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venerdì 21 maggio 2021

The Father (2020)

E' uscito ieri nelle sale italiane The Father, diretto e co-sceneggiato dal regista Florian Zeller, vincitore di un Oscar per il miglior attore protagonista e per la Miglior Sceneggiatura Non Originale.


Trama: Anthony, ormai anziano, si ritrova a non riconoscere più non solo i suoi familiari ma anche il mondo che lo circonda...


I film che trattano il tema delicato dell'Alzheimer e di tutto ciò che implica questa orribile malattia, per chi ne è affetto e per chi gli sta accanto, nel corso di questi ultimi anni si sono moltiplicati, eppure a me pare che The Father sia il primo a mostrare il punto di vista del malato senza piegarlo al desiderio di comprensione dello spettatore. L'opera di Florian Zeller, tratta da una sua pièce teatrale, ci introduce infatti alle ultime fasi della vita di Anthony, uomo che si ritrova a dipendere sempre più dalla figlia Anne a causa di una malattia degenerativa che lo sta privando, a poco a poco, della lucidità e della memoria; un uomo che si è sempre distinto per umorismo, intelligenza e gusti, fiero della propria indipendenza, arriva a guardare con diffidenza tutto ciò che lo circonda, ritrovandosi spiazzato davanti a persone che non riconosce e luoghi che non sono quello che sembrano. L'inizio del film è trattato come un giallo hitchcockiano, tanto che nello spettatore si insinua la stessa angoscia che comincia a corrompere ancor più la mente di Anthony, soprattutto dal momento in cui anche la dimensione temporale di The Father, la consecutio degli avvenimenti, comincia a privarsi di ordine e logica, lasciando ancora più spiazzati e consapevoli di come dev'essere "perdere le foglie", ritrovarsi come un albero nudo, privi di quella sicurezza che deriva dalla piena coscienza di sé, alla mercé di qualsiasi cambiamento. Quella stessa insicurezza si riversa sullo spettatore, che a un certo punto si chiede se ciò che si vede sullo schermo sia interamente reale o in parte frutto delle percezioni distorte di Anthony, soprattutto nella sequenza più orribile dell'intera pellicola, quella in cui il marito di Anne comincia a picchiare l'anziano suocero che scoppia in lacrime così cocenti e terrorizzate da spezzare il cuore a un sasso.


E lacrime si versano anche davanti ai dubbi di Anne e al suo senso di colpa, ché The Father, nonostante la sua breve durata, riesce anche, con poche pennellate, a delineare la situazione di chi ha a che fare con la malattia da "esterno", vittima non solo del dolore di vedere sfiorire il proprio caro ma anche di quello di diventare bersaglio di esternazioni violente e anche troppo "sincere", soprattutto quando a prendersi cura del malato non è la figlia preferita, come in questo caso. Lo strazio di sentirsi lacerare tra l'affetto per il malato, il senso di dovere filiale, e l'umana fatica di dover sopportare una simile situazione anelando la libertà e la possibilità di vivere un'esistenza normale si leggono in ogni ruga del viso della bravissima Olivia Colman, nei suoi sguardi, in quel groppo alla gola che diventa un riverbero di quello dello spettatore. E quanto è tornato ad essere bravo, finalmente, anche Anthony Hopkins, che in una sequenza affascina e conquista, per poi straziare durante un finale in cui si fatica a non distogliere lo sguardo per il modo in cui viene messa in scena tutta la pena di una malattia che priva le persone dell'indipendenza e della dignità, lasciando solo un fragile guscio vuoto là dove un tempo c'era un essere umano integro e meravigliosamente complesso. Di fronte a questo, The Father non è un film che consiglio a chi dovesse trovarsi in una simile situazione, perché rischierebbe di non essere per nulla catartico e di aumentare la sofferenza, tuttavia è una delle pellicole che ho apprezzato maggiormente nel corso dell'annuale, forsennata rincorsa al recupero pre-Oscar, quindi guardatelo perché merita. 


Di Anthony Hopkins (Anthony), Olivia Colman (Anne), Mark Gatiss (l'uomo), Olivia Williams (la donna), Imogen Poots (Laura) e Rufus Sewell (Paul) ho già parlato ai rispettivi link. 

Florian Zeller è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Francese, è al suo primo lungometraggio. Anche produttore, ha 42 anni.


Se The Father vi fosse piaciuto recuperate Still Alice, lo trovate a noleggio su varie piattaforme. ENJOY!

lunedì 26 aprile 2021

Oscar 2021

Buon lunedì a tutti! Qualcosa stanotte mi ha fatta svegliare giusto cinque minuti prima che cominciasse la lunghissima, noiosissima premiazione degli Oscar, ambientata in una location ariosa e particolare ma affossata dalle solite menate da cerimonia; unici sprazzi carini, il balletto di Glenn Close alla fine di un tristissimo gioco a tema musicale, il discorso della vincitrice Yuh-Jung Youn con tanto di tentativo di concupire Brad Pitt e la mise da spolverino de La bella e la bestia di una frizzante Laura Dern. Ma bando alle ciance e vediamo chi ha vinto... ENJOY!


Cominciamo dal miglior film, anche se alla Academy, con sommo scorno di Canova, hanno lasciato per ultime le premiazioni agli attori protagonisti, sovvertendo l'ordine solito. Scontatissima ma meritatissima la vittoria di Nomadland, che dopo Promising Young Woman è stato il film che mi ha emozionata di più. Nomadland ha portato a casa tre statuette: Miglior Film, Miglior Regia e Miglior Attrice Protagonista, andata ad una Frances McDormand che evidentemente aveva lasciato aperto il gas, visto che ha arraffato l'Oscar, ha detto due parole ed è fuggita. Certo, l'adorabile attrice aveva già parlato molto nel corso della premiazione per Miglior Film, invitando gli spettatori ad andare a vedere Nomadland al cinema. Magari, Frances, magari: oggi hanno riaperto in tutta Italia tranne a Savona, quindi potevi anche evitare di girare il coltello nella piaga!


Passiamo al Miglior Attore Protagonista e a quella che è stata la vera sorpresa della serata, ovvero l'Oscar ad Anthony Hopkins, il secondo assegnato a The Father dopo essersi aggiudicato quello, meritato, per la Miglior Sceneggiatura Non Originale. Il premio ad Hopkins mi ha riempita di felicità, non solo perché l'attore ha imbroccato la miglior interpretazione da dieci anni a questa parte, commovente ed intensa dall'inizio alla fine, ma anche perché un Oscar postumo a Chadwick Boseman sarebbe stata una vera beffa. Il ragazzo era talentuoso, la sua perdita è grande, ma non avrebbe avuto senso omaggiarlo solo perché morto anzitempo, privando chi è ancora vivo degli onori del caso.


