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Stiamo valutando una soluzione alternativa.
Ghe pensi mi, così si espresso il Presidente dell'Isola che ha già riunito un'apposita task force che si concentrerà per trovare la soluzione migliore nel minor tempo possibile.
Nel frattempo nell'Isola c'è agitazione.
Pare esistano forme di vita intelligenti.
Il Presidente è sconvolto dalla raggelante novità.


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giovedì 1 ottobre 2009

VISTA DAL BASSO 8a parte

buttare giù dal ballatoio, invocando ‘a bonanema (l’estinto), e ogni volta vicini volenterosi la tiravano indietro.
Mio padre era molto alto, era stato infatti granatiere durante la prima guerra mondiale e a tavola ci raccontava spesso episodi di quella sanguinosa
avventura che gli aveva procurato una ferita nel braccio e ferite più profonde nell’animo. Ci raccontava gli assalti alla baionetta sul Monte Grappa, la vita in trincea, ma anche i colloqui con gli austriaci negli intervalli delle battaglie.
Era il nostro Remarque quotidiano.
Era un uomo mite, aveva dovuto interrompere presto gli studi, dopo la III Avviamento (corrispondente più o meno alla nostra terza media), per la morte prematura del padre, ma leggeva molto: in biblioteca aveva le opere di Dickens, di Hugo, di Swift. In gioventù aveva scritto sonetti d’amore per mia madre ed era conosciuto infatti nel quartiere come don Gennarino ‘o pueta.
La mattina, quando si radeva, non fischiettava o cantava, ma recitava ottave dell’Ariosto: “Vaghi boschetti di soavi allori…”, che io ascoltavo deliziata dal letto.
La quarta e la quinta elementari le frequentai nella scuola pubblica intitolata a Giacomo Leopardi. I libri che usavamo erano infarciti di storie di martiri fascisti e a ogni piè sospinto glorificavano le opere e le vittorie del Regime Fascista. Partecipai anche ai Ludi Juveniles e vinsi un premio con uno sciagurato tema sul Duce…


Il sabato andavamo all’adunata nella piazza antistante la Casa del Fascio, intitolata a Filippo Corridoni. Si assisteva all’alzabandiera, io con la mia divisa di Piccola Italiana: blusa bianca di piquet con una grande M colorata sul taschino, gonna nera e la mantella pure nera, chiusa al collo da una catenella dorata, che mi piaceva da morire, solo per quella avrei aderito al Fascismo…
Però le marce mi angosciavano: siccome ero piccola di statura capitavo sempre in prima fila e tenevo stretto stretto il pugno della mano destra, per non sbagliare quando scattava il comando: fianco destr!, perché ero una mancina disturbata e per me, ancora adesso, distinguere la destra dalla sinistra richiede uno sforzo di riflessione.
Quando imparai a scrivere o quando disegnavo, tentavo di farlo con la sinistra, ma tutti mi sgridavano, come avessi commesso chissà quale colpa, per cui sono diventata un’ambidestra imbranata: cucio con la sinistra, ma dalle suore ricamavo con la destra, scrivo con la destra, ma so scrivere anche con la sinistra, con una grafia infantile, cosa di cui si avvaleva mia nipote Maria quando si stancava di fare i compiti – Nonna, scrivi tu con la mano di bambina! – mi diceva (l’altra era la mano di professoressa).
Alla fine dell’anno scolastico 1940-41, in cui avevo terminato la quinta elementare, quando avevo cioè dieci anni, scoppiò la II guerra mondiale

martedì 29 settembre 2009

VISTA DAL BASSO 7a parte

amante (e chi fosse un’amante non mi era poi tanto chiaro), che mettendo la mano sull’inginocchiatoio di velluto, lo accusa: - Per te mi trovo nell’inferno! – e sparisce lasciando un’impronta fumante…
Nel parlare, mia madre ricorreva a proverbi e a wellerismi, per dare più forza al discorso, col distillato della saggezza popolare:
L’erba voglio non ha germoglio; l’erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del re, e se al suo richiamo rispondevo: - un momento! - s’impazientiva:
- Sì, quanno piglio Trieste e Trento !- (quando conquisto Trieste e Trento, modo di dire nato inequivocabilmente durante la I guerra mondiale).
I mobili della casa avevano nomi storpiati dal francese: ‘a lettagerre (l’ètagére), ‘o cummò (la commode), ‘a tuletta (la toilette), che consisteva in una mensola di marmo, sormontata da un grande specchio ovale.
Su quella mensola facevo i compiti di scuola, mentre nello specchio si riflettevano sontuosi tramonti cremisi. Una volta, mentre ero intenta a scrivere, sentii alle mie spalle i fili della luce che sbattevano violentemente contro la finestra e contemporaneamente un urlo collettivo che mi paralizzò: dal quarto piano (noi allora avevamo cambiato casa, ma restando sempre nello stesso rione Duca D’Aosta e abitavamo al primo piano) si era buttata giù una ragazza diciottenne, alla quale i genitori proibivano il fidanzamento col suo innamorato, era rimbalzata sui fili della luce ed era caduta a testa in giù sul sottostante marciapiede di terreno battuto, morendo sul colpo. Per alcuni giorni continuò a formarsi un capannello intorno al buco scavato dalla testa di quell’infelice ragazza: a lungo rimase in me il raccapriccio per quel ferale avvenimento e da allora non posso sopportare che
qualcuno si sporga da una finestra in mia presenza.
Mia madre aveva cinque sorelle, una, sedicenne, era morta con la famosa “febbre spagnola”, un’altra, la madre di Luisa, era morta dopo aver partorito il quinto figlio. Solo l’ultima, Assuntina, che era anche la mia cummara (madrina di battesimo e di cresima), aveva studiato, aveva fatto un buon matrimonio e abitava al Vomero. A casa sua sono andata in qualche occasione, con un tram sferragliante, che si arrampicava a fatica sulla collina (allora poco abitata, con grandi giardini e viali alberati) e ho visto per la prima volta le banane, nel piatto dei cugini ricchi.
Mia zia Puppenella (Giuseppina) abitava invece in un vecchio palazzo, dove al primo piano, sui tre lati del cortile interno, correva un ballatoio con tante porte, che davano ciascuna su un unico grande stanzone, dove si ammucchiava una famiglia, quasi sempre numerosa.
Una volta, in casa della vicina di mia zia, ho visto una specie di rito di purificazione: passavano la fiamma delle candele sotto le reti dei letti, per stanare e bruciare le cimici!
Un’altra volta, entrando nel cortile, assistei ad un funerale: il carro funebre era tirato da due cavalli scalpitanti, e mentre i parenti portavano a spalla ‘o tavuto (la bara) di un capofamiglia, le urla dei figli risuonavano strazianti e una donna, non so se fosse la moglie o la figlia maggiore, faceva ripetutamente mostra di volersi

