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martedì 16 marzo 2021

Recensione: Latte arcobaleno, di Paul Mendez

| Latte arcobaleno, di Paul Mendez. Atlantide, € 18. pp. 412 |

In Moonlight, il film premio Oscar di Berry Jenkins, i tre stadi della giovinezza del protagonista – vissuta tra razzismo, omosessualità e degrado – venivano mostrati attraverso una metamorfosi. Nel corso della visione, infatti, si avvicendavano ben tre attori per dare carne a Chiron: un'anima fragile prigioniera di una tentacolare giungla urbana. Succede qualcosa di simile al protagonista di Latte arcobaleno, straordinaria opera prima con un personaggio parimenti tormentato. In cerca del proprio centro di gravità, anche Jesse cambia aspetto e città. Cambia voce. Cresciuto dal patrigno bianco in una comunità di Testimoni di Geova che ha instillato in lui un forte senso del peccato, ricerca le origini giamaicane della famiglia nei tomi della biblioteca, ascolta i rapper di nascosto e sogna di andare a vivere con l'amico di cui è segretamente innamorato. Trattato presto alla stregua di un paria, fugge a Londra all'età di diciannove anni: lontano dalla verità rivelata e, si spera per lui, più vicino a sé stesso. Durante la dolorosa gavetta per diventare adulto, seguirà tanto gli ormoni quanto l'ambizione. Desideroso di diventare scrittore come James Baldwin, temporeggia incerto e nel frattempo si prostituisce in cambio di ospitalità, denaro, droghe: fino a quando la conoscenza di Owen, poeta che trascorre il Natale in solitudine, non lo farà sentire la persona più perfetta e più importante dell'universo.

Avevamo lasciato il Giardino dell'Eden per la Terra di Latte e miele e avevamo trovato Sodoma e Gomorra. Invece delle colline ondulate, c'era una montagna di spazzatura.

Storia di ordinario smarrimento, il debutto di Paul Mendez incanta sin da quelle prime sessanta pagine ambientate in un altro luogo e in un altro tempo: a raccontarsi nell'incipit è un giamaicano dal linguaggio sgrammaticato, disabituato al freddo inglese e ai miasmi delle fabbriche, che in giardino coltiva una sorprendente varietà di rose. Quale è il nesso tra lui e il resto, un'epopea giovanile dai ritmi folli? L'andamento martellante della narrazione è merito ora degli stupefacenti in circolo, che pompano il cuore a mille; ora di una colonna sonora trascinante, che va dai Joy Division a Lemonade di Beyoncè. Ritratto nell'arco di un quindicennio – si parte dall'attentato alle Torri Gemelle in TV, per giungere infine alla Brexit –, Jesse scoppia di fame e di vita. Il mondo degli adulti è un banchetto dove rimpinzarsi fino ad avere la nausea. Apparentemente senza pensieri, ingolla superalcolici, pilucca carni al sangue e infilza uomini di mezza età: tutti bianchi e potenti, dal momento che il sesso è percepito inconsciamente come l'unico mezzo per sottomettere Dio e il suprematismo. Ma se si guardasse indietro, se gli chiedessero a bruciapelo come sta, il protagonista scoppierebbe amaramente in un pianto fluviale. Come far tacere la nostalgia di casa? Come metabolizzare un razzismo più sottile, lontano dagli estremismi americani, ma altrettanto sistemico? Libero come l'aria, e per questo completamente solo, Jesse brama un nuovo senso di appartenenza. Lo troverà nella cerchia queer, spavalda ma al contempo terrorizzata dalla malattia, o nella comunità degli immigrati inglesi?

