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venerdì 4 luglio 2025

2025 Horror Challenge: Specie mortale (1995)

La challenge horror di oggi predeva il recupero di un film uscito nel 1995, quindi ho scelto Specie mortale (Species), diretto dal regista Roger Donaldson, che compie 30 anni proprio tra un paio di giorni. 

Il post, anche se non avrei voluto perché il film in questione è parecchio brutto, serve anche a commemorare Michael Madsen, una delle mie grandissime crush cinematografiche nonché emblema di uomo estremamente cool, che è purtroppo morto ieri. Ci vediamo nei film, Michael, ballando leggeri e strafottenti sulle note di Stuck in the Middle With You.


Trama: Sil, ibrido femmina tra umano e alieno, fugge da un laboratorio di ricerca a seguito del tentativo degli scienziati di ucciderla. Sviluppatasi da bambina a donna nel giro di un paio di giorni, Sil si mette in cerca di un uomo con cui accoppiarsi e generare un figlio, lasciandosi dietro una scia di cadaveri...


Aah, che belli gli anni nov... ehm. No, nemmeno gli '80 erano belli ma, Cristo, la monnezza che hanno prodotto i '90. Specie mortale è uno di quei "simpatici" horror sci-fi ad altissimo budget e zeppo di facce famose che non è invecchiato male, di più, e questo nonostante abbia ottenuto tutto ciò che si era sicuramente prefissato, ovvero fare soldi a palate e generare un'infinità di seguiti. Diciamo che, di base, ricordo un battage pubblicitario che puntava essenzialmente sulla bellezza sensuale di Natasha Henstridge, e immagino che chi sia andato al cinema a vedere Specie mortale per godere della vista dell'attrice sia tornato a casa soddisfatto. In realtà, Specie mortale è molto castigato in questo, perché non ha il coraggio dei thriller erotici di fine anni '80 e dell'inizio della decade successiva, e si limita a mostrare la  Henstridge e seno nudo o mentre si profonde in tre amplessi (tra i quali due tentativi che si limitano a una limonata "spinta") sensuali quanto una puntata di Arriva Cristina. Il resto è un "vorrei ma non posso", ovvero un film estremamente maschilista imperniato su una creatura aliena, guidata dall' imperativo genetico dell'accoppiamento a scopo riproduttivo, la quale, in quanto donna, non può perseguirlo senza uccidere i malcapitati che le capitano sotto mano. Sil è una creatura indesiderata fin dall'inizio, da quando il suo viscido creatore Fitch decide di sbarazzarsene salutandola con un gesto della mano e una lacrima, un'aliena che fugge e, nel giro di un paio di giorni, si ritrova vittima di uno sviluppo fisico iperaccelerato che ne cambia completamente le priorità; non più bambina in fuga, bensì donna nel pieno dell'età fertile. Una sceneggiatura non dico intelligente, ma almeno interessante, avrebbe puntato sulla confusione di Sil, extraterrestre prigioniera di un mondo estraneo e anche di un corpo governato da pulsioni sconosciute; avrebbe sfruttato un empatico come andrebbe fatto, utilizzandolo per capire i tormenti della creatura e magari farsene portavoce, creando qualche legame originale, invece di fargli fare da cercapersone e indovino. Invece, abbiamo un gruppo di scienziati capitanati da un mercenario, il cui unico scopo è capire la fisiologia di Sil solo per eliminarla prima che si accoppi e procrei, secondo un pattern abbastanza banale che vede gli umani contro il mostro, senza grandi dubbi morali.


Specie mortale,
se non altro, vanta un design alieno e un paio di sequenze oniriche realizzate da Giger, il quale avrebbe voluto molti più stadi evolutivi per Sil, ma quel paio di guizzi originali fanno a pugni con la piattezza generale della regia di Roger Donaldson, che si "risveglia" giusto nel corso delle sequenze finali ambientate nelle fognature (qui l'unico vero difetto sono, purtroppo, i primi tentativi di motion capture, che rendono Sil un ammasso di pixel appiccicati sullo schermo, inguardabili a livello Il tagliaerbeed è un peccato, perché gli effetti speciali artigianali non sono male). La cosa che fa più "specie" del film è però lo spreco di attoroni da Oscar, i quali vengono surclassati da una novellina come la Henstridge la quale, forse perché insicura e spaesata, conferisce a Sil una sorta di confusa ingenuità che si amalgama alla perfezione con la fredda sensualità dell'attrice, rendendo il personaggio almeno carismatico, se non tridimensionale. Il resto, lo ammetto, mi provoca imbarazzo a parlarne. Andiamo per ordine di credits. Non so cosa avesse visto Ben Kingley, dopo un Oscar per Gandhi e una signora interpretazione in Schindler's List, tranne forse un assegno, per interpretare uno scienziato talmente mal caratterizzato che non viene neanche voglia di sottolinearne la pochezza morale; Michael Madsen all'epoca era all'apice della forma fisica, quindi un figo da primato, ma sfido chiunque a considerarlo un attore capace di portare sulle spalle il ruolo dell'eroe protagonista e, in tutta onestà, il ruolo in cui è costretta Marg Helgenberger (quello della scienziata che non vede l'ora di scoparsi il mercenario muscoloso e misterioso, al punto da fare scenate di frustrazione in pubblico) è svilente per entrambi i coinvolti; Alfred Molina era ai primi ruoli in suolo americano e, preso come comic relief pesantemente connotato come sfigato affamato di patata può anche andare bene, contestualizzando un simile ruolo nell'anno in cui il film è stato girato; Forest Whitaker è un altro che, probabilmente, ha visto un assegno sostanzioso in un momento di magra pre-riconsacrazione a grande attore, perché Dan l'empatico è tutto ciò che uno dotato di simili poteri non dovrebbe essere, oltre a non servire a un cazzo in un contesto di militari e scienziati. Potrei andare avanti ore a ribadire quanto Specie mortale sia un film invecchiato male, ma non vale la pena. Questa è un'altra di quelle opere che può sopravvivere grazie alla nostalgica indulgenza di chi lo ha visto per la prima volta a 16 anni, consacrandolo a film del cuore, e purtroppo per Specie mortale io sono vissuta fino a 44 anni senza averlo mai visto. Ops. 


Di Ben Kingsley (Fitch), Michael Madsen (Press), Alfred Molina (Arden), Forest Whitaker (Dan), Marg Helgenberger (Laura) e Michelle Williams (Sil da piccola) ho parlato ai rispettivi link.