domenica 27 settembre 2009

VISTA DAL BASSO 6a parte

A settembre si andava tutti in campagna per qualche giorno dal compare di mio padre, dove sull’aia si procedeva al rito della preparazione delle bottiglie e delle conserve di pomodoro per l’inverno: io ero addetta a girare la manovella di una macchinetta, che riduceva la polpa rossa in poltiglia, la conserva, appunto. Quanto mi divertivo! Intorno a me razzolavano galline, starnazzavano oche, cantavano le contadine, si lavorava in allegria.
Dopo i sette anni uscivo anche da sola, sia per andare a scuola (attraversavo un viottolo di campagna, dove a volte mi abbaiavano cani randagi, con mio terrore, perciò ancora adesso non ho simpatia per questi animali), sia per andare dal tabaccaio a comprare il sale grosso, che si vendeva in sacchetti di carta molto spessa, ma io, lungo il viottolo di ritorno, scavavo col dito un buchino di lato, ne cavavo un granello e lo succhiavo con grande voluttà…
Andavo a comprare la carbonella in un antro fuligginoso, dove il carbonaio
con una pala raccoglieva la carbonella da un enorme mucchio e la gettava sulla bilancia, sollevando nugoli di quella polvere nera che già lo ricopriva da capo a piedi e che mi faceva tossire…
Dal contadino donn’Eduardo, che aveva una stalla con le mucche, compravo il latte e ‘a rennetura (l’ultimo latte munto, il più denso), che bevevo golosamente, tiepida com’era, senza che fosse bollita, e così mi ammalai di paratifo e stetti a letto quasi un mese.
A Natale si faceva festa, con grandi tavolate alle quali partecipavano zii e cugini.
Tra questi spiccava Amedeo, figlio di zia Rosina e quindi cucino carnale (cugino che non ha lo stesso cognome) e non frate cucino (avente lo stesso cognome, perché figlio di fratelli), che era alto e grosso e mangiava la sua porzione di vermecielle (spaghetti) direttamente nella zuppiera, essendogli insufficiente la razione di un piatto.
Il rito preliminare era quello dei capitoni (anguille), che mio padre doveva tagliare in grossi pezzi sanguinolenti, impressionanti, che continuavano a contorcersi dopo essere stati separati dalla testa. Spesso le povere bestie gli sgusciavano tra le mani e bisognava rincorrerle fin sotto i letti…Mio padre però non era capace di tirare il collo a una gallina, e per questo si chiamava mio zio Vincenzino…
Mia madre cucinava il capitone in umido, in un ruoto (teglia), ricoperto di foglie di lauro: si diffondeva l’odore per tutta la casa ed è a quell’odore che è legata per me la memoria della festa, ora ridotta ad un fastidioso rito consumistico.
Con il lauro mia madre, che era stata povera, si preparava certe sue cene c’o pane cuotto (pane raffermo, bollito in acqua ed olio e profumato appunto con un rametto di alloro). Non aveva potuto studiare oltre la VI elementare di allora ed era stata mandata come apprendista presso una sarta, però aveva pensieri e sentimenti nobili. Donna religiosissima, non mancava mai alla prima messa del mattino e metteva in pratica i precetti evangelici con autentico spirito di carità: a volte, tornando da scuola, trovavo un mendicante seduto alla nostra tavola.
Ma era anche imbevuta di severo spirito controriformistico e non mi raccontava favole, bensì storie raccapriccianti, come quella del peccatore pentito e fattosi monaco che, mentre prega di notte, sente un rumore di catene e gli appare la sua

