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giovedì 14 marzo 2013

i film - Sole rosso



1971 SOLE ROSSO (Soleil Rouge)
di Terence Young, con Charles Bronson, Toshiro Mifune, Alain Delon, Ursula Andress, Capucine, Anthony Dawson, Luc Merenda, Guido Lollobrigida, Barta Barri, Monica Randall

In seguito alla rapina ad un treno, un desperado americano tradito dai compagni e un samurai giapponese stringono una strana alleanza per recuperare una preziosa katana donata dall'imperatore del Giappone al Presidente degli Stati Uniti.

Ci sono attori che diventano famosi già da giovanissimi e altri invece che per raggiungere la celebrità devono passare attraverso una gavetta lunga decine di pellicole, raggiungendo l’affermazione solo in età avanzata. Charles Bronson, attore americano di origine lituane, è stato tra questi ultimi: pur avendo interpretato (dopo una giovinezza trascorsa tra il lavoro in miniera e i campi di battaglia della seconda guerra mondiale) più di un centinaio di ruoli come caratterista, specializzandosi in "duri" dall’aspetto etnico (nei western gli toccavano invariabilmente le parti dell’indiano o del mezzosangue), sia al cinema che alla televisione – anche in pellicole illustri come I magnifici sette, La grande fuga e Quella sporca dozzina –, ha dovuto attendere solo la metà degli anni settanta, la soglia dei cinquant’anni e il film Il giustiziere della notte per essere consacrato finalmente come una star negli Stati Uniti.
Prima del riconoscimento americano Bronson era stato però “scoperto”, in modo non diverso da altre icone western (pensiamo solo a Clint Eastwood), dal cinema europeo, in primis quello italiano, che gli regalò il memorabile ruolo di Armonica in C’era una volta il West di Sergio Leone [1], e poi soprattutto quello francese, che diede all’attore le prime parti da protagonista assoluto (precedentemente ci risulta avesse interpretato come prim’attore solo il B-Movie La legge del mitra di Roger Corman).



Il regista con il quale Bronson nella sua esperienza francese ha instaurato il rapporto professionale più stretto è stato Terence Young. Young, un gentleman inglese dalla vita avventurosa nato in Cina e trasferitosi in Costa Azzurra, amante del jet-set e delle belle donne, è rimasto famoso soprattutto per aver diretto tre dei primi quattro film di 007, ma nel corso degli anni sessanta e settanta ha girato molte altre pellicole di genere soprattutto spionistico ed avventuroso (tra cui un gioiello thriller come Gli occhi della notte) e nonostante la sua reputazione sia costantemente diminuita dopo ogni film realizzato aveva fama di regista avvezzo alle grandi produzioni internazionali e alla direzione di divi e scene d’azione.
Sotto la sua regia Bronson ha interpretato alcuni dei ruoli più atipici e particolari della sua carriera, con i quali si mise alla prova con altre tipizzazioni e sfumature che non fossero la maschera impassibile e lo sguardo di ghiaccio per i quali è universalmente conosciuto.
Il miglior film del sodalizio Bronson-Young è il primo, L’uomo dalle due ombre, un polar solido e robusto, mentre il peggiore indubbiamente l’ultimo, Joe Valachi – I segreti di Cosa Nostra, un pasticciaccio gangsteristico prodotto da Dino De Laurentiis sulla scia del Padrino dove Bronson interpreta, peraltro efficacemente, addirittura il celebre pentito italoamericano.

Nel western Sole rosso, l’unico diretto da Young in tutta la sua carriera, Bronson è protagonista di uno dei pochissimi ruoli (quasi) brillanti del suo lungo curriculum e ha modo di esibire degli aspetti della sua recitazione in seguito non più sfruttati, dimostrando insospettabili doti di istrione e commediante, soprattutto nei duetti con Toshiro Mifune.
Dopo Tetsuya Nakadai in Oggi a me… domani a te Mifune è il secondo attore giapponese a calpestare le praterie cinematografiche dell’eurowestern, a conferma di una sua sempre maggiore “contaminazione”. Negli anni settanta grazie soprattutto al successo mondiale di Bruce Lee i film orientali, sia quelli giapponese di samurai che quelli cinesi di arti marziali, divennero molto popolari anche presso il pubblico occidentale e quindi, probabilmente nel tentativo di agganciare un pubblico sempre più numeroso, non mancarono gli ibridi con i generi nostrani (vedi anche Il mio nome è Shanghai Joe e Là dove non batte il sole).