Roger Donaldson è il regista della pellicola. Australiano, ha diretto film come Cocktail, Cadillac Man - Mister occasionissima e Dante's Peak - La furia della montagna. Anche produttore, sceneggiatore e attore, ha 80 anni.


Natasha Henstridge
interpreta Sil. Canadese, ha partecipato a film come Species II, FBI - Protezione testimoni, Fantasmi da Marte, FBI - Protezione testimoni 2, Species III e a serie quali Oltre i limiti e CSI - Miami; come doppiatrice ha lavorato in South Park. Anche produttrice, ha 51 anni e quattro film in uscita. 


Specie mortale
vanta ben quattro seguiti: Species II, Species III e Species IV - Il risveglio, tutti a me sconosciuti. Se volete sapere come prosegue la storia, recuperateli! ENJOY!

martedì 9 ottobre 2018

Venom (2018)

Venerdì sera, trascinata dal Bolluomo e con uno scazzo epico davanti alla coda di adolescenti in visibilio, sono andata a vedere Venom, diretto dal regista Ruben Fleischer.


Trama: durante un'indagine, il giornalista Eddie Brock viene in contatto col simbionte alieno Venom e la sua vita cambia per sempre...



Come sanno gli amici di Facebook, la mia avventura con Venom non è cominciata proprio benissimo. Dopo la coda estenuante, siamo finiti in QUARTA FILA, ovviamente mica al centro, eh no. In più, almeno un esponente dell'accozzaglia di millenials presenti in sala puzzava come un cataletto, ma roba che probabilmente 'sta creatura non ha mai visto la doccia. Io sono schizzinosa solo quando si tratta di cimici ma stavolta ho dovuto gettare la spugna e guardare l'intero film col naso tappato, respirando con la bocca. Con lo scazzo a mille, molto probabilmente ho SUBITO Venom invece di guardarlo, però il risultato a mio avviso cambia poco, ché il film di Fleischer è qualcosa che trasuda brutti anni '90 fin dalle prime sequenze, un ibrido creato da un folle tra il vecchio Spawn The Mask, pellicola quest'ultima di cui Venom ricalca pedissequamente più di una sequenza, al punto che a un bel momento mi sarei aspettata di vedere Eddie Brock "uccidere" i nemici sulle note di Cuban Pete. Razionalmente, potrei dire che Venom è un film "normale", quasi banale, né meglio né peggio dei puntuali compitini Marvel che arrivano come riempitivo tra un Avengers e l'altro (salvo Guardiani della Galassia); come dicevano in The Rocky Horror Picture Show, "I expected nothing and I had that... in abundance!", anche perché a me lo Spiderverse e Venom in particolare non sono mai interessati dunque non potrei nemmeno urlare al vilipendio del personaggio, che del villain ho giusto qualche vecchio ricordo non mutuato da Spider-Man 3 (mai visto). A tal proposito, sinceramente mi sarei aspettata una creatura ben più malvagia, non un simbionte tanto buonino che arriva al punto di dare saggi consigli d'amore al suo ospite o a battibeccare con lui come nemmeno nelle peggiori sequenze di Thor: Ragnarok, toccando l'apice del disagio confessando di essere lo "sfigato" della razza di appartenenza. E allora, ospite e simbionte fanno davvero una bella coppia visto che Eddie Brock è stato caratterizzato come poco più astuto di uno Stanley Ipkiss qualsiasi, il tipico giornalista sensazionalista alla Striscia la notizia che, una volta privato del suo status dal riccone di turno, vaga clueless per le strade della città a rimediare figure di tolla finché l'altrettanto sfigato Venom non comincia ad utilizzarlo come EdgarAbito, maledicendolo con una blandissima necrosi quasi totale degli organi interni in cambio della possibilità di fare una vita che wow!, levàti! Brutto citare nuovamente The Mask ma giuro che la trama è identica dall'inizio alla fine (c'è persino il cane simbionte), con la piccola differenza che Ipkiss sul finale capiva di non aver bisogno della maschera per essere figo mentre Brock rimane ancorato alla sua fondamentale inutilità e niente, serve materiale per un secondo Venom e per giustificare l'imbarazzante scena post credit che vede sprecato uno dei più grandi attori di sempre in virtù probabilmente della sua amicizia con Fleischer.


Ma ciò che più mi ha infastidito, ciò che davvero mi faceva alzare ogni volta gli occhi al soffitto maledicendo di non essere io stessa simbionte per falcidiare tutti i presenti in sala, è il potenziale sprecato. L'inizio di Venom è una sorta di Alien meets L'alieno, col simbionte che passa da un corpo all'altro sfruttando parecchi topos del body horror "psicologico", quello che non porta lo spettatore a vomitare le sue stesse interiora ma che comunque lo inquieta lo stesso. Ovviamente, tutto ciò viene mandato in vacca in tempo zero, con una sceneggiatura disonesta combinata col terribile spauracchio del PG-13. Davvero, non potevano i realizzatori giocare tutto sul sottilmente inquietante, sulla possessione, sull'incapacità di avere il controllo del proprio corpo invece di sottolineare la fame perenne di Venom, il suo desiderio di staccare teste... reso sullo schermo senza nemmeno UNA goccia di sangue? No, ragazzi, allora. Qui non abbiamo Thanos che schiocca le dita e puff!, la gente sparisce, abbiamo MOSTRI con le zanne che divorano teste e impalano persone con propaggini organiche, non puoi renderlo nella maniera più asettica possibile, come se stessimo parlando di noccioline. Non puoi privare lo spettatore, anche il più giovane, dell'ORRORE della cosa, perché Mombi in Nel fantastico mondo di Oz collezionava teste senza mostrarci una singola goccina di sangue ma Cristo se anche il più stupido dei bambini capiva le implicazioni della questione e non ci dormiva la notte, invece qui il risultato è "Venom mangia le teste? Ah, beh, sticazzi", che è il punto di non ritorno di una desensibilizzazione spaventosa. A ciò va aggiunta la voce di Venom. Ho controllato su Wikipedia perché ad un certo punto ho creduto che il doppiatore italiano del killer in Scary Movie fosse lo stesso di Venom, invece abbiamo da una parte Pino Insegno in un film comico e dall'altra Adriano Giannini in un... beh, in un film comico? Non si spiegherebbe altrimenti perché Venom è garrulo e perculante, una sorta di maggiordomo innamorato della sua voce che a un certo punto si profonde persino in un entusiastico "benone!" che mi ha causato più di un conato di vomito, la parodia di un malvagio come la si sentirebbe in una puntata dei Simpson. Ma perché? E soprattutto: perché Michelle Williams a un certo punto vaga per il film vestita da collegiale? Ma anche: perché Tom Hardy recita col pilota automatico? E infine: perché qualcuno dovrebbe scegliere di andare a vedere questo Venom?