venerdì 25 settembre 2009

VISTA DAL BASSO 5a parte

A volte, dopo i giochi, ci faceva recitare il rosario, ma io, mentre sfilavano i misteri gaudiosi, dolorosi e gloriosi e rispondevo meccanicamente alle Ave Maria, guardavo affascinata una goccia che le pendeva dal naso appuntito, che lei non asciugava e che oscillava senza mai cadere per tutto il tempo.
Gli altri miei giochi erano solitari, o con la bambola o con la scatola dei bottoni
(mia madre, che cuciva i nostri vestiti, ne aveva molti, di ogni colore e dimensione) o, avvolta in un vecchio scialle colorato, immaginavo d’essere una regina, oppure semplicemente osservavo i giochi degli altri bambini sotto la mia finestra: la campana, lo strummolo (una trottolina che si tirava con una cordicella) le corse sui monopattini di legno…
I grandi facevano discorsi che mi piaceva tanto ascoltare, soprattutto quelli di mia zia Rosina (sorella di mio padre) quando veniva in visita: parlava e gesticolava in modo molto colorito, a volte abbassava la voce e io con disappunto capivo che dovevo uscire dalla stanza, a volte tuttavia riuscivo a cogliere frammenti di frasi:
- chilli dduie accussì se ne so’ fuiute –(quei due alla fine se ne sono fuggiti) Dove erano fuggiti e perché? Continuavano sempre a fuggire? Forse in un bosco, luogo misterioso per eccellenza, come mi insegnavano le fiabe?
Zia Rosina abitava in un palazzo all’ultimo piano e aveva un grande terrazzo la loggia, dove stendeva le lenzuola da lei lavate in una tinozza, sfregandole su una tavoletta di legno scannellata. Mia madre invece le lenzuola le faceva lavare da una contadina, che le portava in una grande cesta in bilico sul capo, appoggiata su un panno attorcigliato e le lavava strofinandole su una pietra scabra. Ho saputo anni dopo, con mio grande rammarico, che era morta investita da un’automobile, lei che era abituata a percorrere kilometri a piedi, ma non a scansare le insidie della velocità sulle strade.
Siccome ero mingherlina, avevo diritto ogni tanto allo zampaglione (zabaione),
quanto mi piaceva, ne leccavo fin le ultime tracce torno torno al bicchiere…Mi piacevano però molto meno l’olio di fegato di merluzzo e l’olio di ricino, alla bisogna, o le iniezioni ricostituenti che mi faceva zio Vincenzino, il marito di zia Rosina, che ogni volta mi diceva sadicamente: “Hai sentito qualcosa? Io non ho sentito niente!” Quanto lo odiavo!
In casa rendevo piccoli servigi: spazzavo,spolveravo,soffiavo per alimentare il fuoco con un ventaglio di paglia davanti alla fornacella (solo più tardi arrivò il fornello a gas!), scacciavo le mosche, prima di socchiudere le imposte, con il sciosciamosche (scacciamosche).
Mi piaceva soprattutto spazzare, ma un giorno che fui troppo zelante, scostando un vecchio cesto di sotto al focolare, mi ritrovai col pavimento invaso dagli scarrafoni (scarafaggi), ne uccisi quanti ne potei con la scopa, furiosa e inorridita, quasi mi fossi scontrata con forze oscure annidate nella casa e pronte a sopraffarmi.
D’estate allargavo la lana sulla loggia di mia zia Rosina: si trattava di estendere i fiocchi di lana dei materassi che, essendo stati lavati, si erano ammassati: un lavoro lungo e faticoso, che però mi piaceva, nonostante alla fine mi dolessero le mani.

mercoledì 23 settembre 2009

VISTA DAL BASSO 4a parte

Non capivo, ma non mi importava, mi piacevano quelle parole per me misteriose, erano la mia cabala, il mio mantra.
Mi scrivevo da sola le preghiere: ero devota di S.Giuseppe, perché mi sembrava un santo un po’ trascurato rispetto agli altri, facevo “i fioretti”, come mi suggerivano le suore, mettendo per es. una caramella in un cassettino che andavo ad aprire ogni tanto, senza abbandonarmi al peccato capitale della gola, che m’avrebbe spinto a scartocciarla e a gustarla…Non so quanto tempo resistessi…
Nella scuola delle suore vidi applicata una pedagogia severa fino alla crudeltà: fioccavano le bacchettate sulle mani degli alunni ad ogni errore o mancanza (a me, così perfettina, mai) e una volta un ragazzo fu portato in tutte le classi con un cappello di carta in testa a forma di cono, dal quale pendevano due orecchie d’asino (pure di carta, ovviamente) e un cartello sul petto dov’era scritto : SONO UN ASINO. Tutti ridevano e lo schernivano, a me fece molta pena.
Gli asini erano animali assai familiari all’epoca, se ne vedevano dappertutto, tiravano ogni specie di carretto, erano detti anche ciucci e ciucci erano chiamati i ragazzi poco studiosi…(facendo torto a quegli amabili animali).
Oggi gli asini sono spariti dalle città e forse anche dalle campagne e per ciuccio
s’intende la tettarella dei lattanti, così come per cellulare ( che una volta significava: furgone per il trasporto dei detenuti) adesso s’intende il telefonino!
Un’altra scena crudele, che mi turbava particolarmente, era questa: una povera vecchia semidemente, che usciva per strada truccata pesantemente, veniva circondata da ragazzi, che la spingevano, le strappavano quasi i vestiti, cantando una canzonaccia:
‘A signora se vò marità /votta ‘o culo accà e allà…
Non ho mai visto nessuno intervenire a difenderla.
E non parliamo della vista raccapricciante delle civette, inchiodate con le ali aperte su alcune porte dei bassi, per buonaugurio, mi spiegarono. Per fortuna era un’usanza che andava scomparendo…
Con le mie sorelle facevo anch’io a volte un gioco crudele: andavamo nei prati, catturavamo le farfalle e le ficcavamo in una buatta (lattina) vuota, che una di noi teneva chiusa con una mano. Quando la buatta era piena si toglieva la mano e quelle volavano via tutte insieme, in un tripudio d’ali colorate, ma naturalmente qualcuna rimaneva asfissiata in fondo alla scatola.
Il nostro gioco preferito era “nel paese dei…”, che consisteva nel metterci in circolo, mia sorella Nina, io e i tre figli di un’amica di mia madre, cantando: “Nel paese dei sarti, i sarti fanno così”, seguiva l’imitazione del sarto che cuce e così via per una serie di lavoratori, ma alla fine – era quello il momento culminante – cantavamo: “Nel paese dei signori, i signori fanno così” e ci cavavamo dalla testa dei vecchi cappelli della signora, che avevamo calzato all’inizio, inchinandoci fino a terra.
L’amica di mia madre era una “vera signora”, benché di modestissima condizione non usciva mai senza cappello e ci teneva a sottolinearlo, e i figli rispettosamente le davano del “voi”, il che ci stupiva, perché noi usavamo il “tu” con i genitori.

