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mercoledì 20 agosto 2025

Sing Sing (2023)

L'Oscar Death Race mi aveva portata a vedere anche Sing Sing, diretto nel 2023 dal regista Greg Kwedar e candidato a tre premi Oscar: Miglior attore protagonista, Miglior sceneggiatura non originale e Miglior canzone originale.


Trama: Divine G è in carcere per un delitto non commesso. Nell'attesa di dimostrare la sua innocenza, diventa il pilastro del programma RTA, che mira a riabilitare i carcerati coinvolgendoli nella realizzazione di spettacoli teatrali...


Non sono razzista, ma. No, davvero, non lo sono, ma gli Oscar, ogni tanto, mi portano a diventarlo, con la loro ipocrita volontà di premiare eroi americani di colore e storie edificanti di "vinti" che sono riusciti a sollevarsi dal pantano in cui si trovavano e a diventare un fondamentale aiuto per altri nella loro stessa condizione. Se questi importantissimi racconti venissero messi in scena in modo originale, interessante e coinvolgente, sarei la prima a chiedere che ne realizzassero mille, e che venissero ricoperti da innumerevoli premi. Purtroppo, raramente è così, e mi chiedo se non ci fossero pellicole meno banali di questo Sing Sing, da candidare, soprattutto in premi importanti come Miglior attore protagonista e Miglior sceneggiatura non originale. Sing sing racconta la messa in scena di uno spettacolo teatrale ad opera dell'RTA, il programma Rehabilitation Through the Arts, operativo nel carcere di massima sicurezza che porta il nome del film. Come spesso accade in questi film "carcerari", la sceneggiatura si concentra su due facce della stessa medaglia. Da una parte abbiamo Divine G, vittima innocente del sistema, acculturato e coinvolto, pronto a dare una mano ai compagni di prigionia e, soprattutto, drammaturgo e attore provetto; dall'altra abbiamo Divine Eye, finito in carcere per spaccio, nonché gretto stereotipo del gangsta, che viene coinvolto nel progetto RTA da Divine G e finisce dapprima per scontrarsi con lui, disgustato dall'approccio "ottimista" dell'uomo alla vita e alla recitazione, poi a diventarne amico e sostegno. Se vi è mai capitato di vedere un dramma carcerario, banalmente anche solo Le ali della libertà, riuscirete a prevedere ogni snodo narrativo di Sing Sing, con l'unica differenza (alla quale si aggiunge l'assenza di "villain") che questo film, essendo tratto da una storia vera, punta molto sul percorso di crescita dei protagonisti e sul teatro come forma di catarsi, di libertà, per quanto momentanea. Ciò dovrebbe rendere interessanti i personaggi presenti sullo schermo; in realtà, purtroppo, sembrano quasi tutti stereotipi e macchiette, tranne i due protagonisti un po' più definiti e il regista teatrale, e la cosa ha dell'incredibile anche per un altro motivo.


Tranne Colman Domingo, che interpreta Divine G, Sean San Jose che interpreta Mike Mike (ed è, nella realtà, il migliore amico di Domingo da anni, e qui si spiega perché la chimica tra i due e così forte, al punto da essere la parte migliore del film), Paul Raci che interpreta Brent Buell e pochi altri, quasi tutti gli attori presenti in Sing Sing non recitano, ma partecipano nei panni di loro stessi, in primis Clarence 'Divine Eye' Maclin. Anzi, considerato che quest'ultimo ha praticamente lo stesso screentime di Domingo, è alla sua prima parte "seria" ed è costretto nel difficile compito di recitare "se stesso", forse avrei candidato lui come Miglior attore non protagonista, piuttosto che dare l'ennesima candidatura al pur bellissimo e bravissimo Colman (che, di riffa o di raffa, è sempre uno dei protagonisti della Oscar Death Race, visto che spunta nei film come il prezzemolo anche quando non è direttamente nominato). Ad essere onesta, non mi è dispiaciuto neppure lo stile di Greg Kwedar, che mescola immagini molto cinematografiche e poetiche, quasi tutte legate all'afflato di libertà respirato durante le produzioni teatrali o al contrasto tra l'esterno del carcere e le recinzioni, a riprese che parrebbero fatte con la camera a mano, quasi a voler riproporre un mix di documentario, spettacolo teatrale dilettantesco e confessione davanti alla telecamera. La mia idea è che, come spesso accade ai film candidati agli Oscar, anche questo parli più al pubblico americano, a chi può toccare con mano non solo il tipo di realtà rappresentata, ma anche il modo di parlare, di atteggiarsi, di chi vive di criminalità (anche se, in questo caso, Domingo è anche troppo "raffinato" per risultare verosimile). Magari se avessi visto lo stesso film ambientato in un carcere italiano, ne sarei stata entusiasta, ma così, per quanto mi riguarda, è l'ennesima, dimenticabile pellicola acchiappa Oscar. Importante quanto volete, ma con ben poca emozione reale: per dire che persino la canzone finale mi sembrava un motivo già sentito, invece ho scoperto solo durante la stesura del post che è stata composta apposta per Sing Sing


Di Colman Domingo, che interpreta John "Divine G" Whitfield ho già parlato QUI

Greg Kwedar è il rgista della pellicola. Americano, ha diretto solo un altro film, Transpecos. E' anche produttore e sceneggiatore.



venerdì 23 maggio 2025

The Apprentice - Alle origini di Trump (2024)

L'avevo perso ai tempi dell'uscita ma, in occasione delle due candidature (Miglior attore protagonista e Miglior attore non protagonista), ho recuperato The Apprentice - Alle origini di Trump (The Apprentice), diretto nel 2024 dal regista Ali Abbasi.


Trama: Donald Trump, giovane rampollo di una famiglia di imprenditori edili, riesce a farsi strada nella New York degli anni '70 grazie allo spregiudicato avvocato Roy Cohn...


Anche in questo caso, non avevo visto il film a causa della pessima distribuzione savonese, poi The Apprentice era un po' passato in cavalleria, almeno finché non è comparso (abbastanza sorprendentemente, direi) tra le varie candidature. La mia sorpresa non deriva dal fato che The Apprentice sia un pessimo film, anzi, quanto piuttosto per la scarsa risonanza mediatica avuta ai tempi dell'uscita, nonostante l'argomento trattato. Il film infatti, come specifica il sottotitolo italiano, racconta la "nascita" del Trump che conosciamo; non è che in America la cosa non abbia fatto scandalo, con Trump su tutte le furie, produttori ritiratisi all'ultimo momento e il terrore degli attori coinvolti nel promuovere il film (salvo Sebastian Stan), ma, a parte questo, non mi sembrava che il film fosse stato consigliato come opera particolarmente ben fatta o illuminante. Invece, The Apprentice è una pellicola equilibrata ed interessante, che racconta di come l'allievo Donald Trump abbia superato il maestro Roy Cohn, avvocato senza scrupoli nonché fervente sostenitore di un'America repubblicana da difendere a spada tratta, ricorrendo anche a mezzi controversi. The Apprentice ci mostra un Trump giovane, inizialmente distante dalla figura del tycoon alla quale siamo abituati; insicuro, privo degli agganci giusti, vessato da un padre accentratore e severo, in lotta col governo per problemi legati a presunte discriminazioni razziali nell'affitto degli immobili, il futuro presidente viene descritto come persino troppo "innocente" per sopravvivere nel mondo degli affari. Roy Cohn, d'altra parte, viene rappresentato come il demonio o, se vogliamo prendere a modello gli schemi dei film ambientati nel mondo della malavita, come il boss che viene surclassato e cancellato dal novizio che aveva preso sotto la sua ala, il quale ha assimilato la lezione talmente bene da ritenersi superiore anche a quei pochi limiti morali che tenevano a freno il suo mentore. Purtroppo, a differenza di quasi tutte le "crime stories", legate ad un percorso di ascesa - trionfo - caduta del protagonista, The Apprentice può fare questo discorso solo con Roy Cohn e la sua disgraziata fine, mentre Trump è ben lungi dall'essere caduto, anzi. Dopo una corsa forsennata, alimentata dalle anfetamine e da un appetito vorace legato ad ogni aspetto dello sviluppo edilizio ed economico, il film ce lo consegna con lo sguardo proiettato verso un ben cupo futuro (il nostro), forte degli angoscianti insegnamenti di chi è stato usato e gettato via senza alcun ritegno nel momento esatto in cui radiazione dall'albo degli avvocati e sospetti di omosessualità ne hanno minato irrimediabilmente il potere e la credibilità.  