Nel caso cominciaste a preoccuparvi della mancanza di statuette alla marea di film ispirati e pompati dal Black Lives Matter, però, state tranquilli: Daniel Kaluuya (che pareva lì col corpo e altrove con la testa, almeno finché non ha vinto e si è animato durante i ringraziamenti) ha portato a casa l'Oscar per il Miglior Attore Non Protagonista. Tra lui e la co-star Lakeith Stanfield non ho dubbi che la mia preferenza vada a Daniel, tuttavia lasciatemi dire che Judas and the Black Messiah è un film davvero insipido, con una sola caratteristica positiva: è servito ad impedire che l'Oscar per la Miglior Canzone Originale andasse alla Pausini e alla sua ammorbantissima Io sì. Non che Fight for You di H.E.R. mi piacesse, io avrei fatto vincere Husavid, ma evidentemente non l'hanno presa abbastanza sul serio.


Altro motivo di gioia è stato l'Oscar come Miglior Attrice Non Protagonista a Yuh-Jung Youn, attrice famosissima in patria ma snobbata per decenni, come da lei sottolineato durante il discorso di premiazione, dagli USA in generale e dall'Academy in particolare. E' bellissimo come ai coreani non freghi nulla degli Oscar (ha detto anche questo, la meravigliosa signora) e come siano privi di peli sulla lingua. Questo, per inciso, è stato l'unico Oscar andato a Minari, un film che partiva favoritissimo ed è stato tristemente ridimensionato, nonostante fosse un altro dei miei preferiti. 


Purtroppo, come previsto, a rimetterci più di tutti è stato lo splendido Promising Young Woman, che ha vinto "solo" il premio per la Miglior Sceneggiatura Originale. Avrei voluto molto di più per il mio film preferito, ma la gioia di vedere la Fennell in tutta la sua giunonica bellezza è stata grande. 


Grande soddisfazione anche per Un altro giro, ovvero il Miglior Film Straniero. Ammetto di essermi commossa durante il discorso di Thomas Vinterberg, che ha dedicato il premio alla figlia scomparsa poco dopo l'inizio delle riprese.


Scontata la vittoria dell'adorato ed adorabile Soul come Miglior Lungometraggio Animato, a cui l'Academy ha aggiunto il premio per la Miglior Colonna Sonora, che forse io avrei assegnato a Minari. Se dicessi di non essere felice mentirei ma un pezzo enorme del mio cuore è a Kilkenny da anni, alla Cartoon Saloon, e mi avrebbe resa ancora più contenta il riconoscimento, per una volta, a uno studio che fa della tradizione e della magia uno dei suoi punti di forza. Guardatelo Wolfwalkers che è un gioiellino!


Passiamo ora ad un mega riassuntone dei premi "tecnici", dei quali mi intendo ancora meno. Mank vince per la splendida Fotografia e per le raffinate Scenografie, due premi meritatissimi, almeno per quanto mi riguarda. Perplimente l'Oscar per il Miglior Montaggio a Sound of Metal, quando la perizia con cui sono stati realizzati quelli di Promising Young Woman e soprattutto The Father saltava agli occhi persino a me, ma meritatissimo quello per il Miglior Sonoro, la cosa migliore di un film che non mi ha fatta impazzire. Altro film mediocre ed ingiustamente premiato con due premi scippati (quelli sì, altro che Pausini) all'Italia è Ma' Rainey's Black Bottom, al quale, per non farlo rimanere a bocca asciutta, sono state assegnate le statuette per Costumi e Make-Up. Che vergogna, su. Giustamente ridimensionato anche Tenet, candidato solo per i Migliori Effetti Speciali, l'unica cosa notevole di un film bello ma non all'altezza della fama di Nolan. E con questo chiudo, che come al solito vivo nell'ignoranza per quanto riguarda corti e documentari. Ci risentiamo il prossimo anno!

martedì 12 maggio 2020

Red Dragon (2002)

Stranamente, qualche tempo fa è stato il Bolluomo a rimanere ipnotizzato davanti alla TV durante l'incipit di Red Dragon, diretto nel 2002 dal regista Brett Ratner e tratto dall'omonimo romanzo di Richard Harris, e chi sono io per non approfittarne?


Trama: dopo essere quasi stato ucciso da Hannibal Lecter, l'agente FBI Will Graham è costretto a ritornare in servizio, e a ritrovarsi faccia a faccia col cannibale, durante la caccia a un altro serial killer, il cosiddetto Lupo Mannaro.



Bisogna tenere conto di due cose, quando si comincia a guardare Red Dragon, film che ero andata a vedere al cinema proprio nel 2002, in gioiosa ignoranza. Primo, il film è il remake di una pellicola vista milioni di anni fa, Manhunter - Frammenti di un omicidio, che purtroppo non ricordo perché probabilmente ero ragazzina e l'avrò guardata senza la dovuta attenzione (da qui la gioiosa ignoranza che mi accompagnava nel 2002); secondo, il film è una mera operazione commerciale nata sulla scia del successo del libro Hannibal e della pellicola omonima uscita giusto l'anno prima, un'opera realizzata per "completare" l'ideale trilogia iniziata nel 1991 con Il silenzio degli innocenti, e per questo il ruolo di Hannibal Lecter è sensibilmente pompato rispetto a quello del romanzo di Richard Harris, con intere sequenze inventate di sana pianta e debitrici delle scenografie, dei costumi, delle inquadrature e dell'atmosfera del capolavoro di Jonathan Demme. Col quale, beninteso, Red Dragon non è nemmeno parente. Il film di Brett Ratner non è un brutto thriller, anzi, è un ottimo thriller venato d'horror, buono come il materiale di partenza da cui è tratto, ma è incapace di fare quel salto di qualità che condanna lo spettatore ad avere gli incubi la notte e fargli cambiare strada nel malaugurato caso di un incontro con Sir Anthony Hopkins; diciamo che è un thriller "normale" nobilitato da attori grandissimi, che però hanno tutti dato il meglio di sé altrove, e questo vale soprattutto per Philip Seymour Hoffman, ridotto al ruolo di viscido giornalista ciccione. La trama si dovrebbe concentrare su Will Graham, agente dell'FBI col potere di mettersi nei panni dei killer e capirne i ragionamenti contorti, e sull'efferato percorso di elevazione del serial killer Lupo Mannaro (in originale Tooth Fairy, "fata dei dentini", e perché mai in fase di adattamento abbiano cambiato il nome mi è oscuro), ma in realtà ci sono parecchie deviazioni "Lecteriane" che portano il buon dottore a sviare l'attenzione rispetto al killer protagonista e Will Graham a diventare un novello Clarice Sterling, tanto che le scene in cui è presente il Lupo Mannaro parrebbero quasi un riempitivo e il poveraccio una pedina all'interno di uno scontro tra intelletti.