domenica 20 settembre 2009

VISTA DAL BASSO 3a parte

La suora a un certo punto fece il dettato e, passando accanto al mio banco, vide con stupore che avevo scritto tutto in bell’ordine, senza fare neppure un errore.
Fui subito promossa al primo banco di un’altra fila e iniziò così la mia brillante carriera scolastica.
Pure un errore lo feci, ma voluto: dopo aver raccontato la strage degli innocenti la maestra ci disse di scrivere dei “pensierini” e quando vide il mio compito, stupita, mi rimproverò: - Come mai avevo scritto il nome di Erode con la lettera minuscola, io, così brava? – Non risposi una parola, non osai dirle che l’avevo fatto per punire quel re così cattivo!
Sulla prima pagina del libro di lettura c’era, in basso, un bambino piccolo piccolo e lungo il bordo un vecchio signore, così alto che la lunghezza della pagina non gli bastava, sicché aveva le spalle e la testa piegati lungo il margine superiore.
La scritta recitava:
Qual è la prima virtù del bambino? L’ubbidienza.
Qual è la seconda virtù del bambino? L’ubbidienza.
La terza ve la lascio indovinare.
L’anno dopo, in terza elementare, ricordo il quadro del re, con la scritta: Vittorio Emanuele III, per grazia di Dio e per volontà della Nazione (un vero ossimoro!) re d’Italia e d’Albania e imperatore d’Etiopia.
Frequentavo il catechismo nella chiesa parrocchiale, lo sapevo tutto a memoria: i sette vizi capitali, le tre virtù teologali le sette opere di misericordia corporale (l’ultima: - seppellire i morti - mi lasciava alquanto perplessa: bisognava scavare? E come?). Molte cose mi rimanevano oscure, come gli atti impuri del sesto comandamento, ma non ero abituata a fare domande ai grandi, mi arrovellavo in silenzio.
Feci la prima comunione quell’anno: Vestita di bianco, con un giglio e una candela in mano e due ali d’angelo appiccicate alle spalle, guidavo la fila delle comunicande, incaricata di leggere una preghiera speciale nel corso della messa, in piedi su una sedia. Dalla commozione, mi tremavano le mani e stavo quasi per cadere, quando una suora se ne accorse e venne ad aiutarmi.
Leggevo tantissimo, dalle favole ai libri Salani a quelli della Scala D’Oro e ai racconti di Anna Vertua Gentile, dove gli operai erano sempre ubriaconi e le mogli scapigliate coi bambini macilenti aggrappati alla veste ad aspettarli fuori dell’osteria, salvati alla fine da ricche dame generosissime.
Lessi e rilessi le fiabe di Andersen, i romanzi di Dickens, i libri della Alcott, ma la pagina che mi segnò più di tutte fu quella dei Miserabili, dove si narra dell’evaso, che, accolto da un prete, lo deruba dei candelieri d’argento: catturato, viene riportato dalle guardie davanti al suo ospite, che afferma d’averglieli regalati e lo fa liberare: fu una grande lezione di bontà e di pietà.
Nella chiesa vicino casa mi attirava in modo particolare una statua di S. Vincenzo, vestito da monaco, con una specie di ricciolo rosso sulla testa, che voleva essere la fiamma della predicazione e in mano un libro aperto, con un’iscrizione in latino: TIMETE DEUM ET DATE ILLI HONOREM.

venerdì 18 settembre 2009

VISTA DAL BASSO 2a parte

quando tornava a casa, raccontava storie favolose, che suscitavano in me invidia e ammirazione: la suora aveva invitato gli alunni a far posto all’angelo custode e allora lei si era seduta in punta al banco, per dare spazio alle ali…
Nina a sua volta era un po’ gelosa nei miei confronti, come spesso accade ai fratelli maggiori, che vedono l’attenzione dei genitori spostarsi sull’ultimo nato, anche se lei restò sempre la preferita di mia madre.
Mi faceva dispetti: una volta mi disse di inginocchiarmi su un’erba speciale ed io come una stupida eseguii e mi ritrovai con le ginocchia e la pelle delle gambe che mi bruciavano: erano ortiche!
Tra lei e me c’era stata un’altra bambina, col mio stesso nome, che era morta ad un anno per un colpo di sole. Disattenzione dei miei genitori? In casa nessuno ne parlava mai, né esistevano sue fotografie, seppi di lei da mia cugina Luisa.
Col tempo capii che ero nata pe’ supponta, per soppiantare la morticina e che mia madre, avendo sperato di avere finalmente il sospirato maschio, era rimasta ancora una volta delusa, io infatti la conobbi già incupita e dolente.
La mia sorella maggiore Giuseppina aveva sette anni più di me, distanza per me abissale: quando io varcavo la soglia dei quattro anni, lei ne aveva già undici, già masticava il latino ( che allora si studiava fin dalla prima media), andava da sola a Montesanto con la ferrovia Cumana per frequentare le medie ( a Fuorigrotta allora c’erano solo le elementari) e favoleggiava di biscotti ripieni di marmellata di amarena, che mi facevano desiderare di diventare grande, per poter assaggiare anch’io tanta leccornia…
Quando finalmente andai anch’io alle medie e potei comprarne, trovai un negozietto polveroso e biscotti ammuffiti, ma intanto era passata la guerra a distruggere miti piccoli e grandi…
Così pure mi deluse la poltrona del Venerabile Nonsochi, collocata nella sacrestia di una vecchia chiesa, dove le ragazze andavano a sedersi prima di affrontare i compiti in classe, per sollecitare aiuto e/o ispirazione: trovai una poltroncina sfondata, ricoperta da un lenzuolo lercio, e non mi sedetti.
A sei anni mia madre si decise a mandarmi a scuola e, siccome sapevo già leggere e scrivere, chiese di iscrivermi direttamente in seconda classe, La direttrice fece qualche obiezione, ma mia madre fu perentoria nella sua richiesta e alla fine fu accontentata senza ulteriori verifiche.
Così mi ritrovai in un’aula enorme, dove c’erano almeno una trentina di bambini e bambine vocianti, distribuiti per file, in quei vecchi banchi formati da una panchetta di legno e da un piano inclinato, col calamaio al centro, riempiti con l’inchiostro in cui intingere la penna col pennino. Nel quaderno avevamo perciò una carta assorbente, con cui asciugare l’inchiostro alla fine di ogni pagina scritta.
La maestra, suor Maria, indispettita dal mio arrivo ad anno scolastico inoltrato, mi mise nella fila degli asini, accanto ad un maschietto, una specie di Franti, che, con mio terrore, faceva grandi macchie d’inchiostro su ogni pagina dei suoi quaderni, senza nemmeno asciugare! Temevo che avrebbe sporcato anche il mio, ma lui , per fortuna, tutto compreso nel suo compito trasgressivo, non mi degnò di uno sguardo

