare una piccola ma significativa tendenza in alcuni dei western prodotti in questo decennio ormai per metà già consumato. Una serie di film, spesso a basso costo, che mettono in scena situazioni ridotte all'osso con toni prosciugati e minimalisti e narrano storie di viaggio con ritmi lenti e anti-commerciali, spesso con un rifiuto o un disinteresse per l'iconografia classica del genere.

Ne è un buon esempio questo piccolo, ma interessante film indipendente dell'anno scorso.
Si racconta di due ex schiavi neri, un ragazzo e un adulto, che durante la guerra civile collaborano con una banda di cacciatori di disertori e schiavi fuggitivi, che i due  scovano e  tradiscono. Un giorno vengono incaricati dal mefistofelico capo della banda di andare tra le linee nordiste e attirare in trappola con una scusa un prezioso schiavo ricercato. Riusciranno nell'intento, ma durante il viaggio il ragazzo comincerà a vedere nell'uomo una figura paterna e il simbolo di  una dignità sconosciuta a lui e il compagno, a conti fatti comunque sempre "schiavi" di un bianco.



Per grande parte del film vediamo solo i protagonisti che camminano in mezzo splendidi paesaggi fatti di campi e boschi. Bellezza bucolica interrotta dai segni e dagli improvvisi squarci della violenza bellica (in una scena si addormentano e si risvegliano in mezzo ad una battaglia). Non è però un film poetizzante o vuotamente contemplativo. Il tono è asciutto, la bellezza delle immagini è priva di pomposità. Il ragazzo e il fuggitivo affrontano pericoli, fanno incontri, dialogano, raccontano, si conoscono in modo diretto ed efficace, non in modo molto diverso dai classici degli anni 50. I due protagonisti di questo film non sono "negri che vanno a cavallo" come il Django di Tarantino, sono realistici ex schiavi che se ne vanno in giro a piedi con vesti consunti, senza cinturoni e cappelli. Eppure, anche grazie alla rinuncia a molti cliché attoriali di molto cinema di colore, la loro caratterizzazione riesce a sfuggire alla trappola del realismo spoetizzante e a farli diventare personaggi fascinosi e allusivi, romanzeschi e "western".
La forza del film è in particolare il personaggio del ricercato, che pur nella sua umanità e fallibilità, diventa anche visivamente il simbolo di un'affascinante nobiltà "black". Merito anche della bella prova Tishuan Scott, faccia virile e aria seria da attore d'altri tempi.



I limiti del film sono una certa tendenza al didascalismo che rende la storia un po' prevedibile e l'esasperato protrarsi dei dubbi del ragazzo sul portare o meno a compimento il tradimento. Indecisione che alla lunga rischia di sembrare incoerente con quanto vediamo raccontato e che lo fa diventare un personaggio monocorde. Ma sono difetti che pesano poco nel conto finale, alla fine vince l'umanità dei personaggi, la bellezza poetica di molte sequenze, la solidità delle sequenze violente.

Nota a margine: possiamo star sicuri che questo film non arriverà mai in Italia, come del resto almeno altri due ottimi titoli usciti nel 2014 ("The Salvation" e "The Dark Valley" - qualche speranza in più per il capolavoro di Tommy Lee Jones "The Homesman", ma non stupirebbe più di tanto veder delusa anche questa attesa). In compenso abbiamo potuto godere della distribuzione di "Un milione di modi per morire nel West".

venerdì 16 maggio 2014

Prossimamente – The Dark Valley


Dopo Gold di Thomas Arslan nella scorsa edizione, anche quest’anno al Festival del Cinema di Berlino è stato presentato un nuovo film western in lingua tedesca (recuperando così in qualche maniera la gloriosa tradizione dei kraut-western): si tratta di Das finstere Tal (titolo internazionale The Dark Valley), il nuovo film del regista austriaco Andreas Prochaska, nome molto noto in patria, anche per i suoi lavori televisivi, ma che ha goduto anche di una breve ribalta internazionale grazie all’horror Sms - 3 giorni e 6 morto (2006), distribuito anche in Italia.

In una remota valle delle montagne austriache, sul finire del 19° secolo, giunge uno sconosciuto americano di nome Greider, che chiede di essere ospitato per i tre mesi invernali. Gli abitanti del villaggio gli trovano ospitalità presso la casa di una vedova, che vive con la figlia in procinto di sposarsi, ma ignorano che Greider conosce il sanguinoso segreto che custodiscono da decenni. Ben presto una catena di misteriosi delitti comincia a far sospettare delle vere motivazioni che si nascondono dietro l'arrivo dello straniero.



L’ambientazione invernale e innevata ovviamente non può che rimandare a celebri winter-western come Il cavaliere della valle solitaria e Il cavaliere pallido, ma a giudicare dal trailer il film a cui Prochaska sembra occhieggiare maggiormente ci pare essere capolavoro di Sergio Corbucci Il grande silenzio.





venerdì 9 maggio 2014

Prossimamente – The Salvation


Primo trailer per The Salvation, il western danese prodotto dalla Zentropa di Lars Von Trier, diretto da Kristian Levring e interpretato da Mads Mikkelsen e Eva Green di cui avevamo già dato notizia qualche mese fa.

La trama, ispirata ai classici del genere ma anche alle mitologie nordiche e vichinghe, è quella del più classico revenge-western, come da tradizione europea: Mads Mikkelsen interpreta John, un ex soldato immigrato dalla Scandinavia negli Stati Uniti del 1870 in cerca di una vita migliore per lui e la sua famiglia. Quando uccide gli assassini di sua moglie e di suo figlio scatena la furia del capo della banda di banditi Delarue, interpretato da Jeffrey Dean Morgan. Tradito dalla sua comunità, corrotta e codarda, il pacifico pioniere si trasforma in un vendicativo cacciatore di uomini, con unico scopo quello di uccidere i fuorilegge e purificare il cuore nero della città.



Il film verrà presentato fuori concorso al prossimo Festival di Cannes e a una prima occhiata possiamo quantomeno dire che Mikkelsen ci sembra avere il perfetto physique du rôle per il western.