In generale, al film avrebbe sicuramente giovato un po' di personalità in più, ma non è facile quando i modelli sono alti. Rispetto al precedente Hannibal, perlomeno, Red Dragon è molto meno trash (siamo sempre lì: registi e sceneggiatori dovrebbero capire che quello che funziona nel libro non sempre funziona nel film), però sa molto di lavoro fatto in fretta, senza sfruttare appieno le potenzialità di storia e cast e questo si nota soprattutto quando entra in ballo Lecter; sembra quasi, infatti, che i realizzatori avessero in mano un taccuino con elencate tutte le caratteristiche tipiche di eventuali scene con il personaggio e una penna per segnare quello che manca, a mo' di lista della spesa (cena sontuosa e ambigua celo, momento artistico celo, screzio col dottore celo, catene e maschera celo, cella trasparente celo, ecc.), il che rende non solo gli altri personaggi delle macchiette sfumate (e pensare che Reba e il Lupo Mannaro sono pieni di potenzialità!) ma lo stesso Lecter è una figurina all'interno della quale Anthony Hopkins sta stretto e si muove preda della volontà di renderlo molto più cattivo e molto meno affascinante. Dimenticato un Edward Norton dalla terribile tinta bionda, gli unici attori che spiccano davvero all'interno del nutrito e famoso cast sono Ralph Fiennes, che però era molto più inquietante in Spider e qui è penalizzato da un doppiaggio fesso, e una Emily Watson magnetica, che compensa al difetto fisico del suo personaggio con una sicumera tenerissima. Insomma, avendo rivisto Red Dragon dopo quasi venti anni capisco perché del film mi era rimasto poco, tranne un paio di vividi ricordi di un tatuaggio particolarmente ardito accompagnato all'unica scena davvero al cardiopalma dell'intera pellicola. Non male per una serata davanti alla TV senza troppe pretese, ma i veri capolavori sono altri, anche senza l'ausilio di cast grandiosi.


Del regista Brett Ratner ho già parlato QUI. Anthony Hopkins (Hannibal Lecter), Edward Norton (Will Graham), Ralph Fiennes (Francis Dolarhyde), Harvey Keitel (Jack Crawford), Emily Watson (Reba McLane), Mary-Louise Parker (Molly Graham) e Philip Seymour Hoffman (Freddy Lounds) li trovate invece ai rispettivi link.


Anthony Heald ha interpretato il Dottor Chilton già ne Il silenzio degli innocenti (nel caso non fosse stato disponibile si era già pensato di chiedere a Tim Roth), che vedeva nel cast anche Frankie Faison, sempre nel ruolo di Barney (come anche in Hannibal); l'attore ha anche partecipato a Manhunter- Frammenti di un omicidio, il primo adattamento del romanzo Red Dragon. Michael Jackson, grande amico di Bett Ratner, avrebbe voluto il ruolo di Francis Dolarhyde (ruolo offerto invece a Paul Bettany, che ha rinunciato per partecipare a Dogville, ma tra gli altri papabili attori c'erano persino Sean Penn e Nicolas Cage) mentre Frank Langella ha doppiato il Drago ma il monologo registrato dall'attore alla fine non è stato utilizzato. La prima scelta per il ruolo di Will Graham era invece Ethan Hawke (al quale si sono aggiunti Matt Damon e Jeremy Renner), mentre per Freddy Lounds si pensava persino a Jack Black; nel toto-registi è spuntato il nome di Michael Bay. Nonostante sia uscito dopo Il silenzio degli innocenti e Hannibal, Red Dragon è cronologicamente collocato prima ed è il remake di Manhunter - Frammenti di un omicidio; se il film vi fosse piaciuto vi consiglio di recuperare tutte e tre le pellicole e di aggiungere, per completezza, Hannibal Lecter - Le origini del male e la serie Hannibal. ENJOY!

martedì 4 febbraio 2020

I due Papi (2019)

Quest'anno Netflix aiuta parecchio a fare i compiti per gli Oscar. Anche I due Papi (The Two Popes), diretto nel 2019 dal regista Fernando Meirelles e candidato a tre statuette (Miglior Attore Protagonista, Miglior Attore Non Protagonista e Miglior Sceneggiatura Non Originale), si può trovare infatti sulla piattaforma streaming.


Trama: sette anni dopo l'elezione di Ratzinger come Papa Benedetto XVI, l'arcivescovo di Buenos Aires Jorge Bergoglio attende il permesso di potersi ritirare dalla sua carica ma un giorno viene chiamato in Vaticano proprio dal Papa. Lì si confronterà con un uomo che, nonostante la sua carica, non riesce più ad ascoltare la voce di Dio...



Ci ho messo un po' a recuperare I due Papi, perché mi aspettavo una mattonata della peggior specie condita da terrificanti spiegoni moralisti. Invece, dopo aver provato a guardare l'inizio una mattina e aver catturato l'attenzione del Bolluomo, qualche sera fa ci siamo accinti all'apparentemente ingrato compito e devo dire di essermi trovata piacevolmente coinvolta dalle vicende raccontate sullo schermo. Ora, il mio naturale cinismo mi porta a pensare che nessuno dei dialoghi o delle situazioni di convivialità papale si siano svolti in quel modo, però il cinema è finzione e sai che noia se fosse stato riportato qualcosa di più verosimile; detto questo, è interessante il confronto tra due figure che non potrebbero essere più diverse tra loro, quella del Papa Emerito Benedetto XVI e quella dell'attuale Papa Francesco. Partendo dallo scandalo denominato "Vatileaks" e dal clima conservatore all'interno della Chiesa, estremizzato dal "Rottweiler di Dio", I due Papi contestualizza la sua storia in un clima di rottura, in un periodo in cui i fedeli tendevano ad allontanarsi da una Chiesa incapace di abbracciare il rinnovamento e si mostrava come un'istituzione indegna di fiducia, tanto da spingere l'arcivescovo Bergoglio a ritirarsi dalla carica per seguire le sue idee più liberali e aperte. Consapevole di essere parte del problema eppure non ancora convinto delle capacità di Bergoglio, Benedetto XVI lo convoca in Vaticano rimandando l'approvazione del ritiro tanto bramato e il film, di fatto, può essere descritto come un lungo "colloquio di lavoro" in cui Ratzinger cerca di capire non solo se Bergoglio possa essere l'uomo giusto per rinvigorire una Chiesa morente, ma anche come poter venire aiutato da lui, in senso pratico e spirituale. Il risultato è un coinvolgente ritratto di due esseri umani (prima ancora che di due Papi), entrambi dotati di pregi ma anche di moltissimi difetti, e se Ratzinger rischia di essere quello connotato più negativamente, è anche vero che la sceneggiatura non sorvola sulle macchie celate nel passato del più amabile Bergoglio e sulle azioni da lui compiute durante la dittatura militare in Argentina negli anni '70, facilmente passabili per "collaborazionismo" col regime.