mercoledì 16 settembre 2009

VISTA DAL BASSO 1a parte

Il mio primo ricordo risale ai tre - quattro anni: sono seduta in braccio a mia sorella Nina, una solida ragazzotta di quattro anni più grande di me. Adesso che siamo due rispettabili anziane signore, la distanza tra noi è diventata irrilevante, allora invece era notevole, e tale rimase fino ai miei sedici anni (lei venti), quando uscimmo con i rispettivi fidanzatini (il mio più grande d’età del suo!)
La sediolina è impagliata, di quelle che vendeva ‘a ‘mpagliasegge col suo carrettino, dove aveva ammucchiati fasci di paglia per riparare, con abili mani, le sedie spagliate dei clienti.
Nina (che poi ha ripudiato questo diminutivo del suo nome Anna), come dicevo, era una ragazzetta forte, a differenza di me, sempre esile e gracile, aveva folti e spessi capelli scuri, raccolti in due trecce: ’e corde ‘e viulino, la prendeva in giro mia cugina Luisa, più grande di noi, che, essendo orfana di madre, viveva a casa nostra.
Nina si intruppava in bande di ragazzi che facevano scorribande nella terra (campagna incolta) di fronte a casa nostra e so che andavano perfino a rubare
‘e sciuscelle (le carrube) dal sacco dell’asino…
Io ero una bambina solitaria, non frequentavo la scuola materna e passavo gran parte del mio tempo seduta sul davanzale della finestra (abitavamo allora al pianterreno di un isolato delle Case Popolari del quartiere napoletano di Fuorigrotta), dietro le mezze persiane chiuse, al di sopra delle quali guardavo la strada, i passanti, i carretti tirati da asini o cavalli che si lasciavano dietro scie di meta, ‘e mpagliasegge e il gioco sapiente delle loro mani, che mi incantava, la contadina che si tirava dietro la capra legata a una corda, di cui vendeva il latte,
d’estate il carrettino del gelataio, che rimestava ghiaccio e limone in una specie di pentola di rame, traendone deliziosi - per il nostro palato - sorbetti, d’inverno il carrettino del venditore d’e cuoppe ‘e allesse (involtini di castagne lesse). A volte passava l’esequia (il corteo funebre), con i lugubri uomini incappucciati delle confraternite al seguito e, una volta all’anno, alla fine di aprile, tra lo sventolio delle più belle coperte appese ai balconi, la processione per la festa di S.Vitale, protettore del quartiere: su un camion addobbato per l’occasione avanzavano, traballando, le statue dell’intera famiglia del santo, la moglie Valeria e i due figli Gervasio e Protasio, tutti, lui compreso, con la palma del martirio in mano.
Fuorigrotta, (Forerotta), il quartiere in cui ero nata ed abitavo, era allora un vero e proprio paese agricolo, separato dalla città da tre grotte: l’antica cripta neapolitana, oggi chiusa, e quelle che lo collegavano a Mergellina e che oggi si chiamano Galleria Laziale e Tunnel delle IV Giornate.
La chiesa di S. Vitale, in seguito abbattuta quando Mussolini volle la bonifica del quartiere per la costruzione della Mostra d’Oltremare, aveva nell’atrio la tomba di Giacomo Leopardi, poi trasferita a Mergellina, accanto alla tomba di Virgilio.
Mia sorella Nina frequentava già la scuola elementare, presso le Suore d’Ivrea:

giovedì 3 luglio 2008

UNA PARENTESI DEL MIO DIARIO (forse sarà l'unica)

La mia adolescenza: circa a 13 anni in un paese piemontese (Ceres),mentre facevo l'imbianchino,questo era il mio mestiere allora,ho avuto il primo attimo di smarrimento:il mio sesso incominciava a dettarmi delle leggi che io ancora non conoscevo..pruriti strani.La prima cosa che feci fu quella di nascondermi nel bagno del datore di lavoro,ero meravigliato da quello che provavo,mi guardai e naturalmente mi toccai ed all'improvviso provai un piacere che mi fece quasi paura,era la prima volta che mi succedeva una cosa del genere! Ritornai subito al lavoro e l'imprenditore mi chiese gentilmente se gli comprassi delle sigarette,io ci andai volentieri,almeno non avrei lavorato per un pò,in fondo ero solo un ragazzino,ma giunto dal tabaccaio vidi sul bancone un pacchetto di sigarette lasciato da qualcuno,allora me lo infilai in tasca,pagai l'altro fumo e con i due pacchetti mi avviai verso il cantiere di lavoro.Consegnai il pacchetto e mi avviai di nuovo al mio posto,pensavo sempre alle sigarette che avevo in tasca e provai ad accenderne una,una cosa atroce,stavo quasi per soffocare...I giorni passavano e sempre di più sentivo il desiderio di avere un contatto vero con una ragazzina,allora cominciai a rincorrere quelle che c'erano nel mio quartiere.