Del regista Ruben Fleischer ho già parlato QUI. Tom Hardy (Eddie Brock/Venom), Michelle Williams (Anne Weying), Riz Ahmed (Carlton Drake/Riot) e Woody Harrelson (Cletus Kasady) li trovate invece ai rispettivi link.


Stan Lee compare in un cameo piuttosto lungo all'interno del film, che è provvisto di due scene mid e post-credit: la prima è direttamente collegata alla trama della pellicola o comunque apre la via ad un sequel, la seconda invece è una sorta di trailer per Spider-Man: Un nuovo universo, di cui il Dottor Manhattan ha parlato QUA. Ovviamente, il film in questione non è legato a Venom così come, per ora, non lo sono Spiderman: Homecoming né tanto meno Spider-Man, Spider-Man 2 e Spider-Man 3, all'interno del quale compare Venom per la prima volta. Se Venom vi fosse piaciuto potreste considerare il recupero di Life: Non oltrepassare il limite, il quale per qualche tempo è stato creduto (erroneamente) un prequel di Venom. ENJOY!



domenica 17 giugno 2018

La stanza delle meraviglie (2017)

Questa settimana il film per me più atteso era La stanza delle meraviglie (Wonderstruck), diretto nel 2017 dal regista Todd Haynes e tratto dal libro omonimo di Brian Selznick, anche sceneggiatore della pellicola.


Trama: negli anni '70, dopo la morte della madre, il piccolo Ben decide di scappare di casa andando in cerca del papà mai conosciuto; in parallelo, negli anni '20, la sordomuta Rose cerca il suo posto nel mondo cominciando da New York, dove vive il fratello Albert.



Avevo molte aspettative per questo La stanza delle meraviglie, soprattutto a seguito del bellissimo trailer, affascinante e già di suo commovente. La sensazione di avere davanti un film che mantenesse le promesse del trailer è rimasta intatta più o meno fino a metà, paradossalmente fino al punto in cui la ricerca di Ben comincia a dare i suoi frutti. Fino a quel momento, lo ammetto, non mi era pesato il fatto che buona parte della pellicola si fissasse sui pellegrinaggi a vuoto di un ragazzino che a un certo punto si ritrova a "vivere" all'interno di un museo con un suo coetaneo, mettendo assieme tessere di un puzzle che diventa sempre più tirato per i capelli; soprattutto, non mi era pesata (anche perché adoro Millicent Simmonds e il suo viso dai lineamenti ottocenteschi) la parte di trama relativa ai problemi familiari ed esistenziali di Rose, ragazza sordomuta circondata da persone arrabbiate, egoiste e quasi imbarazzate dalla sua condizione disgraziata. Soprattutto, ho trovato apprezzabile il modo in cui La stanza delle meraviglie mette in scena i problemi di una persona affetta da sordità o mutismo (o entrambi), raccontando un'Odissea viziata da problemi di comunicazione in due epoche in cui la conoscenza del linguaggio dei segni non era diffusa. Ben pochi si accorgono del fatto che Rose è sorda e si limitano a strillarle addosso pensando che sia stupida o timida benché il suo sguardo spaesato palesi tutta la sua frustrazione e, ancora peggio, i suoi stessi genitori non vanno minimamente incontro ai suoi bisogni, alimentando un disagio risalente agli anni dell'infanzia; non va meglio a Ben, diventato sordo all'improvviso a causa di un incidente e conseguentemente impegnato ad affrontare non solo una città pericolosa e sconosciuta come New York ma soprattutto i disagi connaturati alla sua nuova condizione, ritrovandosi costretto a dipendere dalla sensibilità e dalla bontà altrui. A onore del vero, i pregi di La stanza delle meraviglie sono solo questi, la già citata interpretazione di Millicent Simmonds (peraltro già apprezzatissima in A Quiet Place) e la commistione tra fotografia "bruciata" tipica degli anni '70 e bianco e nero con tanto di musica ed effetti sonori che rievocano gli anni del muto, resa ancora più interessante da un ottimo montaggio. E il resto?


Il resto, almeno per quel che mi riguarda, lascia l'amaro in bocca come già accaduto ai tempi di Hugo Cabret, tratto sempre da un'opera di Brian Selznick. Entrambi i film infatti sono visivamente molto affascinanti e hanno un potenziale emotivo enorme ma inciampano per strada dilatando enormemente i tempi all'inizio e facendo una corsa incredibile per tirare tutti i fili in sospeso sul finale, lasciando lo spettatore con un palmo di naso a domandarsi... oddio, è tutto qui? Nel caso de La stanza delle meraviglie tutto si sgonfia quando la giovane Rose scompare, con un anticlimax da martellata nelle gonadi in cui tutti i segreti e i legami tra passato e presente vengono letti dalla voce di un bambino; benché rappresentata da un'interessante tecnica che unisce animazione a foto statiche, con tanto di diorami e disegni, la rivelazione finale è frettolosa e priva lo spettatore di tutte le lacrime che avrebbe dovuto versare, condensandosi in un diludendo di proporzioni epiche. Tra l'altro, sarò forse tarda io ma non comprendo molto bene il motivo di tutti i richiami allo spazio presenti a inizio film. Se l'idea era quella di unire l'immagine di astronauti, stelle cadenti e meteore alla natura di space oddities di Rose e Ben, diciamo che non è un collegamento così immediato (e sono ancora gentile), mentre se tutto ciò è stato inserito perché funzionale alla trama allora probabilmente io e Selznick abbiamo visto due film diversi, non c'è altra spiegazione. Peccato davvero perché guardando La stanza delle meraviglie mi sono sentita wonderstruck, come da titolo originale, solo per quel che riguarda la bellezza della regia di Haynes, sempre raffinato e particolare, ma tanta "meraviglia" si è trasformata in un'emozione effimera, priva di qualcosa che l'aiutasse a mantenere il ricordo di sé. Non so nemmeno se consigliare o sconsigliare questo film visto che non è per nulla brutto ma mi ha lasciata fondamentalmente insoddisfatta. Fate vobis, insomma. Per me, già vedere Millicent Simmonds all'opera vale il prezzo del biglietto!