Buona parte del merito relativo alla riuscita dell'operazione va, ovviamente, ai due attori. Lontani dall'essere due caricature alla Tale e quale show o la sagra del cosplay senz'anima, sia Jonathan Pryce (aiutato da una somiglianza naturale) sia Anthony Hopkins calzano i panni dei Papi con naturalezza e spontaneità, tirando fuori la loro umanità senza lesinare una dose di ironia; il contrasto tra Ratzinger, l'uomo solitario e "aristocratico", nato e cresciuto per essere uno studioso prima ancora che un ambasciatore di fede, e un Bergoglio che ha sempre vissuto tra la gente ed è stato costretto, a un certo punto suo malgrado, ad essere il più umile tra gli umili, è il motore su cui si regge il film e i due attori sono molto abili ad enfatizzarlo senza risultare pedanti o forzati. Interessante anche la tecnica di regia di Meirelles, di cui non avevo mai visto un film prima de I due papi. Il suo stile si avvicina spesso al documentario e, da quello che mi è parso di capire, il regista ha scelto più volte di utilizzare non solo i droni ma anche la camera a mano, come se non stesse realizzando un'opera di finzione ma si trovasse davanti i due Papi in persona e dovesse consegnare un documento ai posteri; la cosa è un po' straniante, anche perché tutti gli ambienti vaticani sono stati ricostruiti al computer per mancanza di autorizzazioni (nemmeno avessero chiesto i luoghi veri per girarci un horror... cambia il Papa ma la Chiesa continua ad essere ridicola, con tutto il rispetto) e così si ha una combinazione di riprese "artigianali" e tecniche più moderne che, a pensarci bene, rispecchiano il cuore del contrasto tra i due protagonisti, oltre a rendere l'opera più dinamica. Insomma, mi aspettavo di addormentarmi dopo cinque minuti, invece I due Papi mi ha soddisfatta. A mio avviso non c'è trippa per Oscar (con tutto il bene che voglio a Pryce e Hopkins) ma ne consiglio comunque la visione.


Anthony Hopkins (Joseph Ratzinger/Papa Benedetto XVI), Jonathan Pryce (Jorge Bergoglio/Papa Francesco) e Libero De Rienzo (Roberto) li trovate ai rispettivi link.

Fernando Meirelles è il regista della pellicola. Brasiliano, ha diretto film come City of God e The Constant Gardener - La cospirazione. Anche produttore, sceneggiatore e attore, ha 65 anni.


mercoledì 4 settembre 2019

Bolle di Ignoranza: Premonitions (2015)

Seconda "recensione" ignorante di un film beccato per caso durante la vacanza sul Lake District. La struttura del post sarà un po' atipica per questa rubrica, perché lì per lì pensavo avrei avuto molto da dire sul film ma è vero che per buona parte di esso l'ho seguito con un occhio sullo schermo e un altro all'organizzazione della giornata successiva, quindi mi sarò sicuramente persa dei passaggi e, insomma, mi sembrava poco corretto proseguire normalmente. Ma bando alle ciance, ecco a voi Premonitions (Solace), diretto nel 2015 da Afonso Poyart.


Trama: l'ispettore Joe Merrywether chiede aiuto all'ex detective John Clancy, dotato di poteri psichici, per scovare ed arrestare un pericoloso serial killer...


All'epoca dell'uscita di Premonitions avevo vagamente avuto sentore che il genere potesse interessarmi ma alla fine o non era uscito a Savona o c'erano altri film da vedere oppure avevo letto recensioni tiepidissime che mi avevano fatta desistere. Effettivamente, Premonitions non è un film da vedere a tutti i costi, eh. Intanto succede una cosa bruttissima quasi all'inizio che, mannaggiallamorte, mi ero messa a guardare il film per UN motivo e quel motivo è venuto meno dopo nemmeno mezz'oretta, poi c'è almeno un personaggio inutile, quello interpretato da Abbie Cornish, mero oggetto del contendere di due persone dotate di poteri speciali e una diversa visione del mondo. E poi, beh... poi c'è l'idea scellerata che sta alla base di Premonitions, ovvero quella di farlo nascere come SEQUEL (gesù) di Se7en e si vede dal modo in cui il villain del film (introdotto, come già accadeva nel film di Fincher, ben oltre metà pellicola) si ingegna per portare al lato oscuro il povero Anthony Hopkins in virtù di desideri autodistruttivi che partono da un presupposto condivisibile portato avanti nella peggiore delle maniere: ci sta che qualcuno, mosso da manie di grandezza, decida di porre fine alla sofferenza dei malati terminali, ma perché Cristo lo devi fare con metodi da serial killer, quando basterebbe chiedere alle persone in questione che magari, in maniera dolce e tranquilla, vorrebbero anche una mano a suicidarsi nel momento di massimo dolore? Invece i due protagonisti si parlano addosso per ore, facendo a gara a chi è più fico e intelligente, tra una visione e l'altra di futuri possibili e disastrosi (ecco, si vede che Afonso Poyart ci teneva molto a far vedere di essere bravo e visionario vista la cura messa in ognuno dei flash di chiaroveggenza mostrati nel film, peccato che ci metta anche troppo impegno e a tratti pare di guardare un video fighetto girato negli anni '90) e le espressioni intense di chi sa ma vorrebbe non sapere oppure non sa e gli girano le balle. Alla fine, per come l'ho visto io, direi comunque che il film intrattiene ma, anche ad una visione distratta, mi è parso che qualcosa non andasse quindi non so cosa sarebbe uscito fuori in questo post se lo avessi guardato con attenzione. Probabilmente lo avrei stroncato, così invece direi che per una serata di thriller disimpegnati possa anche andare bene... peccato per il cast, ché una volta i film con Anthony Hopkins non si potevano liquidare in questa maniera vile ed ignorante.


Di Anthony Hopkins (John Clancy), Jeffrey Dean Morgan (Joe Merriwether), Abbie Cornish (Katherine Cowles) e Colin Farrell (Charles Ambrose) ho già parlato ai rispettivi link.

Afonso Poyart è il regista della pellicola. Brasiliano, ha diretto altri due film a me sconosciuti, tra cui Il più forte del mondo. Anche produttore, sceneggiatore e attore, ha 40 anni.


Premonitions avrebbe dovuto essere il seguito di Se7en, con Morgan Freeman nuovamente nei panni del Detective Somerset MA con poteri psichici. Ovviamente, David Fincher ha rispedito l'idea al mittente e il film è diventato un'opera a sé stante; a un certo punto si pensava che il film avrebbe potuto essere diretto da Shekhar Kapur, con Bruce Willis come protagonista, ma anche lì, nulla di fatto. Comunque, a questi punti vi consiglio il recupero di Se7en, se non altro guarderete un bel film! ENJOY!

mercoledì 28 febbraio 2018

Autobahn - Fuori controllo (2016)

L'anno scorso è arrivato in Italia Autobahn - Fuori controllo (Collide), diretto e co-sceneggiato nel 2016 dal regista Eran Creevy. Un po' per gli attori, un po' per il titolo, un po' per volontà di guardare un film poco impegnativo l'ho recuperato e questo è il risultato...


Trama: quando alla fidanzata viene diagnosticata una grave malattia, il giovane Casey Stein si ritrova a necessitare dei soldi per un trapianto e si rimette quindi al servizio di un signorotto della droga tedesco che vorrebbe derubare il proprio capo...