Spero che Tu sia davvero lassù, così non avrò passato i miei primi diciannove anni di vita a parlare a me stesso, ma spero anche che Tu non ci sia, così non devo ritenere Te responsabile di tutto il male che sta accadendo, causato da persone che si credono giuste e sono convinte di averti dalla loro parte. Ti faccio questa preghiera in nome di Tuo Figlio e Re Regnante Cristo Gesù, il cui compleanno non permetti di festeggiare nemmeno ai tuoi seguaci più sinceri. Buon Natale. E grazie, grazie davvero tanto per lo champagne e l'erba. E per Owen. E per i Joy Division. E per le Sugarbabes. E per le Destiny's Child. Amen!

Contemporaneo e prorompente, caratterizzato da una voce davvero inconfondibile, Latte arcobaleno è un romanzo di formazione energico, vitale e leggerissimo nonostante la crudezza dei temi trattati. Inutilmente appesantito dalle ultime cinquanta pagine, necessarie soltanto a chiudere il cerchio, procede per salti temporali ed ellissi: alcuni capitoli condensano in poche pagine espedienti loschi, amanti passeggeri, ricordi frammentari; altri si prendono, invece, i tempi giusti per raccontare al meglio l'emozione di una confessione o di una cena che all'improvviso fanno credere alle canzoni d'amore. Passo dopo passo, anche il linguaggio matura (un plauso alla traduttrice, la bravissima Clara Nubile): lo stile di Mendez si innalza e si imborghesisce, in conversazioni uscite dai salotti snob di Sally Rooney, senza mai tradire però l'amore per i colori saturi, le citazioni pop sparse a piene mani, i sensi sull'attenti e i corpi ansanti. Basso, magrolino e superdotato, con due occhi da cerbiatto che sono l'invidia di tutti i clienti, l'indimenticabile Jesse – «ragazzo nero che cercava di essere un ragazzo bianco che cercava di essere nero» – avrebbe bisogno di un bravo terapeuta o di un abbraccio sincero. Nel frattempo canta in playback i tormentoni del momento e cammina lungo le strade affollate con la consapevolezza di essere l'oggetto del desiderio di coloro che prima lo disprezzano, poi spererebbero comprarlo. Alle spalle ha lasciato tracce della muta avvenuta: pelle di serpente, pelle nera. Quando perde l'equilibrio, nessuna paura. Nella coreografia della propria vita spericolata, Jesse non cade: balla.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Madame – Voce

lunedì 18 febbraio 2019

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: Bohemian Rhapsody | BlacKkKlansman | Se la strada potesse parlare

Doveva essere prima Sacha Baron Cohen, poi Ben Whishaw, ma la scelta è ricaduta all'ultimo su Rami Malek: fra uno slittamento e l'altro, la travagliata scelta dell'attore protagonista aveva accontentato tutti. Alla regia, invece, Brian Singer era stato sostituto nel mentre da Dexter Fletcher: gli scandali sessuali, si sa, non avvisano in anticipo le major hollywoodiane. Con tutti gli accorgimenti delle pellicole sofferte, rattoppate, che soltanto nel mentre decidono cosa essere e cosa non essere, Bohemian Rhapsody ha finalmente visto la luce lo scorso novembre. Nonostante le disastrose premesse, al botteghino si è rivelato un successo straordinario. Gli è andata senz'altro meglio che ad altri biopic al centro di simili rimaneggiamenti, ma il risultato, modestissimo, non cambia. In quale momento la voce solista dei Queen è diventata leggendaria? Da dov'è partita l'ascesa inarrestabile di Freddie Mercury, a cui nemmeno la morte precoce ha tarpato le ali? Nato a Zanzibar, facchino in un aeroporto britannico, aveva quattro incisivi superiori, un'estensione da pelle d'oca e avventure sentimentali che, con l'avvento dell'Aids, facevano tremare la comunità gay. Figlio maggiore in una famiglia di immigrati, sentiva il bisogno di sentirsi parte di qualcosa: tutto partì da una semplice band universitaria. Sognava di vedersi idolo delle folle. Non gli mancheranno attorno cattivi consiglieri, e la solitudine, a giorni alterni, si farà sentire. Quando tutti andranno avanti, si stancheranno di festeggiare e di seguirlo a ruota nelle sue bizze da primadonna. Mai, tuttavia, di starlo ad ascoltare. Biografia parziale e canonica, godibile ma mai all'altezza del suo ispiratore, in Bohemian Rhapsody funzionano quelle canzoni sempiterne; lo scatenato Malek, che compensa con gli sguardi e i movimenti all'impaccio delle parrucche e agli inguardabili denti posticci; le ville piene di gatti adorabili e la freschezza dell'attrice Lucy Boynton, descritta come l'amore di una vita a dispetto del compagno storico. Scarseggiano il sesso, le droghe, gli amanti sbagliati. Scarseggiano gli eccessi, la voglia di provocare e gli autentici colpi di genio. Sovversivo qual era, Mercury si merita ben più di una agiografica vittima dei divieti e dei cambi di rotta. I Queen hanno riempito gli stadi, e continuano a farlo con Adam Lambert come erede spirituale. Riempiono le sale, ora, rubando premi immeritati e infrangendo record. Il loro film piacerà ai fan di vecchia data, alle famiglie riunite, meno agli appassionati. Povero di trovate stilistiche, di guizzi, al punto da stonare un po': un autentico paradosso, dipingendo a spizzichi, bocconi e ritornelli da cantare a memoria un leader dall'intonazione perfetta. (6)