In questo caso, come si dice, ce n'è per tutti i gusti: western all'italiana, di produzione francese, girato in Spagna, da regista inglese, con star francese, star americana, star giapponese e bellona svizzera. Un tempo era un classico delle programmazioni estive insieme a L'oro di Mackenna.

Young, nonostante uno stile poco personale e non molto interessante (non è detto comunque che in un western ciò sia per forza un difetto), con il suo solido artigianato aveva capito meglio di altri la lezione degli spaghetti western e, mantenendosi in equilibrio non sempre stabile tra truce violenza e sdrammatizzante ironia, dirige delle grandiose scene d'azione, dall'iniziale rapina al treno, ai fulminei massacri nella fattoria e nel bordello, culminando nella grande battaglia finale nel canneto (dove, come fa notare Marco Giusti nel suo Dizionario del Western all’italiana i fintissimi indiani hanno delle improbabilissime parrucche), omaggio forse a Kurosawa. Molto felicemente “spaghetti” il fatto che, a parte il nobile samurai, tutti i personaggi sono delle inguaribili carogne, felici di esserlo. I dialoghi non sono niente di particolarmente memorabile, ma sono comunque ottimi. L’amicizia tra Bronson e Mifune è raccontata con il giusto brio e la giusta simpatia.



Cast strepitoso. Di Delon è ormai quasi obbligatorio parlar male, ma intanto qui è impeccabile nella parte della gelida carogna dalla faccia d'angelo. Capelli lunghi e giacca con le frange Bronson pare disegnato tanto è perfetto. Mifune è alle prese con lo stereotipo del samurai, ma con grandi squarci d'autoironia. Ursula Andress… beh, la scena in cui si alza nuda dal letto comprendonsi a malapena con un lenzuolo crediamo abbia frequentato i sogni adolescenziali di molti spettatori. Meritano anche una ancora affascinante Capucine nel ruolo della tenutaria del bordello e la splendida e anonima ragazza con cui va a letto Mifune. Tra la banda di fuorilegge capitanata da Delon si può riconoscere un giovane Luc Merenda.

Gradevole ma un po’ troppo convenzionale la musica di Maurice Jarre. Probabilmente grandiosa la fotografia dai grandi spazi di Henri Alekan, uno dei migliori direttori della fotografia del cinema francese, ma l’orrenda copia in formato 4:3 che passa sia in televisione che in dvd lo lascia purtroppo solo intuire.

M. Mihich & T. Sega
___________

[1] « Bronson era proprio quello che volevo. Quando andai in America a cercarlo, ero ormai conosciutissimo e quindi avevo un codazzo di agenti che mi offrivano i nomi più grandi (Rock Hudson, Warren Beatty…). E quando chiedevo di Charlie Bronson quelli mi rispondevano esterrefatti “Chi?” (…) Per me Bronson era importantissimo perché era proprio quello che con la faccia che si ritrova è capace di fermare le locomotive. Il giustiziere che, anche se vai in Groenlandia, lì ti trova e lì ti segue. Era proprio un archetipo preciso (…) » Marcello Garofalo, Tutto il cinema di Sergio Leone, Baldini&Castoldi, 1999

venerdì 29 giugno 2012

i film 39 - Jesuit Joe



1991 JESUIT JOE
di Olivier Austen, con Peter Tarter, John Walsh, Laurence Treil, Geoffrey Carey, Chantal DesRoches, Valerio Popesco, Guy Provencher

Tentativo ammirevole e coraggioso, ma purtroppo davvero ben poco riuscito, di trasporre su pellicola le immagini e le atmosfere delle storie a fumetti del grande Hugo Pratt.
Uno dei problemi di fondo della pellicola è probabilmente l’opera su cui è caduta la scelta, Jesuit Joe, conosciuta anche come L’uomo del Grande Nord (con questo titolo è stata pubblicata come ventottesimo numero della bellissima collana edita dalla Bonelli Un uomo Un’avventura nel giugno 1980), una delle più rarefatte e stilizzate, meno dialogate e più concettuali del Maestro veneziano.