sabato 10 novembre 2007

DIARIO DI GUERRA ultima puntata

Rientrammo a Fuorigrotta, alla fine del 1943, perché mia sorella ed io potessimo riprendere gli studi, ma niente e nessuno era più come prima.
Quando tornammo a scuola, Napoli era invasa dagli afro-americani e dagli sciuscià, e passando per i vicoli di Montesanto, sentivamo gli scugnizzi che ci cantavano dietro i versi della “Tammurriata nera”:
‘E signorine napulitane / fanno ammore co ‘ e marrucchine
Crescevamo, e allora mia madre scucì in vita i nostri vestiti e li allungò con una striscia di lana o di cotone fatta all’uncinetto, tra il busto e la gonna, con patetici risultati.
Trascinavo un paio di scarpe con la tomaia molto dura, che mi aveva provocato fastidiose mozzicature (= piaghette) sul tallone, per lo sfregamento contro la pelle. Erano state ricavate da calzolai solerti da scarpe dei nostri soldati, saccheggiate da un deposito militare e rivendute a gente come noi..
Avevamo dei cappotti ricavati dalle coperte americane, tutti dello stesso colore, un marrone rossiccio: il primo anno mi calzò da cappotto, in seguito da giacca a tre quarti e poi da giacca..
Non ricordo di aver fatto mai il bagno, in quegli anni, ci lavavamo
“a pezzi”.
Non ne potevamo più di mangiare la polvere di piselli degli americani, che aveva invaso le nostre mense e volentieri ne portavamo pacchi al professore di matematica, che ne faceva incetta, Però a casa degli zii ricchi la mangiai mescolata alla carne in scatola e mi sembrò squisita.
Anche la carta scarseggiava: i miei quaderni, di cui ancora conservo qualche esemplare, erano ritagliati da certi vecchi registri che mio padre, impiegato comunale, aveva trafugato.
Avevo tredici anni ed ero piuttosto bassina, tanto che in famiglia mi chiamavano: zi’Assunta, che era una vecchia zia di mio padre, di statura assai piccola. Poi mia madre mi rimpinzò con le vitamine portate dagli americani e ricominciai a crescere, e crebbi fino a vent’anni, raggiungendo un livello di statura accettabile per una donna del Sud e della mia generazione.
La scuola però - incredibile - era un corpo completamente separato, si studiavano gli stessi programmi di sempre, come se mai nulla fosse successo, come se l’immane tragedia che aveva sconvolto l’Europa fosse avvenuta su un altro pianeta…
Solo più tardi, dai libri, dai giornali,dalla radio, dal cinema mi venne tutto addosso: Hitler, l’Olocausto, la resa di Berlino, la Resistenza, Anne Frank, Primo Levi, Hiroshima…
Perfino delle Quattro Giornate di Napoli, perfino degli scugnizzi napoletani medaglia d’oro seppi dopo e non a scuola!

R.L.

venerdì 9 novembre 2007

DIARIO DI GUERRA 10 puntata

Anni prima, all’inizio della guerra, avevo conosciuto un soldato tedesco al quale mi ero molto affezionata, era il fidanzato di una giovane cugina di mia madre, mi faceva sempre il verso quando invece di dire: - no- emettevo un suono tipicamente dialettale,
intrascrivibile, una sorta di - nnzz -
Che fine fece l’allegro, l’affettuoso Rudolph? Riposa forse anche lui nel cimitero di guerra tedesco di Cassino, tra tutti quegli altri giovanissimi, sacrificati come lui a un folle progetto ?
Il giorno in cui si sparse la voce che erano arrivati gli americani in città, mio padre seguì alcuni amici che andavano a Napoli e tornò la sera con un grosso pacco: una fellata di provolone e mortadella.
Quella mortadella al palato mi sembrò un nettare e da allora continua a sembrarmi squisita…
Gli americani avevano piantato le tende nelle campagne vicine: i miei cugini un pomeriggio mi trascinarono con loro, assicurandomi che ci avrebbero dato le caramelle. Nella tenda ci fecero sedere e chiesero a me, viso d’angelo, di ripetere delle parole inglesi che mi andavano suggerendo, evidentemente oscenità, che io presi a balbettare con la mia vocetta timida e loro ridevano ridevano, ridevano, anzi sghignazzavano… La mia voce cominciò ad incrinarsi, ero sul punto di piangere e così la smisero e ci dettero le caramelle.

giovedì 8 novembre 2007

DIARIO DI GUERRA 9 puntata

Dopo l’armistizio, molti prigionieri si rifugiarono nelle campagne presso i contadini, in attesa dell’arrivo dei liberatori americani.
Un prigioniero indiano morì e ne celebrarono il funerale fuori delle mura del cimitero del paese, con canti e lamenti così struggenti, che mi impressionarono molto.
Quando i tedeschi si ritirarono passando sulla via nazionale, dai carri armati sparavano raffiche di mitra in direzione delle traverse che tagliavano la loro strada, probabilmente per timore di attentati, per intimidire la popolazione.
Io ero andata come al solito ad attingere acqua alla fontana lungo una strada traversa, a un certo punto vidi tutti che scappavano, ma non volevo lasciare il mio secchio pieno: sopraggiunse mio padre e mi trascinò via. Alle spalle sentivo crepitare la mitragliatrice: mia madre mi credeva già morta, pianse quando mi vide tornare, tanto che mi sentii in colpa.