La trama coinvolgente di The Apprentice viene ulteriormente ravvivata dalla regia di Abbasi, distante da quella classica che ci si aspetterebbe da un biopic. Il taglio delle inquadrature e la fotografia ricordano spesso quelle di un documentario, come se la cinepresa spiasse i personaggi consegnandoceli nella maniera più verosimile possibile. Inoltre, cambia anche la grana dell'immagine, cosa che si può notare persino sul televisore di casa;  quando la vicenda si svolge negli anni '70, l'effetto è quello "casalingo" di un filmino in 16mm, negli anni '80 ci sono le stesse righe orizzontali colorate di una videocassetta, non si ha la resa pulita del digitale. Passando agli attori oggetto delle due candidature, come ho scritto sopra, non me le aspettavo, ma le trovo comunque doverose. Addirittura, per quanto mi riguarda, Jeremy Strong surclassa Sebastian Stan imponendo una presenza fatta di sguardi fissi, aggressività a malapena contenuta, un'abiezione morale che non sfocia mai in overacting e, sul finale, una dignità talmente grande da trasmettere allo spettatore tutta l'umana pietà dovuta a un uomo orrendo, costretto tuttavia a morire in un modo indegno per un essere umano. Sebastian Stan ha il pregio di non aver dato vita a una caricatura di Trump, neppure negli anni iconici in cui Donald lo era già di per sé, offrendo la sua interpretazione del personaggio conservandone atteggiamenti e accento ma senza caricarli né copiare pedissequamente. La cosa che ho apprezzato di più è che sia il film che l'attore rifuggono la critica cieca verso il controverso oggetto della trama. The Apprentice non condona Trump, men che meno Roy Cohn, ed entrambi vengono connotati come persone prive di scrupoli ed estremamente egocentriche, attente solo a ciò che può portare loro vantaggi economici; eppure, qui e là, si percepisce il tentativo di osservare il contesto storico-sociale che ha fatto nascere questi mostri, privandoli di un'umanità di fondo che entrambi dimostrano di aver posseduto, almeno un tempo. Certo, da un cieco seguace di Trump non mi aspetto l'intelligenza di accettare e discutere un'opera così equilibrata, ma The Apprentice è un film che consiglierei sia ai detrattori sia agli amanti dell'attuale presidente USA. A me, onestamente, sono venuti più brividi che davanti a un horror, ma ritengo sia valsa la pena di guardarlo. 


Del regista Ali Abbasi ho già parlato QUI. Sebastian Stan (Donald Trump), Jeremy Strong (Roy Cohn) e Martin Donovan (Fred Trump) li trovate invece ai rispettivi link.

Maria Bakalova interpreta Ivana Trump. Bulgara, la ricordo per film come Borat - Seguito di film cinema, Bodies, Bodies, Bodies, The Guardians of the Galaxy: Holiday Special e Guardiani della Galassia Vol. 3. Anche produttrice, ha 29 anni e tre film in uscita.
 


mercoledì 16 aprile 2025

I ragazzi della Nickel (2024)

La mia Oscar Death Race si era conclusa con una bella mattonata, ovvero I ragazzi della Nickel (Nickel Boys), diretto e co-sceneggiato nel 2024 dal regista RaMell Ross a partire dal romanzo omonimo di Colson Whitehead


Trama: Per un banale errore, Elwood viene arrestato come ladro di auto proprio mentre si sta recando per la prima volta all'università grazie ad una borsa di studio. Viene spedito alla Nickel School, un riformatorio dove i ragazzi di colore come lui fanno una vita molto più tremenda degli altri...


I ragazzi della Nickel
racconta una vicenda romanzata tratta però da una storia vera, quella della Florida School for Boys della città di Marianna. All'interno del riformatorio, nel corso degli anni, sono avvenute moltissime morti sospette e, in tempi recenti, sono state trovate molte tombe scavate nel terreno, probabilmente appartenenti a ragazzi scomparsi misteriosamente, dichiarati "scappati da scuola". Una storia orrenda, di abusi che risalgono addirittura ai tempi della fondazione e che sono continuati fino al nuovo millennio, che ha ispirato Colson Whitehead a trarne un romanzo ambientato negli anni '60, l'epoca di Martin Luther King e delle lotte per i diritti civili delle persone di colore. Il protagonista, Elwood, è un ragazzo intelligente e dal forte senso di giustizia, ispirato proprio dai fondatori di questi importanti movimenti; mentre fa l'autostop per raggiungere l'università, però, ha la sfortuna di venire caricato da un ladro d'auto, e viene arrestato con l'accusa di esserne il complice. Da quel giorno, per Elwood inizia il calvario all'interno della Nickel School, dove i diritti civili non esistono e i ragazzi di colore vengono trattati molto peggio di quelli bianchi. Un posto dove è meglio mettere a tacere ogni velleità di giustizia ed altruismo, pena incappare in punizioni corporali, torture e persino morte. L'unico conforto, per Elwood, oltre alle rare visite della nonna materna, è l'amicizia con Turner, un compagno di prigionia disilluso e cinico, col quale Elwood sviluppa un legame quasi fraterno, nonostante il carattere del protagonista sia così riservato e schivo da rasentare l'autismo. Quest'ultima considerazione è un'idea che mi sono fatta io, e probabilmente deriva dallo stile scelto da RaMell Ross per raccontare la storia. I ragazzi della Nickel, infatti, è interamente girato attraverso un punto di vista soggettivo, che alterna ciò che vede Elwood (il punto di vista preponderante per quasi tutta la prima ora) a ciò che vede Turner, inserito dopo l'arrivo di Elwood alla Nickel. Il risultato, per quanto mi riguarda, ha avuto l'effetto opposto a quello probabilmente ricercato dal regista, ed è per questo che ho cominciato il post parlando di mattonata. Nonostante l'importanza e la natura dolorosa della vicenda, infatti, non riuscire ad avere un quadro "complessivo" di ciò che accade, vedere con gli occhi di un altra persona sprazzi di ambienti, persone ed avvenimenti, mi ha fatto provare un'enorme sensazione di distacco da tutto ciò che passava sullo schermo.


Questi sprazzi di vita, colti da uno sguardo mai diretto, quanto piuttosto timido e schivo, alternati a spezzoni televisivi, visioni, sogni e scampoli di futuro ripresi da una gopro, li ho trovati molto faticosi da seguire, soprattutto all'inizio, quando servono essenzialmente per dare un'idea generale dell'infanzia di Elwood, della sua personalità e di come sia finito su una macchina rubata. Da lì in poi, se non altro, I ragazzi della Nickel imbastisce un minimo di trama, per quanto sfilacciata ed episodica, e sviluppa maggior coesione poco prima del finale, quando Elwood prende un'importantissima decisione che influenzerà il futuro suo e di Turner. Anzi, è proprio il finale che ha risollevato la scarsa opinione che avevo del film, pur riconfermando come, su di me, uno stile come questo non abbia fatto presa, visto che avrei dovuto piangere come una fontana, conoscendomi. Riconosco dunque la bravura e l'originalità di RaMell Ross, almeno come regista, e la natura suggestiva del suo film, che vanta una fotografia e delle immagini splendide, e che sicuramente sarà stata una sfida non da poco per il responsabile del montaggio (anzi, non capisco perché I ragazzi della Nickel abbia ottenuto un'esageratissima candidatura a Miglior film e una per la Miglior sceneggiatura non originale, quando i meriti dell'opera sono altri...), ma onestamente avrei più voglia di leggere il libro di Colson Whitehead piuttosto che riguardare una pellicola che ho percepito come un'esercizio di stile fine a se stesso. Non mi sento comunque nemmeno di sconsigliarlo, perché magari quella che non è la mia cup of tea è la mug of chocolate di altri! Se siete curiosi, potete trovare comodamente I ragazzi della Nickel su Prime.  