Autobahn - Fuori controllo è talmente inutile e, paradossalmente, noioso che non merita neppure i due paragrafi standard che normalmente dedico persino ai film più scrausi. Non che di solito mi esalti all'idea di vedere interminabili inseguimenti in autostrada e macchine che vengono devastate neanche fossero delle Micromachines tarocche chinesi ma, probabilmente, se fosse stato interamente ambientato nella Autobahn del titolo italiano mi sarei divertita di più. Invece, forse per giustificare il cachet preteso da due ex mostri sacri quali Anthony Hopkins (la cui idea di criminale tedesco si concretizza in un alternarsi di sguardi allucinati, sussurri minacciosi ed improvvise grida) e Ben Kingsley (la cui idea di criminale turco si concretizza in un tamarro drogato e circondato da tsoccole che vive dentro un camper glitterato) sono stata persino costretta ad assistere agli imbarazzanti monologhi di due boss della mala, soporiferi come non mai. Morfeo mi ha avvinta anche grazie alla storia d'amore che da il via a tutto, sarà perché tra Nicholas Hoult e Felicity Jones c'è la stessa alchimia che passerebbe tra il figlio buliccio di Immortan Joe e una femmina di wookie o perché la parrucca messa in testa all'attrice credevo l'avessero resa illegale dopo Pretty Woman, chissà, sta di fatto che mi sono ritrovata spesso e volentieri a ripensare all'amatissimo True Romance, a Cuore selvaggio, persino a Natural Born Killers, con coppie realmente portate alla follia da un colpo di fulmine bellissimo e coinvolgente, altro che 'sti due molluschi. Insomma, ho pensato talmente tanto ad altri film che alla fine me ne sono fatta uno nella mia testa e mi sono mezza addormentata, con buona pace di questo emulo fighètto di Fast and Furious dal quale vi consiglio di stare allegramente alla larga, soprattutto se siete fan di Hopkins e Kingsley (finiranno mai loro e De Niro di girare film a scopi alimentari? Speriamo!).


Di Nicholas Hoult (Casey Stein), Felicity Jones (Juliette Marne), Anthony Hopkins (Hagen Kahl) e Ben Kingsley (Geran) ho già parlato ai rispettivi link.

Eran Creevy è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Inglese, ha diretto film come Shifty e Welcome to the Punch - Nemici di sangue. Ha 41 anni.


Zac Efron, nonostante sia un povero pirla, ha comunque subodorato la stronzata e ha rifiutato il ruolo di Casey Stein, che è di fatto passato a Hoult (ma perché?) e lo stesso vale per Amber Heard, che ha lasciato cavallerescamente il posto alla Jones. Detto questo, se Autobahn - Fuori controllo vi fosse piaciuto recuperate True Romance che è molto ma molto meglio. ENJOY!

martedì 14 novembre 2017

Thor: Ragnarok (2017)

Ho rimandato la visione di due settimane, poi hanno vinto la pignoleria e il "dovere di completezza" e domenica sono finita a vedere Thor: Ragnarok, diretto dal regista Taika Waititi. Anche se l'avete già visto tutti il post è SPOILER FREE, ovviamente.


Trama: Thor torna su Asgard solo per vederla cadere in mano a Hela, dea della morte, e perdere martello e poteri. Esiliato su un pianeta governato da un folle schiavista, il Dio del Tuono incontra Hulk e medita vendetta...


Di Thor: Ragnarok avevo letto le peggio cose, la più lusinghiera delle quali era la definizione "Natale a Sakaar/Asgard", per non parlare dell'istintivo disgusto all'idea di sentire chiamare Thor "Zio del Tuono" in più di un'occasione (in originale credo sia semplicemente Sparkles ma potrei sbagliarmi), due cose che mi avevano tenuta ben lontana dalla sala. Ho sentito poi di amici che si sono divertiti molto, altri moltissimo, e in generale ero curiosa di capire cosa avrebbe potuto combinare il folle Taika Waititi all'interno del Marvel Universe, quindi alla fine sono andata al cinema, benché con il cuore carico di tristi presagi. E ora, sinceramente, non so che dire di questo Thor: Ragnarok, perché la mia anima è fondamentalmente spaccata in due, quindi sarebbe meglio fare un po' di chiarezza prima di venire ricoperta di guano da sostenitori e detrattori "estremisti" del terzo capitolo della saga iniziata sei anni fa nel segno di Kenneth Branagh. Innanzitutto, e probabilmente l'ho già scritto negli altri post, a me di Thor come personaggio non è mai fregato una benemerita, così come del resto di tutti i Vendicatori, beninteso; che lo trasformino in donna, rana o imbecille che inanella una figura di tolla dietro l'altra poco m'importa, apprezzo la visione in deshabillé di Chris Hemsworth, il taglio corto che gli da un che di sbarazzino, asciugo la bava e passo oltre. Lo stesso vale, ça va sans dire, per tutto il carrozzone di personaggi che il titolare si porta appresso, gente che ho conosciuto giusto guardando i film precedenti oppure giocando al defunto e compianto Avengers Alliance su Facebook. Non conosco la mitologia della Asgard versione Marvel quindi ho poca confidenza con Hela, quella roba fiammeggiante che risponde al nome di Surtur (il gran figlio di bagascia, per la cronaca) e neppure il Gran Maestro, se è per questo, e l'idea che stavolta siano state liquidate sia Sif che Jane Foster, la prima senza un perché la seconda con un "t'ha mollato, eh?", non ha causato in me né gioia né rabbia. Tutto questo giro intorno al mondo per dire che l'idea di stravolgere completamente Thor e farne un personaggio più ironico de I guardiani della Galassia, confezionando un film dalla trama semplicissima e molto diretta (i cattivi sono cattivi, i buoni sono buoni ma in generale fanno tutti ridere) con un'infinità di rimandi ai vecchi buddy movies, gli sci-fi supercazzola (Goldblum non l'hanno messo a caso, dai) e i film d'avventura anni '80 poteva anche starci. Ho trovato quest'approccio molto più sensato rispetto all'intestardirsi a dare un colpo al cerchio e uno alla botte, tenendosi il personaggio serio ma infilando qualche momento comico a casaccio "perché sì", sfruttando vecchi svedesi in mutande o nudi. Qui hanno buttato tutto in caciara fin dai trailer e perlomeno stavolta abbiamo avuto un film coerente dall'inizio alla fine, il problema è che in Thor: Ragnarok la comicità è spesso infantile, demenziale, fuori contesto, reiterata, asfissiante, inserita a forza anche quando proprio non sarebbe stato il caso e, dal mio umile punto di vista di chi vede i film Marvel una volta e ormai se li dimentica il giorno dopo, arriva a dare interpretazioni assurde di personaggi come Loki o Bruce Banner, uno sacco da punchball "di ridere", l'altro isterico che si ravana il pacco perché i pantaloni sono stretti, vi lascio la sorpresa di capire chi sia cosa.