E’ ovvio, quindi, che per raggiungere il metraggio sufficiente e l’ora e mezza canonica di durata il regista, tale Olivier Austen, al suo primo (e si vede) e unico (e si capisce perché) film, abbondi nelle inquadrature di paesaggi, con un profluvio di riprese aeree di distese innevate, immancabili sequenze accelerate di nuvole in movimento, ralenty a profusione e lunghissimi pezzi solo musicali (il tutto occuperà metà film).



Per quanto cerchi di rimanere il più possibile fedele al testo d’origine, seguendo alla lettera il canovaccio della storia a fumetti, il regista ne riempie spesso i silenzi con dialoghi sentenziosi e filosofici del tutto fuori posto, fino ad arrivare a un finale didascalico e “leoniano” che fa a pugni con l’asciuttezza di quello di Pratt.
La scelta peggiore di tutte, però, è senza dubbio l’idea di utilizzare come voce narrante un insopportabile e cantilenante avvoltoio (specie che in Canada nemmeno esiste), che interrompe di continuo la narrazione con degli insostenibili discorsi mistico-filosofici. Il ritmo del film, va da sé, è lento e soporifero.
La musica, in aggiunta, è completamente fuori luogo e contribuisce non poco a peggiorare notevolmente il tutto.



Abbastanza efficace, invece, l’attore protagonista, Peter Tarter, che trasmette abbastanza bene il cinismo e l’indifferenza del métis prattiano.
Da salvare rimane qualche immagine del Grande Nord innevato, comunque suggestiva per chi, come chi scrive, è cresciuto a pane e Jack London e alcune folgoranti battute prattiane, come quella iniziale in cui il protagonista spara a un paio di uccellini in amore: “Troppa felicità in questo bosco”.


venerdì 9 marzo 2012

nuovi western - 2004

Western del 2004

Dopo il buon bottino del 2003 il genere torna quasi in letargo. Tre titoli soltanto da segnalare e nessuno di loro è un western vero e proprio.


ALAMO - GLI ULTIMI EROI (THE ALAMO) di John Lee Hancock
Con Patrick Wilson, Jason Patric, Billy Bob Thornton, Emilio Echevarria, Dennis Quaid

C'era bisogno nel 2004 di veder narrata ancora una volta la storia dell'assedio di Alamo? A giudicare dal totale disinteresse con cui questo film è stato accolto, anche constatando il notevole dispiegamento di mezzi e l'impegno con cui è stato realizzato, si direbbe che quel bisogno lo sentissero davvero in pochi. O forse non è così che la solita storia andava ancora una volta raccontata. Questo film esemplifica bene un fraintendimento in cui cade spesso molto cinema odierno, quando decide di riaffrontare una vicenda che è già stata messa in scena più volte, il che accade spessissimo in quest'epoca di remake, sequel, prequel e ogni genere di aria fritta. L'equivoco sta nel credere che la forza intrinseca dell'episodio già noto basti a se stessa e che per rinfrescarne l'interesse basti ricamarci attorno qualcosa.

Nel caso di Alamo il fascino della vicenda sta tutto nell'epica dello scontro impari, che vide pochi assediati americani scontrarsi con le forze soverchianti degli assedianti messicani. Quel che conta quindi sono l'assedio e la battaglia disperata, non quello che ci stava attorno. Invece “Alamo - Gli ultimi eroi” si perde in tutta un'infinità di notazioni marginali che si rivelano assolutamente fine a se stesse e che spezzano continuamente il ritmo degli eventi. Ad esempio può essere interessante sapere che la tragedia scaturì anche dall'arrogante e miope politica dei texani, e che gli eroi di Alamo erano una specie di armata Brancaleone litigiosa e poco consapevole a cosa andava incontro, ma a livello cinematografico queste annotazioni non riescono mai a trasformarsi in racconto. Anche le notazioni più acute, come il rilevare che i “buoni” americani erano schiavisti al contrario dei “cattivi” messicani, rimangono dettagli che restano sempre ai margini del narrazione.