RaMell Ross è il regista e co-sceneggiatore della pellicola, al suo primo lungometraggio. Tedesco, anche produttore, lavora principalmente come direttore della fotografia. Ha 42 anni.


Hamish Linklater
, che interpreta Spencer, fa parte della "Flanagan Family", perché era padre Paul nello splendido Midnight Mass. Ciò detto, se Nickel Boys vi fosse piaciuto, recuperate Moonlight. ENJOY!

venerdì 7 marzo 2025

A Real Pain (2024)

Poche ore prima della Notte degli Oscar ho recuperato gli ultimi due film candidati che ancora mi mancavano. Uno era A Real Pain, scritto e diretto nel 2024 da Jesse Eisenberg e vincitore di una statuetta per il Migliore attore non protagonista, Kieran Culkin.


Trama: dopo la morte della nonna, due cugini decidono di andare in Polonia, per visitare il paese di nascita dell'anziana parente...


A Real Pain
. Un dolore reale, vero, profondo. Ma potrebbe anche stare per "A Real Pain in the Ass", cosa che, in effetti, è Benji, cugino del precisissimo David. I due non potrebbero essere più diversi ma sono cugini separati alla nascita giusto da pochi giorni, e sono sempre stati molto legati, finché la vita non ci ha messo lo zampino, distanziandoli sempre di più. L'occasione per riconnettersi è la morte della nonna, alla quale Benji era molto affezionato; la donna (fuggita all'Olocausto ed emigrata in America, sopravvissuta grazie ad una serie di non specificati "miracoli") ha chiesto, nel testamento, che i due andassero a fare visita al suo paese natale, in Polonia, quindi i due cugini decidono di fare un viaggio insieme, unendosi a un tour. Una simile trama, tipica di un road movie, normalmente darebbe il la ad uno sviluppo dei personaggi che si concluderebbe con una catarsi e la risoluzione di tutti i loro problemi. D'altronde, la Polonia è la terra d'origine della famiglia di David e Benji, e l'obiettivo finale del viaggio è pregno di simbolismi, per non parlare di tutte le situazioni al limite dell'assurdo, o profondamente spirituali, che i due si ritroveranno a vivere durante il tour. Ma quando il dolore è reale, e non ha una chiara origine o, ancora peggio, ci sembra non sia minimamente paragonabile al dolore di un popolo torturato e distrutto; quando le imprese eclatanti non possono compensare un'assenza durata anni, né quei piccoli gesti necessari a far sì che le persone percepiscano la realtà dei nostri sentimenti o, perlomeno, la nostra presenza; quando il dolore altrui è una misteriosa, tremenda rottura di coglioni perché non lo capiamo quanto capiamo i nostri problemi, soprattutto quando noi tendiamo a tenerceli dentro mentre altri li sbandierano ai quattro venti; in questi casi, quando il dolore ci toglie ogni speranza e l'amicizia quasi fraterna è talmente zeppa di crepe da stare in piedi giusto per miracolo, a cosa serve un ultimo viaggio riparatore? Probabilmente, ci lascerebbe con una serie di belle parole e un ultimo, stupido gesto eclatante prima che tutto torni esattamente come prima, ognun per sé, nella gioia, nel dolore e, soprattutto, nella pigrizia e nella volontà di nascondere la testa sotto la sabbia. Sono cose di cui siamo consapevoli, eppure è così triste e vergognoso vedercelo spiattellare in faccia da un film. Il cinema, in fondo, non dovrebbe farci evadere dalla spiacevole realtà? E nonostante la tristezza, tremenda, che mi ha presa guardando A Real Pain, è proprio la sua franchezza che me lo ha fatto amare. 


D'altronde, da un autore particolare come Jesse Eisenberg non mi sarei aspettata un compitino consolatorio. Però non mi sarei nemmeno aspettata una sceneggiatura che mescolasse così abilmente il dramma ad una farsa quasi triviale, né che il solito personaggio "sfattone" presente in questo genere di film riuscisse a risultare contemporaneamente respingente e meritevole di tutto l'amore del mondo. Benji è davvero un "pain in the ass"; imprevedibile, maleducato, noncurante, privo di filtri tra cervello e bocca, eppure, in tutto ciò che fa, c'è quel fondo di sincerità genuina tipico di chi non agisce per fare male agli altri o prenderli in giro, ma proprio per volontà di fare del bene. Ognuno dei due cugini fugge, a suo modo, dalla realtà, ma David ha scelto la via più "sana", sradicando da sé tutto ciò che lo rendeva strano, mentre Benji ha abbracciato la propria stranezza, facendosi divorare al punto da non avere più nient'altro. Concentrarsi sull'Olocausto, su un orrore tangibile che ha condizionato anche il loro posto nel mondo, è un modo per rimettere le cose in prospettiva. Anche lì, però, non è facile. E non è solo la scrittura di Eisenberg a dimostrarlo, ma anche la regia. Guardando A Real Pain, infatti, ho rivissuto le terribili visite fatte anni fa ai campi di concentramento, come se mi fossi trovata lì coi personaggi. Eisenberg cattura l'orrore di chi non ha mai provato sulla sua pelle esperienze così definitive e traumatiche, la solennità di quei luoghi, la vergogna di trovarsi al loro interno non da sopravvissuti, ma da estranei, quasi da "guardoni", passatemi il termine. E allo stesso modo, attraverso lunghe carrellate panoramiche, fa rivivere gli oziosi giri turistici prima e dopo la visita al campo di concentramento, il modo in cui il cervello dimentica, in un attimo, già proiettato sulle attrattive architettoniche, culinarie, "esotiche" del paese straniero ospitante. Come attore, Eisenberg è un'ottima spalla a un Kieran Culkin travolgente, giustamente meritevole dell'Oscar che gli è stato tributato, e che, di fatto, è protagonista tanto quanto lui, se non addirittura di più. Di fronte a una sovrabbondanza di film che si sbrodolano addosso, dove ogni dettaglio deve venire spiegato e sviscerato raggiungendo lunghezze titaniche, film piccolini come A Real Pain sono gli antidoti che preferisco e che riescono a riconciliarmi con un Cinema per cui faccio sempre più fatica ad entusiasmarmi. Recuperatelo, prima che lo tolgano dalle sale!


Del regista e sceneggiatore Jesse Eisenberg, che interpreta David Kaplan, ho già parlato QUI mentre Kieran Culkin, che interpreta Benji Kaplan, lo trovate QUA.

Jennifer Grey interpreta Marcia. Famosa per avere interpretato il ruolo di Baby in Dirty Dancing, la ricordo per altri film come Una pazza giornata di vacanza; inoltre, ha partecipato a serie quali Friends, Dr. House, Grey's Anatomy e, come doppiatrice, ha lavorato in Si alza il vento, Phineas e Ferb e American Dad!. Americana, anche produttrice, ha 65 anni.


Kurt Egyiawan
, che interpreta Eloge, era Padre Bennett nella serie L'Esorcista. Se A Real Pain vi fosse piaciuto recuperate Little Miss Sunshine e The Farewell - Una bugia buona. ENJOY!


martedì 4 marzo 2025

The Brutalist (2024)

E' stata dura, ma sono riuscita a recuperare anche The Brutalist (al momento in cui scrivo candidato a ben 10 Oscar: Miglior film, Miglior regia, Miglior attore protagonista, Miglior attore non protagonista, Miglior attrice non protagonista, Miglior sceneggiatura originale, Miglior fotografia, Miglior montaggio, Miglior colonna sonora originale, Miglior scenografia), diretto e co-sceneggiato nel 2024 dal regista Brady Corbet.