mercoledì 7 novembre 2007

DIARIO DI GUERRA 8 puntata

Del resto in un’altra casa avevo visto dei giocattoli: un camion, una busta coi birilli, appesi a un chiodo e alla mia domanda meravigliata, i bambini avevano risposto rassegnati: “se no si rompono”.
Io invece avevo una bambolina di pezza che mi portavo dappertutto, in tasca o in una borsetta: era piena di segatura, aveva i capelli fatti con le reste del granturco e gli occhi e la bocca dipinti sulla stoffa.
Alla fine dovette rosicchiarla un topo, la trovai tutta sventrata e ne soffrii, ma ormai ero grande per le bambole.
Al piano di sopra abitava una coppia senza figli: lui ogni mattina scendeva impettito la scala, vestito da fascista di tutto punto, gambali e fez compresi. Probabilmente così conciato andava in giro per i negozi a ottenere qualche genere alimentare.
Il 26 luglio la moglie del fascista si affacciò dalla scala, gridando che il marito non aveva mai fatto male a nessuno: io non capivo cosa avesse da sbraitare così all’improvviso, poi alle spalle spuntò il marito, in borghese, senza più l’aria baldanzosa e scopersi improvvisamente quello che era: un pover’uomo.
Non si trovava più nulla da mangiare, nemmeno alla borsa nera, mia madre un giorno cosse le bucce dei piselli. Capii la fame…

martedì 6 novembre 2007

DIARIO DI GUERRA 7 puntata

All’inizio del 1943 le scuole furono chiuse e gli alunni promossi in base ai voti del primo trimestre.
Allora sfollammo a Soccavo, attuale periferia sovraffollata di Napoli, allora un paese di campagna, a casa di mia zia Fortuna, una casa formata da due enormi stanzoni dalle pareti scrostate, in cui ci ammucchiammo una famiglia per camera, una cucina annerita con uno sportello in alto come unica bocca d’aria e una rientranza nel muro chiusa da una porta di legno: era il gabinetto!
In seguito ci trasferimmo in un terraneo di una casa di campagna e qui entrai in contatto diretto con la cultura contadina: i materassi erano riempiti di sbreglie, ovvero di foglie secche di granturco, che la mattina bisognava rivoltare, infilando le mani in un’apposita apertura del saccone; le contadine, scoprii, non portavano biancheria intima e urinavano sulle zolle aprendo le gambe, in piedi, il che mi impressionò non poco ( tutto sommato ero una cittadina!); imparai a raccogliere l’erba per i conigli, andando scalza per i prati (i piedi mi si allargarono e si indurirono, cosa di cui da adolescente mi sarei rammaricata) e a spaccare i tronchetti di legno con l’accetta.
La sera, d’inverno, andavamo nell’ampia cucina del contadino che ci ospitava e lì ci stringevamo intorno al camino acceso, ascoltando i racconti dei grandi: “la fiamma è bella” e mi incantava.
Vidi perfino un rituale di preparazione a un matrimonio, in quei tempi così precari: in un basso c’era, esposto sulle sedie impagliate, il corredo ricamato della sposa, con le carte veline sotto i ricami per metterli in risalto…
Su una sedia c’era una grossa bambola, con un enorme vestito a campana, non destinata a giochi infantili, ma a sedere al centro del letto matrimoniale, con la gonna aperta a far da copriletto. Ancora oggi si sente dire da qualche donna anziana, a proposito di una bella ragazza: “Si’ bbella comm’a bambula mmiez’o lietto!”

lunedì 5 novembre 2007

DIARIO DI GUERRA 6 puntata

La situazione divenne intollerabile, i bombardamenti imperversavano anche di giorno: ricordo una volta, a via Toledo, la folla in fuga, che mi schiacciava contro il muro, dove rimasi, bloccata dal panico, finché una donna mi trascinò via con sé, in un rifugio poco lontano…
Un’altra volta dovemmo scendere dal treno, fra la stazione del Corso Vittorio Emanuele e Montesanto, perché era mancata la corrente. Camminavo incespicando in un tunnel al buio, chi poteva si accendeva una torcia col giornale, un ragazzo che aveva solo un accendino mi chiese della carta e io sacrificai una parte del libro delle Fiabe di Andersen che avevo con me…
Quanto mi piacevano le canzoni del tempo di guerra! Ancora adesso, restano dolci nella memoria con i loro motivi, perché comunque legate alla fanciullezza:
La Sagra di Giarabub: Colonnello non voglio pane
dammi il piombo per il moschetto
……………………………………
Colonnello non voglio l’acqua
dammi il fuoco vendicatore…..
ma la preferita era: Soldatini di ferro, tanto più che me la cantava mio cugino Fernando, con il quale avevo un feeling infantile:
Dice il bimbo : Papà, per favor
sai tu dirmi se in petto hanno un cuor?
Sorridendo il papà dice: No
I soldati che vedi oggidì
Sono tutti di ferro così.