I noti personaggi della vicenda subiscono un identico trattamento. Interessa sapere che Sam Huston era un cinico ubriacone? Che il colonnello William Travis, a capo degli assediati, aveva piantato la moglie? Che Jim Bowie aveva il tifo e rimpiangeva la moglie messicana defunta? Che Davy Crockett era un bonaccione malinconico e che la sua leggenda era dovuta alle fanfaronate di un attore che lo impersonava sui palchi dei teatri dell'est? Questa tendenza a rifugiarsi nell'aneddoto storico fine a se stesso si riflette anche nell'iconografia, che non ha nulla dell'agilità western o del film d'avventura (a cui si erano più furbamente attenuti il kolossal di John Wayne “La battaglia di Alamo” del 1960 e ancora prima il dimenticato b-movie “Alamo” di Frank Lloyd del 1954), ma ha piuttosto la pesantezza museale del film storico, con personaggi costretti in costumi rigidi e inamidati, probabilmente storicamente attendibili, ma senza fascino.

D'altra parte il film più che un western è un film storico di ambientazione ottocentesca. E in questo senso funziona pure. Il senso di realismo o di verosimiglianza con cui è messo in scena l'assedio in alcuni punti è potente e suggestivo. Il senso di smarrimento, angoscia e attesa degli assediati è ben reso. La fatidica battaglia è messa in scena con il giusto equilibrio di spettacolarità e realismo, quasi una ventina di minuti di massacro, con una tensione e un senso di confusione che ricorda più il caos dei migliori Vietnam-movie che non i western incentrati sugli assedi. Il film non rinuncia ai santini eroici americani e qualche facile macchietta, ma è abbastanza onesto nel riconoscere torti e ragioni, eccessi e crudeltà di entrambe le parti. Anche in un'ottica da film storico, ridondante e francamente noiosissimo invece l'ultimo quarto d'ora, che ci mostra la cruenta reazione degli americani guidati da Sam Huston (Dennis Quaid).

Un discreto film in definitiva, illuminato da un buon cast, a cominciare dal Davy Crockett di un intenso Billy Bob Thornton e dal Jim Bowie del carismatico, ma sempre poco e male utilizzato, Jason Patric. Resta il triste pensiero che tutti i soldi che si spendono per questi film sontuosamente illustrativi e sostanzialmente inutili potrebbero essere meglio utilizzati per raccontare storie nuove. O almeno storie meno consunte dall'uso.

Dicono di lui...

"Questa è la storia di una guerra civile. Non quella che ci è più nota, ma una che si è verificata un quarto di secolo prima. In questa guerra civile c'è sempre la secessione tra Nord e Sud, ma poiché i secessionisti hanno vinto non la si chiama guerra civile, ma rivoluzione: la rivoluzione del Texas. [...] Nel prendere un tema tanto mitizzato, il film rischia grosso. I drammi sugli eventi storici sono spesso rigidi e distaccati, nel migliore e nel peggiore dei casi sono leziosi. Questo film riesce a convincere a dispetto di questi pericoli. Lo fa romanticizzando gli eventi associati ad Alamo, ma sforzandosi di avere precisione storica e riuscendo a umanizzare le figure storiche sulle quali si concentra. [...] Thornton/Crockett è un piacere particolare. Controllando il lato serio del suo personaggio, Thornton finisce per rubare la scena a tutti. Si accattiva regolarmente il pubblico ed è protagonista delle migliori sequenze del film, fino alla fine. Come funziona il film a livello di ricostruzione storica? Bene. La maggior parte di questi film sono popolati da attori dolorosamente rigidi che lottano per ritrarre i personaggi storici che gli sono stati assegnati, ma questo riesce a trasmettere l'umanità dei suoi protagonisti. Uno dei motivi è anche l'ambiguità che circonda quello che è realmente accaduto ad Alamo. Nel folklore texano, Travis, Bowie e Crockett sono stati descritti come santi che lottano e sfidano il nemici fino al loro ultimo respiro. Più recentemente gli storici hanno iniziato a considerare le prove che ritraggono i tre in una luce molto più umana. Secondo i nuovi ritratti, uno di loro (Bowie) potrebbe essere stato troppo male durante la battaglia per uscire dal suo letto e un altro (Crockett) potrebbe essere sopravvissuto alla battaglia, anche se brevemente. Anche se queste idee sono controverse, il film finisce per rappresentarle in modo da umanizzare i personaggi principali, senza privarli del loro eroismo. Il film racconta anche la complessità della situazione storica, esplorando le prospettive di individui e gruppi diversi. Sia Travis che Bowie erano schiavisti, e il film esplora le diverse reazioni dei loro schiavi alla situazione in cui sono finiti. [...] Nonostante i suoi difetti, il film funziona molto meglio di quanto in genere funzionino la maggior parte delle ricostruzioni d'epoca, in particolare nel modo per come umanizza i personaggi storici al centro della storia.”
(Jimmy Akin, "Decent films Guide" 2004)