Trama: l'architetto László Tóth, fuggito per miracolo ai campi di concentramento, trova rifugio in America. Lì, viene preso sotto l'ala protettiva dal ricco Harrison Van Buren, che gli commissiona un'opera monumentale...


Iniziamo il post ripassando un po' cos'è il Brutalismo, a beneficio di chi, come me, non tocca più un libro di storia dell'arte (in questo caso specifico, dell'architettura) dal lontanissimo 2005. Brutalismo deriva dal francese béton brut, che indica il cemento a vista, uno degli elementi tipici di questo movimento architettonico. Il cemento veniva utilizzato non solo per andare contro alla leggerezza degli stili precedenti, ma anche perché, nel primo dopoguerra, la necessità era quella di ricostruire in fretta, con materiali economici, utilizzando uno stile pratico e semplice, che prediligesse la funzionalità all'estetica. In realtà, c'era anche dietro un'idea di equità, fagocitata di lì a poco dal ritorno in piena forma del capitalismo, che avrebbe condannato il Brutalismo definendone gli edifici in gran parte obbrobriosi. Se vogliamo, all'interno di The Brutalist, si parla anche di Bauhaus, al quale Corbet si è ispirato per gli splendidi titoli di testa, somigliantissimi al Bilanz des Bauhauses di Theo van Doesburg, ma non stiamo a spaccare il capello. Tanto, l'epica opera di Corbet non pretende certo una conoscenza enciclopedica dell'architettura del dopoguerra: crea un parallelo tra il protagonista, l'architetto László Tóth, e gli edifici da lui costruiti, un mix di opprimente austerità monocromatica e un desiderio di libertà e respiro, di luce, di pace. Quella che è mancata e manca al povero László, sopravvissuto per miracolo ai campi di concentramento e pronto a ricominciare una nuova vita in America, con la speranza di riunirsi, prima o poi, con la moglie Erzsébet e la nipote Zsófia, ancora prigioniere. Non ci mette molto, l'architetto, a capire che l'America non è la land of the free, quanto piuttosto un mostro pronto a divorare gli stranieri e i poveracci, per nulla tenero con chi non riesce a conformarsi, magari rinnegando religione e convinzioni. Nel mucchio di immigrati, straccioni e poveri provenienti da tutto il mondo, l'unica speranza è attirare lo sguardo di qualche riccastro, e László riesce a conquistarsi quello di Harrison Van Buren, che decide di commissionargli un mausoleo per la madre, lieto di poter presentarsi ad amici e clienti come mecenate illuminato, protettore e benefattore della scimmietta ebrea dal grande talento. The Brutalist racconta del rapporto contrastato tra l'artista e l'uomo d'affari, per estensione del moderno rapporto tra arte e capitalismo, dipendente dalla moda e dagli umori del momento, con picchi di afflato poetico cancellabili con un colpo di spugna, quando i soldi cominciano a bruciarsi con troppa velocità. The Brutalist è anche il racconto della ricerca disperata di un posto da poter chiamare casa, dove non bisogna essere costretti a nascondersi o vergognarsi, dopo decenni di orrori perpetrati da chi ha scelto di condannare normali esseri umani a sentirsi dei mostri, dei diversi indesiderati. Il film di Corbet è tutto questo e anche di più, ed è il motivo per cui sono rimasta molto delusa nel constatare che, nonostante un potenziale enorme, sia riuscito sì ad interessarmi, ma senza mai commuovermi, se non all'inizio, di fronte a corpi sfiniti e animi confusi, assiepati sotto una Statua della Libertà giustamente capovolta. 


Girato interamente in VistaVision, per rispettare lo stile dell'epoca in cui è ambientato The Brutalist, il film di Corbet è una gioia per gli occhi, a cominciare da quelle riprese dove la cinepresa "corre" assieme alla strada, e grazie ad un montaggio dinamico che rende ancora più incredibili le immagini dei panorami, degli elementi naturali toccati dalla mano dell'uomo (le sequenze girate all'interno della cava di marmo sono da slogarsi la mascella) e dell'interno del mausoleo, un labirintico inferno di acqua e colonne. Ha una colonna sonora perfetta, che sottolinea non solo la solennità della narrazione, ma si adegua anche allo scorrere degli anni, cambiando completamente (così come lo stile di regia) nella Venezia anni '80 che chiude il film. Ha un cast d'eccezione, all'interno del quale spicca un Adrien Brody che, quasi sicuramente, vincerà l'Oscar, e regala il ruolo della vita a Felicity Jones, quello di un personaggio non proprio gradevole, distrutto da esperienze traumatiche, spezzato eppure costretto ugualmente a tenere in piedi chi avrebbe tutte le carte in regola per essere un marito esemplare e un buon compagno di vita, ma preferisce lasciarsi distruggere dalla propria vanità e dal disprezzo altrui. Come ho scritto sopra, The Brutalist ha un potenziale enorme e sfida lo spettatore a cogliere indizi, aggiungere tasselli mancanti, interpretare segni. E allora perché, sul finale, mi deve far crollare tutto forzando il pubblico ad ingoiarsi un monologo-spiegone che ne sottovaluta l'intelligenza come se Corbet fosse Van Buren e noi i poveri, ignoranti animaletti da catechizzare con "conversazioni stimolanti"? E' una scelta che non ho apprezzato, inutilmente strappalacrime e anche un po' supponente, soprattutto perché la sceneggiatura di The Brutalist non è complessa, né atta lasciare a bocca aperta quanto tutto il comparto tecnico che la sostiene, anzi. Sceglie sempre le soluzioni più semplici, con i cattivissimi capitalisti (razzisti, gretti, violenti, prevaricatori fino all'estremo) che annientano e sviliscono l'artista, sfruttandone anima e corpo, letteralmente; sceglie di spingere il protagonista a cercare rifugio nella droga senza mai, neppure una volta, mostrarci gli effetti che questa ha sulla sua arte e sui suoi demoni interiori; sceglie di usare il sesso come veicolo di sequenze controverse, disturbanti, rendendolo tossico nelle scene che vedono protagonisti moglie e marito, che mai una volta mostrano di provare un sano piacere l'uno nell'altro se non quando sono fatti come cocchi. Sceglie, infine, l'ennesima fuga verso un presunto paradiso, prima di consegnare i personaggi ad un timeskip blandamente consolatorio, dopo tutta l'oscurità inghiottita in quasi quattro ore. Ah, giusto, mi sembrava brutto non finire il post senza aver nominato la durata del film. A me, in tutta sincerità, non è pesata per nulla, ed è l'ennesimo punto a favore di un film bellissimo ma ben lontano dall'essere il capolavoro incensato da chiunque. Per quanto mi riguarda, The Brutalist va visto, va goduto sul grande schermo, andrà rivisto più di una volta, quello sicuramente; dovessi dire, però, non mi ha catturato il cuore, che ancora batte per altre storie, forse ancora più semplici, ma che non intendono camuffare la semplicità dietro un'architettura zeppa di fronzoli che, di brutalista, non ha proprio nulla.


Del regista e co-sceneggiatore Brady Corbet ho già parlato QUI. Adrien Brody (László Tóth), Felicity Jones (Erzsébet Tóth), Guy Pearce (Harrison Lee Van Buren Sr.), Raffey Cassidy (Zsófia), Stacy Martin (Maggie Lee) e Alessandro Nivola (Attila) li trovate invece ai rispettivi link.

Joe Alwyn interpreta Harry Lee. Inglese, ha partecipato a film come La favorita, Boy Erased - Vite cancellate, Maria regina di Scozia, Harriet e Kinds of Kindness. Ha 34 anni e due film in uscita. 


Il film era stato annunciato nel 2020 con un cast diverso, interamente rivisto nel 2023: Adrien Brody ha sostituito Joel Edgerton, Felicity Jones ha sostituito Marion Cotillard, Guy Pearce ha sostituito Mark Rylance e Joe Alwyn ha rimpiazzato Sebastian Stan. Se il film vi fosse piaciuto recuperate The Master e Il pianista. ENJOY!

venerdì 28 febbraio 2025

Il robot selvaggio (2024)

Ai tempi dell'uscita ne avevano parlato tutti benissimo. In occasione delle tre candidature (Miglior cartone animato, Miglior colonna sonora originale, Miglior sonoro), ho dunque recuperato Il robot selvaggio (The Wild Robot), diretto e co-sceneggiato nel 2024 dal regista Chris Sanders.