domenica 4 novembre 2007

DIARIO DI GUERRA 5 puntata

Avevo ascoltato per anni i racconti di guerra di mio padre, che era tra i pochi uomini alti all’epoca, infatti aveva combattuto da granatiere nella Prima guerra Mondiale, a 20 anni, ed era stato anche ferito a un braccio. Descriveva la vita di trincea, gli scontri corpo a corpo con gli Austriaci sul Monte Grappa, quando avanzava con la baionetta inastata, come ubriaco, e una volta ci raccontò la fucilazione di un giovanissimo commilitone napoletano, che aveva cercato di fuggire e, riacciuffato, era stato subito fucilato mentre invocava a gran voce: “Mammà, Maronna mia!”
Erano comunque fatti lontani, mitici, mentre questa guerra era vicina, incombente, ci stava addosso a tutti, grandi e piccini.
Quando i bombardamenti si intensificarono, che tormento svegliarsi di notte al suono della “sirena” che ululava in cima ai tetti, rivestirsi in fretta e correre nel “rifugio”, che poi era lo scantinato del palazzo: le prime volte noi ragazzi giocavamo a nascondino dietro i pilastri, ma poi il rumore delle esplosioni impressionò anche noi…La mattina dopo cercavamo per strada le schegge della contraerea, però corse voce che i bombardieri lanciavano penne, che esplodevano in mano ai bambini e ci fu proibito di raccogliere qualunque cosa per la strada.
Sentivamo di palazzi crollati per i bombardamenti, di gente rimasta senza casa…Ormai dormivamo vestiti, per essere più pronti a scendere nel rifugio quando suonava l’allarme..
La sera una processione di famiglie si recava a passare la notte sotto la grotta che congiungeva Fuorigrotta con Mergellina: i più tempestivi, o più prepotenti, si erano accaparrati i posti al centro, considerati i più sicuri, ma i miei genitori non ci vollero mai mettere piede.
Altri, per paura o perché non avevano più casa, dormivano sui gradini delle scale della metropolitana: la mattina, per andare a scuola, dovevamo scavalcare corpi maleodoranti e misere masserizie…

sabato 3 novembre 2007

DIARIO DI GUERRA 4 puntata

La prima sensazione della guerra è legata all’oscuramento.
La sera bisognava spegnere le luci o almeno schermare le finestre, per evitare che i bombardieri nemici individuassero i centri abitati.
Mio padre una sera stese un enorme foglio di carta azzurrina – quella usata per impacchettare i vermicelli – sulla tavola della cucina, sotto la carta moschicida, punteggiata di nero dagli insetti che vi erano rimasti invischiati, la tagliò a strisce e l’incollò sui vetri delle finestre, per evitare che si rompessero “per lo spostamento d’aria”, dovuto alle esplosioni.
Quando faceva buio, accendevamo una fioca luce solo in cucina, dove i vetri delle finestre erano stati completamente ricoperti da una carta nera lucida, quella che usavamo per ricoprire libri e quaderni scolastici, perché il nero mantiene (=dissimula) lo sporco.
Il capopalazzo girava intorno all’isolato delle Case Popolari - rione Duca d’Aosta - dove abitavamo e richiamava con voce stentorea gli inosservanti: signor Pagano! Spegnete le luci! Signora Valentini!
A proposito di quest’ultima, mi è rimasta impressa una sua conversazione con mia madre: la signora si mostrava molto compiaciuta perché dalla contraerea nemica non era stato abbattuto l’aereo pilotato da suo figlio, bensì quello che gli volava a fianco.
Lei attribuiva lo scampato pericolo del figlio alle sue preghiere, rivolte alla Madonna di Pompei.
E io pensai a quell’altro aviatore caduto con una stretta al cuore: per lui non aveva pregato nessuno?

venerdì 2 novembre 2007

DIARIO DI GUERRA 3 puntata

Del Fascismo mi piaceva la mia divisa di Piccola Italiana, con la M di legno colorato cucita sul taschino,il gonnellino nero e il mantello che si chiudeva in gola con una catenella dorata: ah, quanto amavo il mio mantello, che indossavo ogni sabato per l’alzabandiera, davanti alla Casa del Fascio, dove c’era un altorilievo che rappresantava Filippo Corridoni…
E fu in quella casa del Fascio che per la prima volta incontrai il Teatro: non ricordo più l’argomento della recita, fatta da ragazzi della G.I.L.(Gioventù Italiana Littorio), probabilmente riguardava la guerra e l’immancabile vittoria finale, ma il momento culminante fu la canzone di Lili Marlene, cantata da una ragazza, sotto un finto lampione, con un costume che al cambio delle luci si colorava di blu di rosso di giallo…Ne fui affascinata

DIARIO DI GUERRA 2 puntata

Il giorno dopo, 10 giugno, nel pomeriggio stavo tornando con mia madre verso casa e vidi improvvisamente le strade vuotarsi: la gente correva nei bar o a casa per ascoltare il discorso di Mussolini, la dichiarazione di guerra…
La voce tuonava dagli altoparlanti, io non capivo gran che, ma quando cominciarono a trasmettere le ovazioni della folla sotto il balcone di Palazzo Venezia, mia madre, che aveva già sofferto la Prima Guerra Mondiale, esclamò risentita:
“Vide lloco, chillu disgraziato!”
Raggelai: disgraziato al Duce, quello della gigantografia, delle letture sul mio libro di V elementare che inneggiavano al Fascismo, ai suoi martiri…Avevo perfino vinto un premio, in una gara tra gli alunni delle scuole elementari di Napoli, per un tema sul Duce…
Però non chiesi nulla: non si usava, ai miei tempi, chiedere spiegazioni ai grandi.....

giovedì 1 novembre 2007

DIARIO DI GUERRA 1 puntata

Era il 9 giugno 1940, avevo compiuto nove anni da pochi giorni, mio padre mi condusse a visitare la Mostra d’Oltremare, che quella sera si inaugurava (sarebbe stata chiusa il giorno dopo) in una vasta area, ai margini del mio quartiere, Fuorigrotta, in uno sfolgorio di luci e una grande ressa di visitatori.
Stringevo forte la mano di mio padre e guardavo con occhi stupiti quel paese delle fiabe, i minareti di pietruzze luccicanti, gli ascari con i loro costumi sgargianti (era la prima volta che vedevo un uomo “di colore”), la breve teleferica, che congiungeva la Mostra alla collina di Posillipo, ma soprattutto m’incantò la Torre del Partito, all’entrata, tutta illuminata, la cui parete frontale era interamente coperta da una gigantografia di lui, il Duce, a mezzo busto, in posa di condottiero, con un sorriso smagliante, che prometteva sicurezza, assicurava il successo, garantiva la vittoria.....