Con me la via dell'ilarità a tutti i costi non ha quindi proprio attecchito, vuoi perché sono vecchia o vuoi perché al terzo "Zio del Tuono" le mie orecchie hanno cominciato a secernere sangue, oppure sarà perché quando un malvagio ti sta parlando TU APRI LE ORECCHIE E ASCOLTI TUTTE LE BELINATE CHE HA DA DIRE, non che giochi al salame appeso interrompendolo per due volte, santo Odino (l'altro buono. Hopkins non fa più un film decente da anni, l'ormai old fart britannica dichiara inorridita che MAI più parteciperà a pellicole su Thor poi passa alla cassa per una comparsata da 5 minuti perché "oh, lo script era validissimo!!". Ma vai a prendertela nel passaggio dimensionale e corri subito a lezione di coerenza da Natalie Portman, fila. Vecchiaccio guercio), però devo anche dire che Thor: Ragnarok è bellissimo dal punto di vista del ritmo, della regia, del delirio anni '80 che rende praticamente ogni scena un trip psichedelico. Il meglio di sé Taika Waititi lo da sul pianeta Sakaar, un luogo troppo assurdo per essere vero, pericolosissimo ma giocoso come un qualsiasi mondo assassino creato dal pazzo Arcade: tra la spazzatura che cade dall'alto rischiando di accoppare gli astanti e quelle creature in odore di Star Wars, passando per il tunnel dentro cui risuona Pure Imagination, arrivando all'assurdità di una cella dove spazio e tempo non esistono, giochi laser che nemmeno in discoteca, prospettive ribaltate e giochi di specchi, per finire con la sboronata di un inseguimento su navicelle spaziali adibite a boudoir e scoppiettanti di fuochi d'artificio, mi veniva voglia di non tornare mai più ad Asgard, anche perché il personaggio migliore della pellicola, diciamolo, è il buliccissimo e assurdo  Gran Maestro di Jeff Goldblum (affiancato da Rachel House. Più Rachel House per tutti, vi prego, altro che strafighe beone). Per carità, ad Asgard ci sono scheletri semoventi, un ponte arcobaleno mai così kitsch, morte e distruzione in quantità tali da poter ridere in faccia ai primi due Thor e a buona parte del franchise Marvel, oltre alla bella Cate Blanchett che si è palesemente divertita ad interpretare Hela, però, anche lì, zero pathos, zero serietà, zero empatia con un intero popolo a rischio sterminio, un sacco di risate a vedere Idris Elba imparruccato... mah. Insomma, per una volta non so davvero cosa pensare. Come ho scritto su Facebook, mi sento come il tizio che deve respingere la ragazza che gli hanno presentato e, per non ferire i sentimenti degli amici che ne dicono ogni bene si ritrova a dover dire "Non è che non mi piaccia, per carità. Non è bella però ha personalità. E' simpatica, via. Non è lei, sono io." Il film di Waititi ha una SPICCATA personalità, si innalza nel mare delle produzioni Marvel come solo Guardiani della Galassia e, in parte, Doctor Strange erano riusciti a fare e sicuramente lo rimpiangerò a febbraio dopo il probabile piattume di Pantera Nera (altro personaggio Marvel di cui fregaca**i)... ma non riesco a definirlo bello ora come ora, mi spiace. In compenso mi è tornata la voglia di rivedere sia What We Do in the Shadows sia Buckaroo Banzai o Le ragazze della terra sono facili e di farli vedere per la prima volta a Mirco e questo non è mai un male!


Del regista Taika Waititi, che presta anche la voce a Korg e il corpo a Sultur, ho parlato già QUI. Chris Hemsworth (Thor), Tom Hiddleston (Loki), Cate Blanchett (Hela), Idris Elba (Heimdall), Jeff Goldblum (Gran Maestro), Tessa Thompson (Valchiria), Karl Urban (Skurge), Mark Ruffalo (Bruce Banner/Hulk), Anthony Hopkins (Odino), Benedict Cumberbatch (Doctor Strange), Clancy Brown (voce di Surtur), Tadanobu Asano (Hogun), Ray Stevenson (Volstagg), Zachary Levi (Fandrall), Sam Neill (attore Odino) e Matt Damon (non accreditato, è l'attore che interpreta Loki) li trovate invece ai rispettivi link.


Rachel House, che interpreta Topaz, aveva partecipato ad un paio di episodi di Wolf Creek e prestato la voce a Nonna Tala in Oceania mentre Luke Hemsworth, fratello di Chris, interpreta il falso Thor nella scenetta teatrale all'inizio; ovviamente, nel film compare anche Stan Lee, stavolta nei panni di barbiere. Sif avrebbe dovuto comparire nel film ma Jaimie Alexander era impegnata nelle riprese della serie Blindspot e il suo personaggio è stato conseguentemente "spedito in missione". Oltre a dirvi di rimanere seduti in sala fino alla fine dei titoli di coda, ché le scene post credits sono due, nell'attesa che esca Avengers: Infinity War, dove tornerà Thor, facciamo il solito ripasso dei film da vedere per ingannare il tempo: intanto vi consiglio di recuperare di sicuro ThorThor: The Dark WorldThe AvengersAvengers: Age of Ultron  e Doctor Strange poi magari aggiungete Iron ManIron Man 2 Captain America - Il primo vendicatore, Iron Man 3 Captain America: The Winter SoldierGuardiani della galassia Ant-ManCaptain America: Civil War, Guardiani della Galassia vol. 2 e Spider-Man: Homecoming. ENJOY!



domenica 15 dicembre 2013

Hitchcock (2012)

Piano piano sto recuperando tutti quei film meritevoli che, nonostante questo, non hanno mai trovato distribuzione dalle mie parti e questa volta è toccato al bellissimo Hitchcock, diretto nel 2012 dal regista Sacha Gervasi e tratto dal libro Alfred Hitchcock and the Making of Psycho di Stephen Rebello.


Trama: dopo Intrigo internazionale, Alfred Hitchcock trova una nuova fonte d'ispirazione nel libro Psycho di Robert Bloch. Osteggiato da produttori e giornalisti, indebitato e totalmente immerso nel lavoro, non si accorge di quanto la moglie Alma si stia allontanando da lui...


Hitchcock è un film interessantissimo e frizzante, sia per gli appassionati di Hitch che per chi vuole gustarsi un'ora e mezza di sano intrattenimento cinematografico, magari imparando qualcosa su uno dei massimi esponenti della settima arte. Mescolando episodi legati alla vita privata del regista, una ricostruzione del making of di Psyco e le inquietanti suggestioni di un Ed Gein negli inediti panni di Grillo Parlante, Hitchcock pone sotto i riflettori una parte assai importante e difficile della carriera del Maestro della Suspance, un momento in cui al successo si accompagnano le inevitabili incertezze, il timore di sbagliare, la paura di diventare mero fenomeno commerciale svilito da un'avventura televisiva di successo, un attimo di crisi derivata dalla vecchiaia e dal desiderio di risvegliare sensazioni sopite alimentandole con la fantasia. Nella pellicola, infatti, Hitchcock comincia a perdere progressivamente il contatto con la realtà com'era accaduto ad Ed Gein e Norman Bates (meravigliosa la scena in cui, davanti a una Vivien Leigh urlante e terrorizzata, sfoga tutta la sua rabbia mostrando alla troupe come girare la famosa sequenza della doccia), terrorizzato dall'idea di venire tradito e abbandonato da tutti, attrici, moglie, pubblico, critici. Un indebolimento mentale che si accompagna ad una debolezza fisica manifestata nella febbre e nella fame compulsiva e che mostra un Hitchcock terribilmente imperfetto e molto più umano dell'ironica e sarcastica "sagoma" che, come spettatori, siamo arrivati a conoscere.