Trama: Un robot di ultima generazione viene abbandonato su un'isola popolata di animali. La programmazione del robot si troverà a dover interagire con imprevisti ed emozioni...


Come ho potuto perdermi questo trionfo al cinema? E' la domanda che mi sono fatta tra le lacrime di commozione alla fine de Il robot selvaggio, uno dei lungometraggi animati più provanti, a livello emotivo, tra quelli visti negli ultimi anni. Purtroppo, se non ricordo male, a tenermi lontana dalla sala è tata una terribile concomitanza di influenze e orari a misura bambino (come se il genere fosse adatto solo ai più piccoli...), ma poco male; certo, mi dispiace non aver goduto sul grande schermo delle splendide immagini de Il robot selvaggio, ma un bel film rimane bello anche visto in piccolo. E Il robot selvaggio è davvero bellissimo. La trama parte dalla perdita di un carico di robot su un isola deserta; il modello ROZZUM, in particolare, è stato progettato per servire gli umani facendosi carico, ogni volta, di compiti diversi da svolgere al meglio. Una direttiva semplice, quella di ROZZUM, ma ardua da mettere in pratica quando non ci sono umani nei dintorni e gli unici esseri viventi sono degli animali, ignoranti di fronte alla tecnologia e per nulla disposti a farsi "migliorare" la vita. Istinti atavici e naturali inimicizie si scontrano con la fredda logica, almeno finché l'unità robotica non si ritrova a darsi degli obiettivi per far sopravvivere un pulcino di oca, diventato orfano proprio per causa sua. Se non avete ancora avuto modo di guardare Il robot selvaggio non starei a fare altre anticipazioni sulla trama. Vi dico solo che la storia di ROZZUM, rinominata Roz, è una profonda, splendida storia di amore ed amicizia, in tutte le sue forme. Il messaggio del film non si lega "solo" ad un invito alla tolleranza e alla comprensione, ma all'impegnarsi affinché chi amiamo possa trovare un posto dove i suoi talenti possano venire sviluppati al meglio, anche a costo di fare un passo indietro e offrire il più grande dei doni, la libertà. Ne Il robot selvaggio i personaggi si lasciano alle spalle preconcetti legati a loro stessi e agli altri, e riescono a fare quel passo in più per uscire da un microcosmo fatto di paura e limitazioni, affiancando ad idee "favolistiche" (come quella di animali di specie diverse che imparano a convivere per non rendere vano lo sforzo di un "mostro") immagini molto adulte e reali di morte (lunga vita agli opossum e al loro concetto di maternità!), tristezza e dolore, con un happy ending che non è scontatissimo, benché contenga il sapore della speranza. 


Chris Sanders
, partendo dal libro illustrato di Peter Brown, prende il meglio dai capolavori che lo hanno elevato tra i maestri dell'animazione odierna, e confeziona un'altra poetica storia dove i personaggi fanno della diversità la loro forza. Benché non abbia nessuna caratteristica umana o animale, il robot Roz è incredibilmente espressivo, dotato di una gamma emotiva interamente rappresentata da luci, colori, movimenti ed inquadrature ad hoc, e il bestiario che gravita attorno alla protagonista ha un sembiante contemporaneamente realistico e molto accattivante, soprattutto la volpe Fink (adoro le volpi animate fin da quando ero bambina e questa, a mio parere, è una delle migliori viste su schermo). La cosa incredibile de Il robot selvaggio, nonché quella che più mi ha fatta pentire di non averlo visto l cinema, è il modo in cui riescono a fondersi, rispecchiando alla perfezione in senso della trama, la tecnologia 3D di animazione dei personaggi e e una tecnica di colorazione ed illuminazione dotata delle stesse caratteristiche della pittura a mano libera. I fondali e le scene ambientate nella foresta sono dotati di una ricchezza e una profondità unici, ed è interessante vedere come i colori e la texture di Roz cambino mano a mano che la programmazione viene meno e subentra l'istinto che rende il robot, per l'appunto, selvaggio e sempre più integrato ed accettato dalla natura che lo circonda. Il risultato sono scene di pura perfezione, quasi dei quadri in movimento, che toccano l'apice nella splendida sequenza delle farfalle, o quella della migrazione delle oche, ma per quanto mi riguarda ogni fotogramma del film è un piccolo capolavoro. Importantissima anche la colonna sonora di Kris Bowers, epica e commovente, e il parterre di splendide voci che danno vita ai singoli personaggi, riconfermando (come se ancora servisse) Lupita Nyong'o come una delle attrici migliori in circolazione, talmente brava da infondere una profondissima umanità a Roz, pur mantenendo intatte le sue caratteristiche di "freddo" robot. Non ho ancora guardato Flow, e sapete quanto sia parziale verso i gatti, quindi non sono sicura che non lo preferirei a Il robot selvaggio; a prescindere, il film di Sanders è comunque un capolavoro che merita più di una visione, coi bambini ma anche da soli, così c'è meno vergogna a piangere senza ritegno!!


Del regista e co-sceneggiatore Chris Sanders ho già parlato QUI. Lupita Nyong'o (Roz / Rummage), Pedro Pascal (Fink), Kit Connor (Beccolustro), Bill Nighy (Collolungo), Ving Rhames (Fulmine), Mark Hamill (Spina) e Catherine O'Hara (Codarosa) li trovate invece ai rispettivi link.


Se Il robot selvaggio vi fosse piaciuto recuperate Il gigante di ferro, Lilo & Stitch e Wall.E. ENJOY!

mercoledì 26 febbraio 2025

Wallace e Gromit: Le piume della vendetta (2024)

Tra gli Oscar per il miglior lungometraggio animato non poteva mancare Wallace e Gromit: Le piume della vendetta (Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl), diretto nel 2024 dai registi Nick Park (anche co-sceneggiatore) e Merlin Crossingham.


Trama: in un impeto di pigrizia inventiva, Wallace crea uno gnomo tuttofare per aiutare Gromit in giardino. Ma un vecchio nemico trama per impadronirsi di questa nuova tecnologia e vendicarsi...


Correva l'anno 1999 e, durante la programmazione di Natale, Italia 1 mandò in onda il corto I pantaloni sbagliati, il mio primo incontro con la premiata ditta Wallace e Gromit. Nonostante fosse un cortometraggio assai ironico, quello che ricordo ancora oggi de I pantaloni sbagliati è la terrificante atmosfera thriller che si respirava per tutta la sua breve durata, grazie a un personaggio che sembrava uscito dritto da un episodio di Leone cane fifone, ovvero il muto, inquietantissimo pinguino Feathers McGraw. E' passato un quarto di secolo dall'esordio del criminale pennuto (in Italia. In realtà, il film è stato fatto uscire per celebrare i trentacinque anni de I pantaloni sbagliati), ma il personaggio dev'essere rimasto nel cuore dei fan e di Nick Park, perché eccolo tornare ad esigere vendetta nel secondo lungometraggio dedicato a Wallace e Gromit, distribuito direttamente da Netflix. Loro, al cinema, li avevamo lasciati alle prese con i conigli mannari, nell'altrettanto lontano 2005 e, nel frattempo, la storica pigrizia di Wallace è aumentata, al punto da aver creato persino una macchina per dispensare carezze al povero Gromit. Il punto di non ritorno di questa dipendenza totale dalla tecnologia, triste specchio della nostra società odierna, è l'invenzione di un nano da giardino in grado di sbrigare qualsiasi lavoro, Norbot. Nonostante le buone intenzioni di Wallace, Norbot sconvolge la vita "analogica" di Gromit, povero cane che, almeno in giardino, vorrebbe rilassarsi e tornare ad avere contatti naturali, se non umani. Ancor peggio, come accade nei migliori film di fantascienza, la tecnologia può venire facilmente corrotta dalle mani di un genio votato al male, ed è ciò che accade quando Feathers McGraw, condannato all'ergastolo all'interno di uno zoo, decide di sfruttare Norbot per vendicarsi, finalmente, di chi lo ha mandato al fresco. Non vi spoilero gli sviluppi di questo interessante canovaccio ma, se siete un minimo abituati alle avventure del dinamico duo, sapete già cosa vi aspetta: un'ora e mezza di goffaggine umana, astuzia canina, pericoli, azione e tanto, tantissimo umorismo inglese, con l'unico grande difetto di una durata brevissima a fronte di un'attesa ventennale. Purtroppo, queste sono le gioie e i dolori dell'adorata stopmotion.