Del regista Todd Haynes ho già parlato QUI. Julianne Moore (Lillian Mayhew/Rose), Michelle Williams (Elaine) e Tom Noonan (Walter) li trovate invece ai rispettivi link.

domenica 7 gennaio 2018

Tutti i soldi del mondo (2017)

Stanotte assegnano i Golden Globe. Dei film in gara ne avrò visto tre e anche per questo sabato ho costretto il Bolluomo ad andare a vedere l'ultimo film di Ridley Scott, Tutti i soldi del mondo (All the Money in the World), da lui diretto nel 2017, tratto dal libro omonimo di John Pearson e candidato a tre Golden Globe (Christopher Plummer Miglior attore non protagonista in un film drammatico, Michelle Williams Migliore attrice protagonista in un film drammatico, Ridley Scott Miglior regista di film drammatico).


Trama: Il nipote del famoso miliardario Paul Getty viene rapito in Italia. La madre e un collaboratore del nonno cercano di recuperare i soldi del riscatto, che il vecchio rifiuta di pagare...


Tutti i soldi del mondo è un film che mi ha scioccata. Non tanto per la visione di Christopher Plummer al posto di Kevin Spacey (ma posso dire che, forse, cambiare attore non è stata nemmeno una brutta cosa? Nei panni del vecchio maledetto ci vedo meglio Plummer piuttosto che Spacey con quel trucco posticcio...) quanto per i ragionamenti del protagonista, perle di ordinaria taccagneria che ogni giorno sento nei corridoi dell'azienda per la quale lavoro. Spesso mi ritrovo a chiedermi, e non sono la sola, perché mai qualcuno zeppo di soldi debba agire costantemente ponendosi nei confronti del proprio interlocutore come se quest'ultimo volesse fregarlo, a prescindere da qualunque argomento si stia discutendo (SPOILER: il film non lo spiega). Mi si è spezzata la matita e vengo a chiederti di poterla cambiare? Viziata, continua col mozzicone! Il soffitto mi sta crollando in testa? Ah, figuriamoci, sembrerà a te! Dovrei andare dal dottore, non sto bene. "Seh, scuse per prendersi un giorno di ferie". Un, guarda il fornitore che mi ha fatto un regalo! "Non è possibile, dove ca**o è il mio???" And so on. Paul Getty uguale. L'uomo più ricco del mondo viene portato sullo schermo da Ridley Scott come un Paperon De' Paperoni afflitto dal terrore di poter prendere una fregatura e quindi sempre pronto ad agire d'anticipo mettendola nello stoppino al prossimo; unici legami sicuri del vecchio barbogio sono gli oggetti d'arte, perenni, immutabili e di facile comprensione, arido conforto di un uomo che nella vita ha sempre tenuto le distanze dagli esseri umani che non fossero suoi dipendenti (e anche questi ultimi avevano vita breve...). Nel momento in cui il "nipote prediletto" viene rapito, il vecchio miliardario ovviamente fa spallucce, riuscendo in tempo zero a svalutare la vita del ragazzo e lasciando che sia la madre dello stesso a togliere le castagne dal fuoco con i soldi che la sventurata non ha, terrificante vendetta per un affronto subito anni prima. Come un novello Mazzarò, Getty identifica figli e nipoti, ovvero il "sangue", con la Roba ma, come per tutti gli oggetti di valore da lui posseduti, il maledetto cerca di tirare sul prezzo anche in condizioni estreme e Scott non esita a mostrarcelo impegnato ad acquistare opere d'arte ed eleganti magioni mentre al nipote viene tagliato un orecchio di fronte all'ennesima "svalutazione" della merce.


Un po' thriller e un po' biografia, Tutti i soldi del mondo ci catapulta in un'Italia anni '70 che non era solo Dolce Vita ma anche rapimenti, camorra e criminalità gestita da gente poco più istruita di un contadinasso qualsiasi e l'ambiente brutto e sporco delle cascine calabresi, arse dal sole, fa da contraltare al cupo e freddo maniero inglese di Getty o dei suoi efficienti uffici, all'interno dei quali si discute di soldi mentre la gente fuori muore. In tutto questo, la povera Gail Harris, nuora di Getty, si ritrova ad essere considerata ricca e priva di scrupoli non solo da un branco di criminali ma anche dalla stampa affamata di scandali, quando la realtà è che dal matrimonio con un rampollo di ricchissima famiglia la donna non ha mai ricavato altro che sofferenza ed umiliazioni; il destino di Gail è quello di vedersi portare via le persone amate a causa della ricchezza, di arrivare ad odiare il denaro e la Famiglia e di ritrovarsi tuttavia sempre più infognata all'interno di un Impero dove chiunque vorrebbe mettere le mani tranne lei. La storia che scorre sullo schermo (la quale, viene specificato più volte, è stata MOLTO romanzata) alterna epiche immagini "alla Scott", con la neve tra le rovine romane, sterminati campi di grano, giornali che si animano quasi volessero attaccare il loro lettore, a quelli che mi sono sembrati azzeccati omaggi al poliziottesco violento e alle atmosfere Sorrentiniane de La grande bellezza ma forse ciò che mi ha colpita di più è la cura riposta nella realizzazione degli interni della magione di Getty, talmente piena di opere d'arte che riconoscere ogni stile ed autore è stato praticamente impossibile, almeno per me. Gli attori mi sono sembrati tutti in parte, Plummer e Michelle Williams in primis benché non da Golden Globe, ma rimpiango di non aver potuto vedere il film in lingua originale perché il ridoppiaggio in italiano di molti attori autoctoni mi ha fatto letteralmente accapponare la pelle tanto mi è parso forzato (forse perché c'è molta differenza tra chi è doppiatore e chi si ritrova in sala doppiaggio per la prima volta?); fortunatamente la cosa non ha inficiato la visione del film, che si conferma solido e capace di intrattenere e far riflettere. Con buona pace dei fan di Kevin Spacey, che vi devo dire.


Del regista Ridley Scott ho già parlato QUI. Michelle Williams (Gail Harris), Christopher Plummer (J. Paul Getty), Mark Wahlberg (Fletcher Chase), Timothy Hutton (Howard Hinge) e Marco Leonardi (Mammoliti) li trovate invece ai rispettivi link.

Nicolas Vaporidis interpreta il Tamia. Nato a Roma, lo ricordo per film come Notte prima degli esami e Notte prima degli esami - Oggi, inoltre ha partecipato a serie quali Carabinieri. Anche produttore, ha 36 anni e un film in uscita.