Ed è bello, finalmente, fare anche la conoscenza di Alma, la grande donna dietro un grande uomo e, forse, la vera protagonista del film, interpretata da una grandissima Helen Mirren che più di una volta eclissa il pur bravissimo Anthony Hopkins (truccato così bene che il film è stato candidato all'Oscar per il miglior make-up). Alma è una capacissima donna con tutti gli attributi necessari per sostenere l'ingombrante (in tutti i sensi) marito e, a quanto pare, è anche la mente che ha trasformato una pellicola schifata persino da Hitchcock nello Psyco che tutti noi conosciamo e amiamo; all'interno del film possiamo vedere come la crisi creativa e umana che ha colpito il marito ricada pesantemente anche su Alma, costantemente messa in ombra dalla fama del consorte o dall'insana passione di quest'ultimo per le bionde star dei suoi film. Nel corso della pellicola, Alma cerca di ritrovare una sua indipendenza allontanandosi da Hitchcock e trovando conforto in un Danny Huston sempre più a suo agio nei panni del viscido piacione, ed è buffo e molto commovente vedere come due persone che si conoscono e si aiutano a vicenda da anni arrivino a non capirsi più, ad evitarsi o parlarsi solo tramite feroci punzecchiature reciproche. Alla crisi coniugale corrisponde un terribile momento di empasse nel corso della realizzazione di Psyco e ad un conseguente calo della qualità del lavoro di Hitchcock e il regista Sacha Gervasi è molto bravo a giostrare queste due anime del film senza scadere nel melodramma sentimentale o nel freddo documentario, facendoci così affezionare ai due testardi protagonisti e intrigandoci con i retroscena di un Capolavoro del cinema che, per quanto sia conosciuto, nasconde comunque molti segreti. La presenza di un cast affiatato e valido e l'ironica cornice alla Alfred Hitchcock Presenta, infine, contribuiscono a rendere Hitchcock un gioiellino ancora più prezioso, che vi consiglio di recuperare il prima possibile.


Di Anthony Hopkins (Alfred Hitchcock), Helen Mirren (Alma Reville), Scarlett Johansson (Janet Leigh), Danny Huston (Whitfield Cook), Toni Collette (Peggy Robertson), Jessica Biel (Vera Miles), James D’Arcy (Anthony Perkins) e Kurtwood Smith (Geoffrey Shurlock) ho già parlato ai rispettivi link.

Sacha Gervasi è il regista della pellicola. Inglese, prima di Hitchcock ha diretto solo il documentario Anvil: The Story of Anvil. Anche sceneggiatore e produttore, ha 47 anni. 


Michael Wincott (vero nome Michael Anthony Claudio Wincott) interpreta Ed Gein. Canadese, lo ricordo per film come Talk Radio, Nato il quattro luglio, The Doors, Robin Hood – Principe dei ladri, I tre moschettieri, Il corvo, Dead Man e Alien – La clonazione; inoltre, ha partecipato a serie come Miami Vice. Ha 55 anni e due film in uscita. 


Tra gli altri attori compare anche, nei panni dello sceneggiatore Joseph Stefano, l’ex Karate Kid Ralph Macchio. Andrew Garfield invece era stato convocato per il ruolo di Anthony Perkins ma ha dovuto rinunciare per i suoi impegni teatrali. Detto questo, se Hitchcock vi fosse piaciuto recuperate ovviamente i film del corpulento maestro della suspance e magari anche Ed Wood e Il discorso del re! ENJOY!

domenica 1 dicembre 2013

Thor: The Dark World (2013)

"Nora, Merlo, siete sempre in ritardo, ecchecca..."
"Dai, ragazzi, muoviamoci che mancan cinque minuti all'inizio di Thor: The Dark World!"
"Belin, ma è in treddì?"
"Occristo, sì.... Che due marroni. E vabbé, ormai ci siamo..."

Come avrete evinto, domenica scorsa sono andata a vedere Thor: The Dark World, diretto dal regista Alan Taylor. Con qualche convinzione derivata dalla visione di Thor e qualche dubbio derivato dalla lettura di recensioni assai migliori di quella che sarà la mia…


"Ma che è sta roba?"
"Che c'entra l'Iter? Ma non è Aehter?"
"Oddio Malekith!! Quello si chiama Malekith!! Bwahahaahh!!!"
"E quelli? Sono i Teletubbies?"
"No, sono dei mimi anni '50. Che tenerezza, hanno le orecchiette!"

Trama: Thor e compagnia stanno riportando la pace ad Asgard e negli altri Regni, mentre la povera Jane Foster langue per la mancanza del Dio norreno. Insomma, tutto sembra tranquillo almeno finché la dottoressa non rinviene l’Aether, la potentissima arma che già una volta aveva quasi consentito agli Elfi Oscuri capitanati da Malekith di distruggere interi mondi…

"Stellan Skarsgard è nudo. ARGH! Ma perché?"
"Adesso è in mutande"
"Ah beh"
"Quello è Stan Lee"
"E quello è Sir Anthony Hopkins. Non ci crede più nemmeno lui, poveraccio".


"Ooh il martello! Va che roba! Ma da dove gli arriva? Dove lo tiene quando non combatte?"
"Nella gnagna di Miley Cyrus"
"Ahahahahahaahhahah!!"

Sono sincera. A parte gli addominali di Chris Hemsworth, il bel funerale vichingo, la "rivelazione" finale e i meravigliosi disegni nei titoli di coda, di Thor: The Dark World non ricordo quasi più nulla perché, purtroppo, è un film che sul nulla si regge. La pellicola avrebbe potuto tranquillamente ridursi alla mera parte centrale, quella in cui la presenza di Loki è un pochino più cospicua e, soprattutto, utile, una cosa che dura più o meno un quarto d’ora. E non lo dico perché mi piace Tom Hiddleston, non faccio parte dello zoccolo duro delle Hiddlestoner o come diavolo si fanno chiamare, sebbene l’attore inglese sia affascinante da morire e l’unico in grado di dare un minimo di profondità al personaggio: il problema è proprio che, a livello di sceneggiatura, non c’è nient’altro di interessante e, peggio ancora, Thor: The Dark World, sotto tutti i suoi mirabolanti effetti speciali, è privo di un’identità precisa. Comincia come la versione menosa de Il signore degli anelli, continua come Guerre Stellari e finisce (o, meglio, vorrebbe finire) come The Avengers ma il problema è che ai comandi non c’è Joss Whedon (nonostante ci abbia messo del suo quando Loki imita Capitan America pare) e, soprattutto, quest’ultimo tentativo di svolta umoristico/CCioFfane risulta un po’ improbabile.

"Bolla, ma come minkia si chiama quella?"
"Boh, mi ricordavo Frigga ma qui la chiamano Figa, Frega... ma che ti frega, tanto faceva la carta da parati nell'altro Thor."


"Che palle di film... Bolla, ricordami perché sono venuta a vederlo."
"Non lo so, devo già capire cosa ci faccio io qui. Certo che Kenneth Branagh..."
"Alé, pure il bambino col giochino."
"Allora, ho capito che il ragazzino è scoglionato, ma almeno la suoneria la togliamo? Grazie."