Come sempre accade davanti a questo tipo di opere, durante la visione di Wallace e Gromit: Le piume della vendetta non si può fare altro che ammirare in silenzio la perfezione certosina di una tecnica che costringe gli animatori a lavorare un giorno intero per ottenere qualche secondo di metraggio, e che, nonostante ciò, dà l'illusione che i personaggi sullo schermo godano di vita propria. Di più, i lungometraggi di Wallace e Gromit trasudano inside joke e dettagli esilaranti che non vengono affidati ai dialoghi, ma sono lì sullo sfondo, nelle scenografie, pronti ad essere colti da occhi attenti e meravigliati. Vero è che, stavolta, si è preferito evitare le scene troppo affollate e i realizzatori hanno preferito concentrarsi sul design di pochi personaggi (facendosi aiutare da stampanti 3D per un aspetto della trama legato a Norbot), ma, considerato che Wallace e Gromit: Le piume della vendetta avrebbe dovuto essere un corto, e che l'azienda produttrice della plastilina utilizzata ha chiuso due anni fa, una grandeur minore rispetto a La maledizione del coniglio mannaro è comunque grasso che cola. Fantastica anche la regia, ovviamente. Le atmosfere horror che tanto mi avevano elettrizzata ai tempi de I pantaloni sbagliati non sono venute meno (Norbot a un certo punto sembra la scimmia di King, e la suora sembra uscita dritta da l'Esorcista III), ma i cinefili, come sempre, hanno di che gioire. Tra Scorsese e il suo Cape Fear, Terminator, James Bond e Batman Returns, le citazioni cinematografiche si sprecano, arrivando a toccare non solo aspetti macroscopici come l'iconografia dei titoli citati, ma riproponendo persino il taglio delle inquadrature, la colonna sonora e l'illuminazione. Come facciano Nick Park e soci, al ritmo di un minuto di girato alla settimana, a tenere uniti tutti gli elementi che fanno di questi film dei capolavori, devo ancora capirlo; ma la cosa importante è che non smettano mai di regalare al mondo gioiellini come Wallace e Gromit: Le piume della vendetta!


Del co-regista e co-sceneggiatore Nick Park ho già parlato QUI

Merlin Crossingham è il co-regista della pellicola. Inglese, è al suo primo lungometraggio. E' anche doppiatore, animatore e sceneggiatore. 


Se Wallace e Gromit: Le piume della vendetta vi fosse piaciuto, recuperate innanzitutto il corto I pantaloni sbagliati, anzi, guardatelo prima del film. Proseguite poi con Wallace & Gromit: La maledizione del coniglio mannaro e coi corti Una fantastica gita, Una tosatura perfetta e Questione di pane o di morte, assieme a Shaun, vita da pecora - Il film e Shaun, vita da pecora: Farmageddon - Il film. ENJOY!

venerdì 21 febbraio 2025

The Girl With the Needle (2024)

Uno dei candidati all'Oscar come miglior film straniero è The Girl With The Needle (Pigen med nålen), diretto e co-sceneggiato nel 2024 dal regista Magnus von Horn.


Trama: Karoline, il cui marito è da tempo disperso al fronte, lavora all'interno di una fabbrica di tessuti. La sua vita, già di per sé non facile, cambia quando il padrone della fabbrica si invaghisce di lei e la mette incinta, per poi abbandonarla...


Tratto da una tremenda storia vera, The Girl With the Needle è il triste, lucidissimo ritratto della condizione della donna in Danimarca all'inizio del '900, a cavallo della prima guerra mondiale. La storia (che prenderà tutta un'altra piega che non vi sto a spoilerare) segue l'esistenza precaria di Karoline, un'indesiderata che si arrabatta come può per sopravvivere. Arrabattarsi, però, non vuol dire che la protagonista sia una prostituta, o una criminale; Karoline lavora in fabbrica per un pugno di spiccioli che non le bastano per vivere in un appartamento dignitoso, e non può ottenere il sussidio di vedova perché, di fatto, il marito non è morto in guerra, ma risulta da anni disperso al fronte. In realtà, più che indesiderata come ho scritto sopra, Karoline è invisibile agli occhi della società. Non è qualcosa di cui sbarazzarsi, ma non è neppure un elemento importante, e, forse, se non ci fosse ci sarebbe più spazio per consentire ad altri nella sua stessa condizione di sopravvivere meglio. Un barlume di speranza le arriva quando il padrone della fabbrica si invaghisce di lei, scegliendola tra tante sue colleghe, ma si tratta solamente dell'ennesima spinta verso il baratro: tenuto per le palle dalla madre, una nobildonna dal pugno di ferro, il padrone disconosce in un secondo tutte le promesse di matrimonio e paternità, lasciando Karoline senza lavoro, con un figlio a carico e, per di più, con un marito (nel frattempo tornato a casa) sfigurato e vittima di pesanti sintomi di stress post traumatico. Ce ne sarebbe abbastanza per sconfortare un santo, e Karoline non lo è. Lucida ed egoista, la protagonista di The Girl With the Needle non è un personaggio positivo, o una damsel in distress, ma è figlia della sua condizione e della società in cui vive. Lo stesso vale per Dagmar, la donna alla quale Karoline si rivolge per dare un futuro migliore alla propria figlia, e con la quale instaura un rapporto complesso, stratificato, che diventa il cuore stesso del film. Non mi va di elaborare oltre, per non togliere la sorpresa a chi dovesse ancora vedere The Girl With the Needle, ma qualcosa vorrei dirla ancora, sulla trama. Il film di Magnus von Horn è freddo e diretto, evita ogni tipo di sensazionalismo o presa di posizione, non si dilunga sugli aspetti macabri della vicenda ma va dritto al punto, senza fare sconti a uno spettatore che si ritrova coinvolto in questa vicenda talmente orribile da non sembrare neppure umana. Eppure, i protagonisti sono umanissimi, e il contesto è così realistico che, a volte, sembra quasi di vedere un documentario sulla strenua lotta di una donna per sopravvivere senza diventare un mostro, con sprazzi di luce che si incontrano nei luoghi più impensati, quelli dove la disperazione dovrebbe farla da padrone.