E' risaputo, e non devo essere io a ricordarlo, che Christopher Plummer ha rimpiazzato Kevin Spacey dopo gli scandali sessuali che hanno coinvolto quest'ultimo; tuttavia, Plummer era già nella rosa di candidati papabili per i ruolo (assieme a Jack Nicholson e Gary Oldman tra l'altro) e, oltre ad avere già letto lo script, aveva anche incontrato Getty ad alcune feste negli anni '60. Quello che forse non sapete però è che il ruolo di Gail Harris era stato offerto prima ad Angelina Jolie poi a Natalie Portman, che hanno entrambe rifiutato. Detto questo, se Tutti i soldi del mondo vi fosse piaciuto potete recuperare The Counselor - Il procuratore anche se a me proprio non è garbato. ENJOY!

domenica 19 febbraio 2017

Manchester by the Sea (2016)

Per me era un po' l'incognita della notte degli Oscar ma questa settimana è uscito anche in Italia Manchester by the Sea, scritto e diretto nel 2016 dal regista Kenneth Lonergan e candidato a sei statuette (Miglior Film, Casey Affleck Migliore Attore Protagonista, Lucas Hedges Migliore Attore Non Protagonista, Michelle Williams Migliore Attrice Non Protagonista, Miglior Regia e Miglior Sceneggiatura Originale) quindi non ho potuto fare a meno di dargli un'occhiata.


Trama: Lee Chandler, tuttofare a Boston, è costretto a tornare nel suo paese natale dopo la morte del fratello per prendersi cura del nipote adolescente...


Ci sono due scene che mi hanno colpita tantissimo durante la visione di Manchester by the Sea. La prima è quella ripresa anche nei poster, in cui Lee e l'ex moglie Randi si confrontano tirando fuori tutto il dolore covato negli anni, una sequenza capace di spezzare il cuore ad un sasso per quanto è intensa, la seconda invece è quella in cui il giovane Patrick viene colpito da un attacco di panico e lo zio non può fare altro che guardarlo in silenzio, offrendogli semplicemente la sua presenza come mezzo di sostegno, sequenza probabilmente meno "topica" ma altrettanto importante. Manchester by the Sea andrebbe visto anche solo per queste due scene ma l'ultimo film di Kenneth Lonergan è bellissimo in generale, entra sotto pelle e tratta un argomento difficile come l'elaborazione del lutto in maniera non banale e, soprattutto, senza calcare la mano sul patetismo; anzi, oserei dire che Manchester by the Sea, a tratti, è persino molto divertente e ha la malinconica leggerezza (o la leggera malinconia?) tipica dei lavori meglio riusciti di Lasse Hallström. La pellicola si concentra su due personaggi in particolare, Lee e suo nipote Patrick. Fin dall'inizio vediamo che tra i due c'è un rapporto speciale, risalente all'infanzia di Patrick, cementato da gite in barca e battute di pesca, eppure ad un certo punto Lee ha abbandonato fratello, nipote, cittadina sul mare e si è ritirato a Boston, dove ha cominciato a condurre una vita squallida e solitaria. Un episodio devastante ha letteralmente svuotato Lee, privandolo di qualsiasi impulso vitale e della capacità (persino della volontà) di rapportarsi agli altri o di rifarsi una vita e quando, dopo la morte del fratello, scopre di aver ricevuto in eredità la custodia del nipote, è come se il mondo gli crollasse addosso una seconda volta. Patrick è invece l'opposto dello zio: nonostante un'infanzia non facile, il bimbetto di un tempo è diventato un bel ragazzo, sicuro di sé, pieno di amici, di interessi e con un futuro probabilmente assai brillante davanti, che cerca di superare la morte dell'amato padre conducendo una vita quanto più normale possibile. Come la maggior parte dei film "a tema", Manchester by the Sea è interamente giocato sullo scontro tra questi due caratteri diversi ma non si snoda nella maniera in cui si aspetterebbe lo spettatore; la catarsi, per Lee, è minima e il suo dolore talmente immenso che non basta la forte personalità di un nipote, per quanto amato, a sciogliere il blocco di ghiaccio che l'uomo porta nel petto, non quando sotto il ghiaccio non c'è più nulla.


La morale di Manchester by the Sea, se di morale si può parlare o se il mero raccontare una storia debba per forza implicare che ne esista una, è che ognuno deve essere lasciato libero di affrontare i propri mostri interiori come meglio crede ma non necessariamente lasciato solo; il rapporto che si viene a creare tra Lee e Patrick implica un "vivi e lascia vivere" che non sottintende disinteresse, bensì l'impegno ad osservare e capire l'altro, trovando il modo migliore affinché la sua esistenza possa riprendere a scorrere nella maniera più tranquilla possibile (a scorrere o a rimanere in stasi, come i gabbiani che si lasciano trasportare dalle correnti aeree in un'altra, splendida ed importante sequenza). In Manchester by the Sea tutti quelli che elargiscono consigli, praticano il cosiddetto "small talk", hanno un estremo bisogno di confessarsi e sgravare le coscienze o cercano in qualche modo di prendere le redini dell'esistenza di coloro che ritengono più "deboli" vengono giustamente rimbalzati al mittente, in modo anche poco urbano, perché il microcosmo di una persona è delicato ed impenetrabile quanto quello della cittadina da cui il film prende il nome, quella Manchester by the Sea arroccata sul mare dove persino la primavera e l'estate odorano d'inverno. Casey Affleck, che qui offre una prova a dir poco grandiosa, E' Manchester by the Sea, con la sua aria "stundaia" e gli aculei che paiono voler trafiggere tutti quelli che osano avvicinarsi per riportarlo a fiorire, un uomo spento che vorrebbe soltanto sprofondare nel mare del suo terrificante incubo personale e per il quale sarà SEMPRE inverno, anche quando qualcuno proverà ad accendere una timida fiammella di speranza o a lasciarsi alle spalle il passato, sperando di poter ricominciare da capo. Per tutti questi motivi il finale di Manchester by the Sea non è felice e neppure consolatorio, è giusto che non lo sia, ma in esso risiede tutta la bellezza di un film capace di sorprendere, emozionare e coinvolgere lo spettatore attraverso la semplice, quasi sonnolenta quotidianità di una storia incredibilmente umana e, purtroppo, plausibile. Complimenti quindi a Kenneth Lonergan il quale, dopo sei anni di assenza dalle scene cinematografiche e un periodo esistenziale decisamente nero, è riuscito a riprendersi e a confezionare un simile gioiellino.