“La vita di un soldato è notoriamente caratterizzata da ore di noie punteggiate da momenti di vero terrore. Beh, "The Alamo" riesce a rendere solo metà di questa cosa. "The Alamo" non è un film patriottico e gonfio di retorica epica. Si tratta di un'ottusa, sporca, triste e terribilmente lunga pellicola che purtroppo riduce uomini di importanza storica in straccioni in lotta per un po' di fango. Eh già. 100 milioni di dollari che avrebbero potuto salvare il sistema scolastico del Texas. [...] Il regista John Lee Hancock (nome fantastico), si è diplomato nel suddetto sistema scolastico texano, per cui caratterizza il suo villain - il generale Antonio Lopez de Santa Ana (Emilio Echevarría) - con tutta la sottigliezza di un supercriminale alla James Bond. Lungi dall'essere una gran mente militare, Santa Ana fa falciare i prigionieri stile genocida , svergina le vergini e sorseggia il caffè in tazzine di fine porcellana. E' un mostro ad una dimensione, che dice ai suoi luogotenenti di sacrificare i propri soldati come fossero "tanti polli". Nel frattempo gli eroi di Hancock, neanche così male, a malapena ispirano simpatia. Per lo più i protagonisti sono ubriachi e scontrosi, le comparse sono miliziani anonimi, scontrosi e ubriachi. Bowie, che soffre di qualcosa che assomiglia alla tubercolosi, peggiora in salute con il progredire dell'assedio, e Jason Patric che che lo interpreta passa tutto il secondo tempo a rifare la sua scena di disintossicazione di "Effetto allucinante", ma senza Jennifer Jason Leigh a pulire la sua sudata, legnosa testona. Che sarebbe stato l'unico motivo valido per stare a vederlo morire a letto per un'ora."
(Eric Meyerson, "On dvd" 9/4/2004)


BLUEBERRY (BLUEBERRY: L'EXPÉRIENCE SECRÈTE) di Jan Kounen
con Vincent Cassel, Juliette Lewis, Michael Madsen, Temuera Morrison, Ernest Borgnine, Geoffrey Lewis, Djimon Hounsou, Nichole Hiltz, Tchéky Karyo

Irragionevole trasposizione del celebre personaggio di Charlier & Giraud. Anche se va detto che in realtà del fumetto non è rimasto praticamente nulla, tanto è vero che nel film il protagonista viene chiamato solo per nome, Mike, e mai viene citato il soprannome che fa da titolo alla serie. Il personaggio di Cassel non ha assolutamente nulla del simpatico antieroe Blueberry, ma è una specie di Jim Morrison nel far west, barcollante e delirante per buona parte del film. E infatti, più che la classica iconografia western, visto il suo corollario di spiritualità indiana, paesaggi desertici e visioni allucinogene il film ricorda in più di un momento “The Doors” di Oliver Stone. È invece ripresa dal cine-fumetto di questi ultimi anni l'irritante tendenza a voler raccontare la nascita psicologica dell'eroe, con il solito nodo iniziale che si scioglierà solo nel finale. Il film vorrebbe essere una lunga e allucinata cavalcata psichedelica e registica (i titoli di coda iniziano con la scritta “A Jan Kounen Session”), che anche nelle scene più normali vorrebbe ubriacare lo spettatore a furia di distorsioni delle immagini, dei suoni, del montaggio.

Con questi presupposti poteva uscirne un film sbagliato ma affascinante, un'opera inclassificabile, folle e maledetta. Invece alla fine è solo un film balordo e incredibilmente noioso, girato con rara inettitudine e ancor più rara supponenza. Kounen è il tipico regista che non avendo idea di dove mettere la cinepresa la mette ovunque, continuando a muoverla come un forsennato, ma non riuscendo praticamente mai ad azzeccare il tono e lo stile giusto. Persino le poche scene d'azione sono pasticciate e senza stile. Sintomatica della totale mancanza di un'idea di cinema del regista è la sovrabbondanza di riprese con un elicottero, che immortalano magnifici paesaggi da spot pubblicitario.