A proposito di luce, Michał Dymek alla fotografia fa un lavoro stupendo, impreziosendo The Girl with the Needle con un bianco e nero splendido, espressionista, che sembra tirare fuori il film da un'altra epoca. Le strenue lotte psicologiche dell'espressionismo tedesco sono richiamate anche da momenti in cui sequenze oniriche entrano, a gamba tesa, a stravolgere ancor più una realtà insostenibile; nelle scene introduttive, bocche, occhi, mani e volti si sovrappongono gli uni sugli altri a creare immagini di sofferenza e disagio, come persone che volessero fuggire dai corpi e dalla realtà, invano. La fuga dalla realtà, la liberazione nella morte, la speranza che si infrange contro un orrore ancora più grande, sono temi che ricorrono per tutto il film e si esprimono nello sguardo stranito della bravissima Vic Carmen Sonne, che interpreta Karoline. Gli occhi, neri ed enormi, dell'attrice, sembrano rivolgere una muta accusa allo spettatore, esprimono lo sconcerto di una donna ormai arrivata a un punto di rottura, stanca di sperare in una vita migliore o anche solo di provare ad andare avanti. Nonostante Karoline sia un personaggio oggettivamente rozzo e poco affascinante (gli stessi aggettivi coi quali definirei l'ambientazione del film, perché il regista non cerca di ammorbidire nulla, a livello di contenuti o immagini), c'è in lei della poesia, la stessa che si può trovare nella ferocia di Dagmar e, ancor più, nella figura spezzata di Peter, freak al quale la guerra ha tolto tutto tranne la capacità di accettare ed accogliere i "peccati" altrui. The Girl with the Needle non è un film facile né accattivante, e, onestamente, non capisco come abbia fatto ad essere accettato dall'Academy, con tutti i compitini innocui presenti in gara quest'anno. Non è un horror, ma usa il linguaggio tipico del genere, e getta in pasto allo spettatore vicende orrende, verosimili, senza un briciolo di compiacimento, costringendolo a farsi moltissime domande scomode. E' un film difficile da riguardare, ma anche da dimenticare, per questo ve lo consiglio. Lo trovate su Mubi, siete ancora in tempo ad abbonarvi per tre mesi al prezzo di un euro.

Magnus von Horn è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Svedese, ha diretto film come The Here After. Anche attore, ha 42 anni.



martedì 18 febbraio 2025

September 5 - La diretta che cambiò la storia (2024)

La settimana scorsa è uscito in Italia uno dei candidati alla Miglior sceneggiatura originale, ovvero September 5 - La diretta che cambiò la storia (September 5), diretto e co-sceneggiato nel 2024 dal regista Tim Fehlbaum.


Trama: durante i giochi olimpici di Monaco, del 1972, la troupe di ABC Sports si ritrova a dover raccontare in diretta l'attacco terroristico palestinese ai danni della squadra israeliana...


Probabilmente non avrei mai guardato September 5 se non fosse stato per la candidatura a miglior sceneggiatura originale. Per evitarvi di commettere il mio stesso errore, vi dico subito che September 5 è invece un film dignitoso e molto interessante, un thriller "da camera" tratto da una terribile (e, purtroppo, incredibilmente attuale) storia vera. L'attentato terroristico accorso durante le Olimpiadi di Monaco del 1972 era già il tema portante del film Munich, ma September 5 si concentra su ciò che accadde "dietro le quinte", all'interno del quartier generale di ABC Sports, quando la troupe incaricata di seguire gli eventi sportivi riuscì a raccontare in diretta, tramite una trasmissione entrata nella storia, la tragica vicenda degli undici ostaggi israeliani. L'aspetto interessante di September 5 è proprio l'idea di raccontare gli eventi da un punto di vista "esterno", attraverso una narrazione costruita, minuto dopo minuto, da informazioni raccolte in tempo reale, non perfette né attendibili. I giornalisti dell'emittente, tra cui un capo della sala di regia alla sua prima esperienza o quasi, si ritrovano combattuti tra emozioni umanissime come terrore, preoccupazione e tristezza, e il desiderio di portare a casa lo scoop della vita, destreggiandosi all'interno di un codice deontologico (tenendo in conto anche il rispetto degli spettatori e delle vittime coinvolte) che lascia ben poco margine ad errori o riflessioni. Il risultato sono 94 minuti di pura tensione, fatti di decisioni rapide, silenzi carichi di attesa, telefonate risolutive e angoscianti sguardi su una situazione esterna che si fa sempre più complessa, anche in virtù dell'importanza sempre più grande della TV e delle trasmissioni internazionali (il momento in cui la troupe si accorge che le riprese in diretta vengono viste anche dai terroristi è agghiacciante); la surreale trasformazione di una "banale" giornata di giochi olimpici in un incubo, con Berlino che torna ad essere una zona di guerra dopo trent'anni, è enfatizzata dalle immagini di archivio che, lungi dall'offrire allo spettatore un resoconto completo e chiaro della vicenda, mostrano squarci di (ir)realtà riprese dalle angolazioni più improbabili e filtrate dalla voce, calma e controllata, dell'anchorman di turno. A fronte di tutto ciò che accade fuori, il fatto che September 5 sia quasi interamente girato all'interno del quartier generale di ABC Sports rende la vicenda ancora più claustrofobica, nonché più interessante l'approfondimento psicologico dei personaggi.


September 5
è un film molto dialogato, la sceneggiatura introduce tantissimi argomenti, anche di ordine politico ed ideologico; visto in originale, è persino un po' difficile da seguire, anche perché i tecnici del suono hanno fatto un lavoro egregio, arricchendo le riprese ravvicinate dei vari punti della sala di controllo con conversazioni in sottofondo, trasmissioni di altre emittenti, telefonate e così via. Ciò nonostante, i vari protagonisti hanno modo di spiccare, ognuno in base ai loro ruoli, responsabilità e personalità, così come alcuni legami che intercorrono tra gli stessi, tra tensioni linguistico-razziali o, banalmente, legate alla gerarchia presente nella sala di regia. Fortunatamente, gli attori sono tutti molto bravi ed affiatati. Tra tutti, spicca John Magaro, nei panni del giovane produttore gettato nella mischia e costretto a prendere decisioni drastiche e tempestive, con tutti i dubbi derivati dalla sua inesperienza (nonché l'enorme onere/onore capitatogli tra capo e collo), punta di un triangolo di interpretazioni che è il cuore del film. Agli altri capi ci sono la favolosa Leonie Benesch, il nemico "tedesco" che diventa indispensabile ponte per superare la barriera linguistica, offrendo uno sguardo meno tecnico e più umano non solo sulla vicenda del film ma anche sulla tragedia che si svolge all'esterno, e il Marvin Bader di Ben Chaplin, la cui famiglia è stata distrutta dall'Olocausto e, probabilmente, più di ogni altro capisce quanto la trasmissione e gli eventi del 5 Settembre rischino di influenzare una situazione internazionale precaria. L'unico difetto di September 5, oltre al fatto che, come ho scritto su, rischia di sovraccaricare lo spettatore al punto da costringerlo a distogliere l'attenzione per sopravvivere all'abbondanza di informazioni, è forse la resa "transitoria" della storia che narra. Certo, il pubblico un minimo intelligente capisce da sé quanto un reportage come quello della ABC Sport abbia cambiato il modo di fare giornalismo in TV, e per il resto basterebbe aprire un libro di storia; tuttavia, forse, il film potrebbe risultare un po' superficiale per gli spettatori più esigenti, che potrebbero non apprezzare l'attenzione rivolta quasi esclusivamente all'effetto thriller e al montaggio serrato della pellicola. Io, che mi accontento di poco, l'ho apprezzato più di quanto credessi, quindi non posso fare altro che consigliarvelo, se lo trovate in sala!


Di Peter Sarsgaard (Roone Arledge), John Magaro (Geoffrey Mason) e Ben Chaplin (Marvin Bader) ho già parlato ai rispettivi link.

Tim Fehlbaum è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Svizzero, ha diretto film come The Colony e Apocalypse. Anche direttore della fotografia, produttore e attore, ha 43 anni.


Leonie Benesch
, che interpreta Marianne, era la protagonista del bellissimo La sala professori. Se September 5 - La diretta che cambiò la storia vi fosse piaciuto, recuperate Munich, The Post e Il caso Spotlight. ENJOY!

venerdì 14 febbraio 2025

Anora (2024)

Il primo recupero eccellente fatto in vista degli Oscar è stato Anora, diretto e sceneggiato dal regista Sean Baker nel 2024, candidato a 6 statuette: Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Attrice Protagonista, Miglior Attore Non Protagonista, Miglior Sceneggiatura Originale, Miglior Montaggio. Quale film migliore per augurare, a chi ci crede, buon San Valentino?


Trama: Ivan,  figlio di un oligarca russo, si invaghisce di Ani, ballerina ed escort in un locale di spogliarelliste. Dopo settimane di sesso e divertimenti, i due si sposano, ma la famiglia di Ivan si mette in mezzo...