Del regista e sceneggiatore Kenneth Lonergan ho già parlato QUI. Casey Affleck (Lee Chandler), Kyle Chandler (Joe Chandler), Michelle Williams (Randi Chandler), Josh Hamilton (l'avvocato Wes) e Matthew Broderick (Jeffrey) li trovate invece ai rispettivi link.

Lucas Hedges interpreta Patrick. Americano, ha partecipato a film come Moonrise Kingdom - Una fuga d'amore (che vedeva protagonista proprio Kara Hayward, qui nel ruolo di Silvie McCann, una delle fidanzate di Patrick), The Zero Theorem e Grand Budapest Hotel. Ha 20 anni e due film in uscita.


Stephen Henderson, che interpreta Mr. Emery, ha partecipato ad un altro dei film protagonisti dell'imminente Notte degli Oscar, ovvero Barriere. Manchester by the Sea avrebbe dovuto essere diretto, interpretato e prodotto da Matt Damon ma le vicissitudini produttive dietro al film e vari ritardi hanno portato l'attore a ritirarsi dal progetto e a rimanere solo in qualità di produttore. Per concludere, se Manchester by the Sea vi fosse piaciuto recuperate Margaret. ENJOY!

martedì 12 marzo 2013

Il grande e potente Oz (2013)

Tanta era l'attesa per l'ultima fatica di Sam Raimi, Il grande e potente Oz (Oz the Great and Powerful) e domenica sera sono andata a vederlo con un paio di amici, entrando in sala già bestemmiando a causa del molesto occhialetto 3D...


Trama: Oscar "Oz" Diggs lavora come mago in un circo itinerante. La sua natura di donnaiolo e cialtrone lo mette nei guai una volta di troppo e, costretto a scappare da due colleghi inferociti, sale su una mongolfiera che viene però risucchiata da un tornado e catapultata nel Regno di Oz. Lì il sedicente Mago dovrà riuscire a barcamenarsi tra profezie e streghe buone e malvagie...


Il grande e potente Oz è sicuramente grande come promesso. Il dispiego di mezzi usato per riportare sullo schermo il mondo creato da L.Frank Baum è a dir poco incredibile e Sam Raimi si avvale di ogni trucco e magia disponibili per offrire allo spettatore un tripudio di colori, immagini, animali fantastici, fiori fatti di gemme, paesaggi incantati e quant'altro possa solleticare l'immaginazione e dare l'illusione di trovarsi in un mondo "altro". Coadiuvato da un Danny Elfman in formissima (a cui devono aver sparato sul finale per fare posto alla gnaulante Mariah Carey) il regista si dimostra padrone dell'odioso 3D confezionando i primi dieci minuti di film come se fossero un gioiellino in bianco e nero, a partire dallo splendido teatrino dei titoli di testa per arrivare alla fantastica sequenza dell'uragano, che ricorda i momenti più deliranti de L'armata delle Tenebre. Il passaggio dalla monocromia all’abbacinante colore (con conseguente cambiamento del formato dello schermo, che ho percepito ad occhio ma mi mancano i termini tecnici per definirlo, perdonate…) è altrettanto meraviglioso e lascia letteralmente a bocca aperta per la bellezza dei paesaggi toccati dalla mongolfiera del grande Mago, mentre proseguendo con la visione del film ho potuto apprezzare sia le mise delle streghe cattive, soprattutto quella stilosissima di Mila Kunis, sia la finissima realizzazione della bambolina di porcellana (il personaggio più riuscito di tutto il film assieme ad Evanora e l’unico in grado di riuscire ad emozionare), sia lo spettacolare finale horror, dove la Strega privata dei suoi poteri mi ha tanto ricordato la vecchia nascosta in cantina ne La casa 2 o quella di Drag Me to Hell. L’ultimo film di Raimi è dunque sicuramente Grande… ma è anche Potente?


No, porca vacca schifa, no! Non è Potente per nulla, anzi è cialtrone come il suo protagonista, il gigione ed insopportabile James Franco col sorriso berlusconiano e i modi da Silvano, il mago di Milano, che avrei preso a ceffoni una volta e sì e l’altra pure durante i tristi siparietti col nano Knuck (Lo scambio “Hey, brontolone!” “Mi chiamo Knuck…” “Va bene, brontolone!” me lo fai una volta, alla terza il livello del film diventa pari a un qualsiasi lungometraggio di Barbie…) e in generale nel 90% delle sequenze: ciccio mio, anche Johnny Depp alla decima smorfia mi scatena un odio inconsulto, figuriamoci tu che, con tutto il rispetto, puoi giusto baciargli i piedi. E visto che tiriamo in ballo il gemello diverso di Burton, purtroppo quello che valeva per Alice in Wonderland vale anche per Il grande e potente Oz. L’abbondante CG strappa sicuramente mugolii di meraviglia per i primi dieci minuti, poi diventa di una pesantezza quasi insostenibile, soprattutto quando viene usata per sostenere una trama bambinesca e personaggi stereotipati e vuotissimi, senza contare che in alcune sequenze si percepisce palesemente lo “scollamento” tra gli attori e il finto mondo che li circonda. Il film manca di emozioni e sentimenti reali, l’idea di mostrare i trucchi di Oz come metafora del cinema è tirata per i capelli e francamente da Raimi mi aspettavo qualche virata in più verso l’horror e il grottesco. Voi mi direte: è un film della Disney, bisogna pensare anche ai bambini. Io vi butto lì solo un titolo, Nel fantastico mondo di Oz, sempre prodotto negli anni ’80 dalla Disney, e vi dico che in quella pellicola c’erano degli inquietantissimi uomini dotati di ruote cigolanti che inseguivano i protagonisti, una strega che collezionava teste e che la povera Dorothy veniva rinchiusa in un cupissimo manicomio perché la gente del Kansas era convinta che avesse le visioni. Altro che babbuini con le ali, fiori con le zanne e streghette in fregola! Verso la fine del film tocca anche sorbirsi l'abbozzo di una canzoncina cantata dai nanetti e nemmeno la bellezza di una Città di Smeraldo tanto simile al paesaggio urbano di Metropolis mi può salvare dalla rara stupidità della buonissima Strega Glinda. Insomma, Il grande e potente Oz è tanto fumo e niente arrosto, gli do la sufficienza giusto per l'inizio e per un paio di belle idee qui e là, ma per il resto Raimi sembra avere imboccato la china discendente di Burton... speriamo che presto arrivi un deadite a mordergli le chiappe e farlo rinsavire.