Vedete cosa intendo? Immaginate, per tutto il film, che quei pochi momenti epici o drammatici o anche solo vagamente interessanti vengano interrotti da quelle che in gergo chiamano gag ma che io chiamo ca**ate o “momento Ciccio Bastardo”: ricordate quando, negli ultimi due Austin Powers, Ciccio Bastardo raccontava i suoi tristi problemi esistenziali… e concludeva il tutto con una bella scoreggia? Ecco, Thor: The Dark World è interamente retto da momenti simili, senza soluzione di continuità tra serio e faceto. Tra l’altro l’unico, vero, inutile momento comico in grado di strappare una vera risata spunta dopo i titoli di coda (non in mezzo, proprio alla fine, non fate come TUTTI quelli che si sono alzati alla prima scena post credit, perché ormai lo sa persino l’ultimo streppone della Terra che ce ne sono DUE di scene) ma, anche lì, lascia in bocca quel simpatico retrogusto di fregatura messa lì solo perché ci DEVONO essere delle scene dopo i titoli di coda altrimenti non abbiamo visto un film Marvel.

"Ah, che bel momento dramma... e no ca**o, Stellan Skarsgard è di nuovo in mutande!!"
"No ma complimenti per il montaggio! La prossima volta mettete direttamente la dissolvenza con la stellina..."
"Bolla, scusa, ma perché sono a Greenwich? Cosa vanno a fare lì?"
"Nora è la convergenza... sì perché i pianeti, sai... er ... Malekith!!!"
"Bwahahahah chenomedimmm... Malekith! Ciao, guardami, sono Malekith!"
"ALLORA, LA SMETTIAMO CON 'STO GIOCHINO???"


Poi, per carità, il fumettone c’è e meno male perché, come mi successe ai tempi di Capote, serve a un certo punto il colpo di pistola che ti risveglia dall’assopimento oppure sai che dormita! Messo da parte l’approccio poco zamarro di Kenneth Branagh che, si sa, è uno snob e nel suo Thor aveva preferito concentrarsi un po’ più sui dialoghi e sui confronti tra i personaggi piuttosto che sulle mazzate, è stato giustamente chiamato Alan Taylor che, invece, si è profuso in adrenaliniche scene zeppe di effetti speciali della madonna, scenografie grandiose con il ponte arcobaleno rifatto, botte da orbi, visioni virate in rosso, il finale con tanto di confini spaziali che si annullano consentendo così balzi continui da un universo all’altro con dovizia di vomitazio per la sottoscritta e, ovviamente, l’importante monumento/città distrutti per giustificare la presenza di un Eroe a proteggere l’umanità. Biondoooo! Biondoooooo!! Mi hai scassato mezza Londra, che il Signore ti camalli! Proteggiti Asgard che “hai mancato una colonna!”, ah-ha. E non dimentichiamo l’approccio maschilista di Branagh! In Thor: The Dark World invece le donne rialzano la testa e reclamano fiere il loro ruolo di protagoniste, con l’ex carta da parati Rene Russo che viene messa a tacere per la legge di The Walking Dead, Natalie Portman che piglia a schiaffi gli dei quando per la scemenza del personaggio, semmai, sarebbe lei quella da prendere a ceffoni, e Kat Dennings che acquista maggiore importanza grazie ad un comprimario ancora più sfigato e inutile di lei. Bello bello, come no. Ridatemi Scarlett Johansson, Branagh, Whedon e Robertino mio bello, che è meglio.

"Noruzza, ma che fine ha fatto Odino quindi?"
"Ma che ca**o me ne frega...."


Del regista James Gunn (che ha diretto solo la scena post credit e che aspetto al varco con quello che potrebbe essere un trashissimo, meraviglioso Guardians of the Galaxy!) ho già parlato qui. Chris Hemsworth (Thor), Natalie Portman (Jane Foster), Tom Hiddleston (Loki), Anthony Hopkins (Odino), Stellan Skarsgård (Erik Selvig), Idris Elba (Heimdall), Rene Russo (Frigga) Tadanobu Asano (Hogun), Alice Krige (Eir), Clive Russell (Tyr) e i non accreditati Benicio Del Toro (il Collezionista) e Chris Evans (Capitan America) li trovate invece ai rispettivi link.

"Bolla ma quello alla fine era quello di Chuck?"
"Che è Chuck?"
"Ma sì dai è lui. Bolla, dimmi un po' come si chiama"
"Ma Zachary Levi dici?"
"No Bolla, quello di Chuck"
"..."

Alan Taylor è il regista della pellicola. Americano, ha diretto film come I vestiti nuovi dell'imperatore ed episodi delle serie Oz, Six Feet Under, Sex and the City, Lost, I Soprano e Il trono di spade. Anche produttore e sceneggiatore, ha 48 anni e un film in uscita, Terminator (!).

 
Christopher Eccleston interpreta Malekith. Inglese, ha partecipato a film come Piccoli omicidi tra amici, Elizabeth, eXistenZ, The Others, 28 giorni dopo e a serie come Doctor Who Heroes. Ha 49 anni e un film in uscita.


Zachary Levi (at last!) interpreta Fandral al posto di Josh Dallas, impegnato sul set della serie Once Upon A Time. Americano, ha partecipato ALLA SERIE CHUCK, Perfetti ma non troppo e ha lavorato come doppiatore in Alvin Superstar 2, Rapunzel - L'intreccio della torre e Robot Chicken. Anche regista e produttore, ha 33 anni.


Tra gli altri attori, segnalo la presenza dell'impronunciabile Adewale Akinnuoye-Agbaje (l'elfo nero Algrim) che, in Lost, interpretava Mr. Eko mentre il solito, immancabile Stan Lee è il vecchietto che in manicomio presta una scarpa a Stellan Skarsgard; rimanendo in tema "attori seri costretti a fare i cretini", ringraziamo la Madonna e gli impegni con la serie Hannibal o Mads Mikkelsen si sarebbe sputtanato la carriera interpretando Malekith. Passiamo ora al regista: Natalie Portman vi è sembrata svogliatella? Certo, perché dietro la macchina da presa avrebbe dovuto esserci la regista Patty Jenkins, che alla fine ha rinunciato per "divergenze creative", e l'attrice ci è rimasta così male che, non fosse stato per il contratto che prevedeva il suo ritorno nei sequel, avrebbe dato forfait senza pensarci un istante. E invece anche lei è rimasta a nel variopinto universo cinematografico Marvel che, al netto dei film mutanti, al momento comprende L'incredibile Hulk del 1998, Iron Man, Iron Man 2, Thor, Capitan America - Il primo Vendicatore, The Avengers, Iron Man 3la serie Agents of S.H.I.E.L.D. e gli imminenti Capitan America: The Winter Soldier, Guardians of The Galaxy (introdotto dalla prima scena post credits di Thor: The Dark World) e The Avengers: Age of Ultron. Ovviamente, se Thor: The Dark World vi fosse piaciuto recuperate tutto. ENJOY!

* P.S.: Ogni dialogo, per quanto idiota, è stato riportato fedelmente.






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