Quella di Anora è la storia più vecchia del mondo. Lui, ricchissimo, incontra lei, poverissima, e scatta l'amore, ovviamente contrastato. Ma se Anora fosse davvero tutto qui, non sarebbe un film di Sean Baker, attento indagatore del mondo dei sex worker e, soprattutto, delizioso cantore di storie umane fatte di personaggi imperfetti, squallidi e "brutti". Di ragazze che, come già la Halley di Un sogno chiamato Florida, sono state costrette a crescere fisicamente pur rimanendo immature, facendo della loro disnibita bellezza un mezzo per poter portare a casa quanti più soldi possibili e fare un po' di bella vita, dimenticando la loro condizione di squallore almeno per qualche istante. Di Ani sappiamo poco o nulla, solo che ha origini russe e che rifiuta di usare il suo vero nome, Anora. Si è costruita una nuova identità, rifiutando il passato e smettendo di guardare al futuro, vivendo un eterno presente fatto di ricchi ubriaconi che la palpeggiano. Finché, un giorno, arriva Ivan. Giovane, bello (?), scemo e, soprattutto, sfondato di soldi. Dopo un paio di incontri, Ivan propone ad Ani di diventare la sua Pretty Woman, la sua ragazza per due settimane, un'ultima botta di vita americana, prima di tornare in Russia a lavorare per papà. Segue un periodo frenetico di feste, lussi ed eccessi, di sesso da ragazzini e giornate spensierate, finché non scatta la proposta di matrimonio, offerta ed accettata per motivi diametralmente opposti. Forse Ani comincia a pensare al futuro, a quanto sarebbe bello vivere per sempre un'esistenza libera da pensieri con un babbeo sostanzialmente innocuo, da prendere per mano e formare, anche nel sesso. Forse Ani comincia a pensare di amarlo, lei che l'amore non lo conosce affatto. Non lo sapremo mai, perché, alla notizia del matrimonio, la madre di Ivan sbrocca e manda un improbabile trio di galoppini a far rinsavire il figlio. Il film si trasforma: da commedia romantica fatta ad uso e consumo della Gen Z senza valori diventa un grottesco, esilarante emulo dei migliori film dei Coen. Se prima, infatti, Ivan scopava come un coniglio, di fronte alle minacce di mammà pensa bene di scappare come una lepre, costringendo Ani a far comunella con tre detestabili sconosciuti per ritrovare il fuggiasco e salvarsi matrimonio e futuro.


Se Anora fosse solo questo, però, per quanto divertente, sarebbe davvero poca cosa. E' l'ultimo atto del film che regala la chiave di lettura dell'intera opera, che apre gli occhi alla protagonista, le mostra quella "luce" nascosta all'interno del significato del nome da lei rifiutato. E' qualcosa che si fa strada a poco a poco e che rischia di perdersi, nella frenesia di abiti, gioielli, clienti, sesso, canzoni di volgarità inaudita, perché è piccolo e non eclatante, silenzioso e defilato. In maniera graduale, Anora si rivela un coming of age coi fiocchi, la storia di una ragazza che impara, se non cosa sia l'amore, almeno a percepire la mancanza di "qualcosa", che è andato perduto nella convinzione di essere solo un bellissimo pezzo di carne e di poter fare strada proprio grazie a questa fortuna. E, come ogni rivelazione importante, la consapevolezza è dolorosa. Il finale silenzioso di Anora arriva come la fine di una guerra, quando il giovane soldato entusiasta sopravvive a mille battaglie e mille trionfi, per ritrovarsi stremato, spogliato dell'innocenza, a contare i morti e pensare che, forse, ciò per cui aveva combattuto fino a quel momento non contava nulla; il soldato guarda il mondo con occhi nuovi, arriva a capire ciò che aveva sempre ignorato e, conseguentemente, disprezzato, sentendosi mortificato da quanto ci sia voluto per afferrare cose all'apparenza semplici. E' un finale che arriva con la stessa potenza di quello di Un sogno chiamato Florida, a strizzare il cuore di uno spettatore che si è innamorato di Ani per la sua caparbietà, la sua natura triviale e volgare, persino per la sua stupidità, e vorrebbe abbracciarla come chi è stato a lungo ad osservarla in silenzio, vedendo oltre le apparenze, sopportando insulti ed illazioni. In questo, Igor somiglia moltissimo al Bobby di Un sogno chiamato Florida. I suoi occhi (occhi da "stupratore", come gli rinfaccia rabbiosa Ani, lei che non riesce a staccarsi dall'idea che il sesso sia l'unico modo che hanno gli uomini di rapportarsi a lei) scorgono spiriti affini, non li giudicano, li sostengono per come possono con piccoli gesti di immensa dolcezza e umanità. Magari non risolveranno tutti i problemi, ché anche Igor, come Bobby, non è un supereroe, ma almeno restituiscono la dignità a chi ha dimenticato persino di averla.


La regia di Sean Baker muta seguendo le varie anime del film. Ai grandangoli, i momenti videoclippari e il montaggio frenetico del primo atto, zeppo di sequenze che faranno piangere di gioia gli orfani del Badabing! de I Soprano, seguono immagini concitate degne di un action "da camera", quando Igor, Taros e Garnik scoprono a loro spese cosa significhi avere un uragano di nome Ani intrappolato in un ambiente chiuso. Fa capolino anche lo stile guerrilla, durante la ricerca di Ivan, la cui foto viene mostrata ad ignari clienti di vari ristoranti e locali, ripresi di nascosto, ma tutto si attenua (martellante colonna sonora compresa) sul finale, dove il freddo di una neve "russa" avvolge le luci e i suoni di una New York grigia, invernale. A differenza degli altri film di Baker, la palette di colori è molto più ridotta, proprio per rispettare la stagione in cui è ambientato Anora, ma tutto viene vivacizzato sia dai fili brillanti che decorano i bellissimi capelli di Mikey Madison, sia da pennellate di rosso (la sciarpa della protagonista, fondamentale protagonista di momenti topici) e blu, due colori che si alternano negli abiti e negli oggetti associati ad Ani e Ivan. Ai due protagonisti mi collegherei per parlare degli attori, ma non saprei cosa dire, salvo che ogni membro del nutrito cast è perfetto, indispensabile alla riuscita del film, soprattutto perché a quasi tutti gli interpreti principali è chiesto di fare evolvere i loro personaggi sfidando cliché e prime impressioni. L'esempio più clamoroso di quanto affermo è Yura Borisov, figura di sfondo, semplice gregario che diventa, a poco a poco, la chiave di volta di Anora, facendosi strada nel cuore del pubblico (a parte che io mi sarei portata a casa tutti e tre i "marmittoni", in primis l'esilarante Toros). Quanto a Mikey Madison, già bucava lo schermo in Scream, ma qui regge sulle spalle tutta la pellicola, calamitando lo sguardo dello spettatore non solo per la sua innegabile, sensualissima bellezza (maledetta!), ma anche per la sensibilità nell'interpretare un personaggio molto più sfaccettato di quello che appare all'inizio. Lo avevate detto tutti che Anora era un trionfo, ma dopo le mezze delusioni di Emilia Pérez e, ancora prima, di Povere creature!, ci sono andata molto coi piedi di piombo, e mi sono dovuta ricredere! Agli Oscar tiferò, sempre ed inutilmente, The Substance, ma se, per miracolo, Anora facesse incetta di premi importanti, saltellerò di felicità!


Del regista e sceneggiatore Sean Baker ho già parlato QUI.

Mikey Madison interpreta Anora. Americana, ha partecipato a film come C'era una volta a... Hollywood e Scream. Ha 26 anni.


Yura Borisov
interpreta Igor. Russo, ha partecipato a film come Kapitan Volkonogov bezhal, AK-47 - Kalashnikov e Scompartimento n.6. Ha 33 anni e due film in uscita. 


Karren Karagulian
, che interpreta Toros, ha partecipato a tutti i film finora diretti da Sean Baker... e vi direi di recuperarli, se vi è piaciuto Anora! ENJOY!

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