Di James Franco (Oz), Mila Kunis (Theodora), Rachel Weisz (Evanora), Michelle Williams (Annie/Glinda), Bill Cobbs (Mastro stagnino), Tony Cox (Knuck), Bruce Campbell (la guardia alle porte della Città di smeraldo) e Ted Raimi (uno degli scettici che compaiono durante lo spettacolo di Oz) ho già parlato ai rispettivi link.

Sam Raimi (vero nome Samuel Marshall Raimi) è il regista della pellicola. Uno dei miei registi preferiti, ha diretto film come La casa, La casa 2, Darkman, L’armata delle tenebre, Pronti a morire, Soldi sporchi, The Gift – Il dono, Spider-Man, Spider-Man 2, Spider-Man 3 e Drag Me to Hell. Americano, anche produttore, sceneggiatore e attore, ha 54 anni.


Zach Braff (vero nome Zachary Ismael Braff) interpreta Frank e presta la voce alla scimmietta volante Finley. Indimenticabile J.D. della serie Scrubs, ha partecipato anche al film La mia vita a Garden State. Anche produttore, regista e sceneggiatore, ha 37 anni.


Nel corso della recensione ho citato Johnny Depp e le sue smorfie; ebbene, sappiate che l'attore era in trattative, assieme al fighissimo Robert Downey Jr., per il ruolo di protagonista. Certo, se quest’ultimo avesse accettato la parte sarebbe stato molto più credibile di James Franco come tombeur de streghe! A proposito del cast femminile, pare invece che Michelle Williams e Hilary Swank siano state le prime scelte del regista per il ruolo di Evanora e che poi Raimi si sia fatto convincere dalla Weisz a dare a lei la parte. La Williams è finita così a vestire i panni di Glinda al posto di Blake Lively, che ha preferito cimentarsi ne Le belve. Se Il grande e potente Oz vi fosse piaciuto, recuperate innanzitutto Il mago di Oz con Judy Garland (sapevate che Raimi non ha potuto usare le scarpette rosse di Dorothy e che hanno dovuto cambiare i tratti somatici e il colore della Strega dell'Ovest perché la Warner Bros. detiene ancora i diritti per quelli che sono veri e propri "marchi di fabbrica" del film del 1939? Sapevatelo!!) e il meraviglioso ed ampiamente citato Nel fantastico mondo di Oz, poi concludete l’opera con Alice in Wonderland. ENJOY!!

mercoledì 24 marzo 2010

Shutter Island (2009)

Mwahahaha mi viene già da ridere. La sfida postami dal buon Toto all’uscita del cinema è stata: “Scusa, ma come cavolo farai a recensire questo film senza rivelare nulla della trama e del finale??”. E’ una sfida che ho rimandato per qualche giorno, ma ora devo mettermi a scrivere qualcosa sull’ultimo film di Martin Scorsese, ovvero Shutter Island, tratto dal romanzo L’isola della paura, scritto nel 2003 da Dennis Lehane.


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La trama: Teddy Daniels è un agente federale, che viene mandato con il suo collega Chuck all’Ashecliff Hospital, una struttura psichiatrica specializzata nel trattamento di psicotici criminali di varia natura, sita su un’isola, Shutter Island appunto. Il motivo per cui i due sono lì è che una paziente è sparita, apparentemente senza lasciare traccia, ma il vero motivo che ha spinto Teddy ad accettare il caso è la speranza di trovare il piromane che ha ucciso sua moglie in un incendio, e che dovrebbe essere rinchiuso lì; da qui si dipana una trama fitta di complotti, allucinazioni, ambiguità e quant’altro.


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Detta così potrebbe essere semplice. In realtà in Shutter Island, sebbene avessi capito l’80% del finale già dopo due minuti di film, non c’è nulla di semplice. Poche volte infatti mi è capitato di trovarmi davanti un film così complicato, intrecciato, ambiguo, zeppo di nomi da ricordare e con mille possibili sviluppi della trama. Certo, non siamo ai livelli di Lynch, perché comunque il finale è comprensibile e “spiegato”, ci mancherebbe, ma in quanto ad attenzione richiesta allo spettatore siamo leggermente sopra alla media. Detto questo, il film rischia di perdersi un po’ troppe volte, addormentando il cervello di chi assiste alla proiezione piuttosto che attivarlo, e se non fosse per flashback, allucinazioni varie e qualche sprazzo di grottesca ironia qui e là (i dialoghi con i pazienti sono esilaranti…), il rischio sarebbe quello di provocare disinteresse, il che avrei detto che dovesse essere impossibile davanti ad un film di Scorsese.


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Ed effettivamente non sembra di vedere un film di Scorsese. A parte ovvi richiami a Cape Fear, il suo film forse visivamente più simile a questo (tanto che per un attimo ho creduto in un cameo di Robert DeNiro nei panni del piromane, quando invece avevo davanti la faccia sfregiata di Elias Koteas, CACCA su di me!!), non c’è nulla che richiami gli antichi fasti di uno dei miei registi preferiti. Se non fosse per alcune finezze registiche, in effetti, la paternità del film non sarebbe così palesemente Scorsesiana. I già citati flashback e le allucinazioni sono le uniche immagini particolari di un film altrimenti anonimo, scene di una bellezza incredibile anche se terribilmente crude: i corpi ammassati sotto la neve dei prigionieri nei campi di concentramento, di cui solo con il proseguire del film si riesce ad intuire l’orribile quantità; la morte del direttore dello stesso campo di concentramento, con Di Caprio che svetta su di lui come un novello BastErdo mentre dall’alto sembrano piovere documenti e fogli di carta, lo stesso lento movimento che viene ripreso nelle visioni in cui compare la moglie, coloratissime, vive e costellate di ceneri fluttuanti; ed altre toccanti immagini di cui non parlo per non perdere la sfida, immerse in una fotografia dai colori che richiamano quelli azzurrini dell’acqua. Scene come quelle fanno la gioia di ogni cinefilo, ma sembrano messe proprio per dare quel tocco d’autore alla pellicola, e stentano ad amalgamarsi col resto del film.