Non funziona praticamente nulla. Le parti visionarie sono mal dosate, di cattivo gusto e, a causa della fotografia plumbea, spesso confuse. Ma soprattutto nemmeno per un momento si riesce a dimenticare che tutte le visioni sono immagini create al computer, problema non da poco considerato che vorrebbero essere la rappresentazione di una spiritualità atavica e vorrebbero veicolare una morale umanitaria di pace e perdono. La sensazione è spesso di vedere dei tentativi malriusciti di qualcuno che sta imparando ad usare un programma di morphing. In sovrapprezzo, falsissimo anche tutto il contesto spirituale, con la descrizione degli Apache come dei proto-hippie dediti a culti ancestrali e tutta una serie di simboli e ammennicoli che puzzano più di bancarella new-age che non di tradizione indiana. Peggio ancora la parte più western, priva di atmosfera e di interesse prossimo allo zero, come praticamente sempre nel genere quando ci sono di mezzo mappe del tesoro. Il percorso iniziatico del protagonista si basa su un pretesto troppo esile per reggere un intero film e si risolve con una rivelazione troppo meccanica e prevedibile. I personaggi sono sagome prive di personalità (protagonista compreso), che entrano ed escono di scena senza ragione, interpretati da attori smarriti o costantemente sopra le righe.

Trentacinque anni prima “Matalo” di Cesare Canevari era costato cento volte meno, risultando dieci volte più riuscito, mille volte più divertente e infinitamente più genuinamente folle e psichedelico.

Dicono di lui...

“Follia totale del regista franco-olandese di successo Jan Kounen, che avendo a disposizione un budget ENORME per portare sullo schermo le avventure dell’eroe western più famoso dei fumetti francesi (in pratica l’equivalente del nostro Tex) non trova di meglio che realizzare un allucinante pippone mistico e sciamanico, che con il Blueberry di Charlier & Giraud non ha assolutamente nulla a che fare. Secondo il Giusti dovrebbe essere addirittura basato sul dittico La miniera del tedesco-Il fantasma dai proiettili d’oro, una delle più belle storie della saga e in assoluto una delle mie a fumetti preferite, ma confesso che durante la visione non mi ha mai nemmeno sfiorato il dubbio che lo fosse!
Il delirio più totale si tocca nel finale, con venti minuti di immagini lisergiche e psicotrope, al cui confronto il finale di 2001: Odissea nello spazio di Kubrick è un esempio di linearità e compostezza.
Pare che il regista, durante i sopralluoghi del film in Messico e in Perù, sia stato folgorato dallo sciamanesimo, tanto da fondare una propria scuola spirituale al riguardo, e effettivamente si vede chiaramente che è questo che gli interessa, mentre del fumetto e del western non gliene può fregar di meno, e probabilmente dal suo punto di vista il film è anche riuscito come lo voleva lui. A noi invece rimane il rimpianto che se si fosse fatto qualche scorpacciata di peyote in meno magari avremmo avuto un buon western in più.
Detto degli innumerevoli difetti, il film tutto sommato comunque ha anche qualche pregio e, sarà che ne ho sempre sentito parlare malissimo, confesso che l’ho trovato migliore di quanto mi aspettassi: alcune immagini sono indubbiamente affascinanti, qualche momento western è abbastanza riuscito e se non altro almeno la confezione è di prima classe, nonostante l’impressione generale da kolossal francese alla Luc Besson curatissimo ma con poca anima (ma comunque, non per fare sempre l’imbarazzante confronto con la nostra desolante cinematografia, se penso che in Italia l'idea di kolossal sono i film di Martinelli...). Anche il cast degli attori tutto sommato non è male: Cassel è bravo (nonostante sia doppiato malissimo dalla stessa voce di Nicholas Cage) e ha anche la faccia “giusta” (anche se il perfetto Blueberry ovviamente sarebbe stato Belmondo), Michael Madsen è parecchio appesantito ma gli basta qualcuno dei suoi sguardi in tralice, Juliette Lewis è bellissima come sempre e ci sono pure un paio di vecchie grinte western come il novantenne (!) Ernest Borgnine e l’eastwoodiano Geoffrey Lewis (padre di Juliette, sia nella realtà che nel film). [...]
Il finale, oltre a essere un delirio mistico-visionario, è assolutamente “di rottura” nei confronti del genere, visto che il tradizionale confronto finale tra eroe e cattivo, preannunciato peraltro per tutto il film, clamorosamente non ha luogo, a favore di un’incredibile conclusione new age e pacifista. Si scopre, per di più, che il cattivo non lo è poi come sembrava e che la stessa vendetta del protagonista era basata su presupposti sbagliati. Il regista, insomma, sembra fare tutto un discorso, senza dubbio sballato, ma forse poi non così banale come sembra a prima vista, sulla necessità dell’allargamento della visione (magari con l’aiuto del peyote).”
(Mauro Mihich)