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Film che conta peraltro attori della madonna. Al di là di Leonardo di Caprio, che sembra avere sempre la stessa aria da bamboccione ben pettinato per tutto il film, “no matter what”, e al già citato Elias Koteas, ad un tratto spunta un inaspettato Jackie Earle Haley che sembra essersi portato dietro da Watchmen il personaggio di Rorshach senza maschera e poi ovviamente vedere Ben Kingsley in un personaggio assurdamente grottesco e caricaturale è sempre un piacere per gli occhi, così come è bello il cameo ambiguo di Max Von Sydow, che continua a non perdere smalto dopo millemila anni di carriera. Mark Ruffalo è una buona spalla, ma niente di troppo esaltante, e gli altri attori sono comunque buoni. E voi direte: ma che cavolo di recensione è? Eh, non posso davvero dire altro, se non che alla fine Shutter Island è un film che consiglio, magari non ai fan sfegatati di Scorsese che potrebbero rimanere delusi e piccati (come sono rimasta un po’ io in effetti…), però sicuramente agli amanti di un cinema che presuppone un po’ di sforzo mentale da parte del pubblico. Alla fine è un ottimo thriller, con un finale che consente di discuterne per parecchio, magari davanti a un gelato o a una birra.    


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Di Jackie Earle Haley ho già parlato qui, mentre per alcune notizie su Max Von Sydow potete guardare qua.


Martin Scorsese è il regista della pellicola, nonché il mio preferito dopo Tarantino e Burton, tanto che nel 2006 ho deciso di fare la tesi proprio su uno dei suoi film più belli, L’età dell’innocenza. Newyorkese ma con ovvie radici italiane, tra le sue pellicole ricordo con sommo piacere innanzitutto i meravigliosi Taxi Driver, Quei bravi ragazzi e Casino, poi a seguire le altre comunque pregevolissime opere: The Big Shave, Mean Streets, Fuori Orario, L’ultima tentazione di Cristo, Cape Fear – Il promontorio della paura, Il mio viaggio in Italia, Al di là della vita, Gangs of New York, The Aviator e The Departed (per il quale ha vinto un tardivissimo Oscar come miglior regista). Ha 68 anni e ben quattro film in uscita. 


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Leonardo Di Caprio interpreta Teddy Daniels. Attore che mi ha sempre fatto storcere il naso, da che era diventato l’idolo delle adolescenti di tutto il mondo (e quando ero adolescente anche io, intendiamoci, ma preferivo Bruce Willis!) all’epoca di Romeo & Giulietta e ovviamente Titanic, pare che ora abbia sostituito il buon De Niro come attore feticcio di Scorsese, con mio grande dispiacere. Non che non sia migliorato, in quanto a recitazione, negli ultimi anni, ma semplicemente non riesco davvero a farmelo piacere. Tra i suoi film ricordo Critters 3, La mia peggiore amica, Buon compleanno Mr. Grape, Pronti a morire, Poeti dall’inferno, La maschera di ferro, Gangs of New York, Prova a prendermi, The Aviator e The Departed. Ha partecipato anche ad alcuni telefilm a inizio carriera, come Santa Barbara, Pappa e ciccia, Genitori in blue jeans. Ha 36 anni e cinque film in uscita.


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Mark Ruffalo interpreta Chuck. Attore americano dalla faccia decisamente anonima, eppure bravo, lo ricordo in diversi film pregevoli tra cui i bellissimi Studio 54, Se mi lasci ti cancello e il meno bello Zodiac. Ha 43 anni e due film in uscita.


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Ben Kingsley interpreta il Dr. Cawley. Straordinario attore inglese, capace di immedesimarsi in un personaggio fino ad annullarsi completamente in esso (memorabile la sua interpretazione in Gandhi che non a caso gli ha fatto vincere un Oscar come miglior attore protagonista), tra i suoi film cito Schindler’s List, Specie mortale, il film tv Alice nel paese delle meraviglie (nei panni del Brucaliffo!), A.I. Intelligenza artificiale e Oliver Twist. Scopro ora che era tra i protagonisti di un film TV che ricordo ancora da bambina, Il segreto del Sahara, tra l’altro. Ha 67 anni e quattro film in uscita, tra cui quel Prince of Persia di cui ho visto già quattro o cinque volte il trailer al cinema.


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Elias Koteas ha un breve cameo nella parte del piromane Laeddis. Lo cito perché come attore mi piace molto e ho visto, a volte senza nemmeno esserne consapevole, un sacco di film interpretati da lui, tra cui Tartarughe Ninja alla riscossa, Senti chi parla 2, L’ultima profezia, Il tocco del male (due film che ho adorato), L’allievo, La sottile linea rossa, Lost Souls – La profezia, Sim0ne, Zodiac e Il curioso caso di Benjamin Button. Ha partecipato a telefilm come I Soprano, Dr. House, CSI New York e prestato la voce per alcuni episodi di American Dad. Canadese a dispetto del nome e del cognome, ha 49 anni e sei film in uscita.


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Michelle Williams interpreta Dolores, la moglie di Teddy. Comunemente denominata da me medesima “Porcellino biondo” a causa della prolungata partecipazione ad uno dei telefilm più inutili (ed inspiegabilmente di successo!) dello scorso decennio, ovvero Dawson’s Creek, del quale era una dei quattro losers protagonisti. Ha poi intrapreso una carriera cinematografica di tutto rispetto (mica perché era la compagna del defunto Heath Ledger? Noo….!) che conta titoli come Specie mortale, Halloween 20 anni dopo e I segreti di Brokeback Mountain, mentre per la TV la ritroviamo in episodi di Baywatch e Quell’uragano di papà. Ha 30 anni e due film in uscita.


Michelle Williams
 
Fa ridere pensare che per il ruolo di Ruffalo erano stati fatti i nomi di Robert Downey Jr. e Josh Brolin, peccato che entrambi si sarebbero mangiati Di Caprio in quanto a bellezza e presenza scenica, nonché, ovviamente, bravura. Inoltre il progetto avrebbe dovuto essere affidato alla premiata ditta Fincher/Pitt, che già ci hanno regalato gli splendidi Seven e Fight Club. Una simile accoppiata per questo film mi avrebbe incuriosita, rabbrividisco invece all’idea che avrebbe potuto metterci le mani Wolfgang Petersen, regista di colossali idiozie come Troy oppure banalissimi action come Air Force One (nonché di un film a suo modo poetico come La storia infinita…). Comunque se vi è piaciuto il film non vi dico di gettarvi subito a “provare” un Lynch, ma magari potrebbe interessarvi qualcosa come A History of Violence di Cronenberg, altrettanto complesso e molto, molto bello. E ora vi lascio, molto banalmente, al trailer del film. ENJOY!


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