“Non è un film di Jan Kounen. Non è nemmeno una messa in scena di Jan Kounen. Come ci tengono a render noto i titoli di coda si tratta di una “session” di Jan Kounen. E, perbacco, lo sembra proprio. Una session di due ore in compagnia di un regista con un'ossessione per l'occulto e l'incapacità di capire quando il troppo è troppo. [...] Il superbo Sergio Leone aveva già accennato - e con molta più sottigliezza - al soprannaturale nei suo spaghetti-western, con la figura impenetrabile e misteriosa del Uomo Senza Nome di Clint Eastwood. Anche qui si aspira a fondere un che di spiritistico con l'epica western, ma la cosa non riesce, in gran parte perché la parte tradizionale della storia con i cowboy è un totale pasticcio. Il direttore della fotografia Tetsuo Nagata ha catturato alcune magnifiche e desolate immagini del deserto, ma le incursioni visionarie e sciamaniche sono un incrocio tra uno screensaver inquietante e gli esperimenti di un moccioso con il suo primo cerchiometro. [..] È un film grosso... ma non un film intelligente.”
(Tim Evans, “Sky Movies” 2004)

Scusi, dov'è il west?


Il sentiero per Hope Rose (The Trail to Hope Rose) di David S. Cass sr.
con Lou Diamond Phillips, Ernest Borgnine, Lee Majors

Non fate caso al torvo Lou Diamond Phillips con due pistole in locandina, è un monotono e abulico finto-western dall'aria inconfondibilmente televisiva, probabilmente prodotto per un pubblico di ispirazione cristiana. Di western c'è praticamente solo quella che dovrebbe essere la resa dei conti finale, ma che è una sequenza inverosimile e titubante come tutto il resto del film. In realtà è un melodramma sentimentale di ambientazione ottocentesca, girato con i colori stinti e avviliti del dramma sociale. Peccato, perché per un western sarebbe stata piuttosto originale l'ambientazione proletaria, con la messa in scena del lavoro in una miniera e i sorveglianti degli operai come cattivi. Ma il film si concentra unicamente sull'apatica tematica sentimentale. A parte un linciaggio prima dei titoli di testa e poi minacciare a vuoto per tutto il resto del film, anche i cattivi non è che facciano un granché. Come tutti i personaggi del film d'altra parte. Le troppe facce invecchiate di attori un tempo più o meno noti contribuiscono ulteriormente alla mestizia generale.

Tommaso Sega

sabato 3 marzo 2012

i film 16 - Une aventure de Billy le Kid

1970 UNE AVENTURE DE BILLY LE KID
di Luc Moullet con Jean-Pierre Léaud, Rachel Kesterber, Jean Valmont


Sulla scia di post dedicati ai western francesi, merita una citazione questo curioso e strambissimo "western" (con tutte le virgolette del caso) diretto da Luc Moullet, esponte dalla Nouvelle Vague più teorica, intellettuale e underground. E infatti questa sua pellicola è un affascinante, sconcertante e tipico reperto archeologico della controcultura degli anni 60, che oggi appare più lontano e misterioso di un film del cinema muto. Cinema sperimentale quindi, ma bisogna anche dire abbastanza spigliato e auto-ironico da attenuare l'acidume criptico spesso connaturato a questo tipo di operazioni.

La trama è un pressappoco questa: dopo aver rapinato e ucciso dei coloni, il fuorilegge Billy le Kid salva per caso una bella figliola, che si trascina dietro come prigioniera nel suo vagabondare. I due fuggono per le montagne inseguiti da uno sceriffo e altri tizi. Ogni tanto spuntano fuori degli indiani. Tra vendette e tentativi d'omicidio tra i due nascerà una delirante storia d'amore.

Praticamente lo scheletro di un western, un film che secondo qualcuno "assomiglia alle recensioni francesi dei western americani". Nonostante il tono farsesco, si citano "Duello al sole", "Gli amanti della città sepolta", "La magnifica preda", "Il vento", insomma i classici western più folli e melodrammatici, quelli più amati della critica francese dell'epoca. E infatti più che un film, sembra l'ingegnoso soggetto di un classico di Hollywood perduto o mai finito, di cui sono rimasti solo i disadorni provini degli attori. Tutto è girato e recitato in modo volutamente trasandato e in rigorosa presa diretta, con gli attori che improvvisano in ogni sequenza, anche inciampando e scivolando mentre si inerpicano per dirupi e torrenti. Il risultato non è un titolo logicamente per tutti i palati, ma che possiede quel tono laconico, spiccio e divertente che solo certi film francesi riescono ad avere.


Se Jean-Pierre Léaud, ai tempi famosissimo, non pretese troppi soldi per interpretare il suo Billy scervellato, è probabile che ci troviamo di fronte al western meno costoso della storia del cinema. A parte lui gli altri pochi attori non sono professionisti, si intravedono due cavalli contati e un mulo in qualche scena, i costumi sono ridotti al minimo o sono proprio inesistenti - la protagonista inizialmente è vestita e truccata come una qualsiasi giovane francese del 1970 - le armi non sparano neanche a salve (si sentono solo gli spari) e il tutto è ambientato in esterni senza nessun tipo di scenografia. Comunque notevole l'uso dei bellissimi paesaggi delle Alpi francesi, a tratti sorprendentemente western.

Tommaso Sega

venerdì 2 marzo 2012

i film 15 - Il sole nella polvere

1973 IL SOLE NELLA POLVERE (Dans la poussière du soleil) di Richard Balducci, con Maria Schell, Bob Cunningham, Daniel Beretta, Karin Meier, José Calvo, Perla Cristal, Lorenzo Robledo, Fernando Bilbao, Angel del Pozo, Manuel Otero



Raro esempio di western di produzione interamente francese (cinematografia che si è dedicata pochissimo al genere, ma che può vantare di aver dato alla causa dell’Eurowestern il capolavoro Cimitero senza croci).
L’ambizioso regista Richard Balducci mette in scena un’originale trasposizione dell’Amleto di Shakespeare in chiave western, con gli intrighi familiari, i drammi passionali e l’ecatombe finale d’ordinanza, spingendo però notevolmente di più sul pedale del sesso che non su quello della violenza. Il film, infatti, è costellato di stupri e scene erotiche, come andava di moda nel cinema francese del tempo, ma in quanto a sparatorie, tolte la strage conclusiva e l’ammazzamento del solito Lorenzo Robledo a metà film, latita pericolosamente.



Purtroppo la pellicola soffre anche del difetto congenito di molto cinema francese, quello di essere eccessivamente divagante tanto da risultare alla fine un po’ noiosa: anche affrontando un mero prodotto di genere come un western i cineasti d’oltralpe non sembrano resistere alla tentazione di voler realizzare per forza qualcosa di artistico, finendo per depotenziare la forza del materiale di partenza e dando l’impressione di guardarsi l’ombelico.
Bellissime, ad ogni modo, la fotografia di Tadasu Suzuki, che acquerella in maniera inedita i suggestivi scenari dell’Almeria, e la musica di Francis Lai (vincitore del premio Oscar per la migliore colonna sonora nel 1970 con Love Story).



Daniel Beretta, noto cantante-attore francese sullo stile di Johnny Halliday, a cui peraltro fisicamente assomiglia moltissimo, è l’Amleto della situazione e ha una faccia assolutamente perfetta per il genere, e visto che deve pronunciare un’unica battuta in tutto il film gli basta e avanza quella.
Maria Schell nel ruolo della madre con cui intrattiene un rapporto neppure troppo velatamente incestuoso è l’unico nome di una certa fama della pellicola e si merita il primo posto sui titoli di testa, mentre a interpretare l’Ofelia del caso è la biondissima, e spesso nudissima, Karin Meier, che da sola vale la visione del film.
La pellicola è introvabile in lingua italiana, e non escludiamo che la copia francese da noi visionata sia più integrale di quella uscita a suo tempo nelle nostre sale.

Mauro Mihich