Ci sono quelle storie talmente assurde da essere vere. Ci sono sceneggiature – da premio Oscar, i bookmaker hanno parlato – che brillano senza grandi sforzi, perché la cronaca ha già mostrato umorismo e inventiva in dosi abbondanti. Questa è la storia, assurda per l'appunto, di un poliziotto che ha l'ardine di infiltrarsi in un covo pericolosissimo: il Ku Klux Klan. Un poliziotto afroamericano. Come passare inosservati nella setta intollerante per antonomasia, se la pelle nera e la voce grossa non mentono? Unico sbirro di colore a Colorado Springs, spiccherebbe nella massa di per sé: alle sue origini, aggiungete anche idee reazionarie. Rifiutare il modesto lavoro in archivio e far crollare nel decennio delle rivolte per la guerra in Vietnam, delle manifestazioni per il famoso Black Power, la casa degli orrori. Basta un annuncio sul giornale per comporre un numero di telefono e dichiarare di volerne fare parte dall'oggi al domani. Basta un aiutante – bianco, però – da guidare all'interno passo dopo passo. Non abbastanza militante per la comunità afroamericana, la mente John David Washington si appoggia al braccio Adam Driver, al contrario non abbastanza ebreo. Loro, che non hanno mai pensato alla razza, alla religione, né al dramma delle proprie origini, prenderanno coscienza di sé all'improvviso. I poliziotti, sul chi va là, guardano intanto dalla parte sbagliata. I membri del Ku Klux, affatto invisibili, cercano un nuovo leader carismatico: magari per puntare, un giorno, alla presidenza degli Stati Uniti? L'America, ci si consola invano, non eleggerebbe mai uomini così. O forse sì? Ci ha smentiti l'avvento Trump e, ancora una volta, il terrore è venuto dall'interno, non dallo straniero. Uno Spike Lee in forma smagliante punta il dito, fa nomi su nomi, non le manda a dire. Divertentissimo e arrabbiatissimo, prende in prestito l'aria scanzonata delle commedie poliziesche e un tema che scotta. Un po' classico buddy movie, un po' satira, un po' biografia d'inchiesta, BlacKkKlansman sa ridere della tragedia del razzismo e di se stesso. Ignora qualsiasi retorica, si fa beffe del politicamente corretto, ma conferma nel male la mia scarsa affinità con il cinema di Lee: regista che poco mi piace, e di cui avrò visto i film sbagliati. Appiattito dal doppiaggio e banalizzato strada facendo da uno sviluppo meno originale dello spunto di partenza – due protagonisti prima rivali e poi amici, un piano criminale da sabotare, l'immancabile trucco del microfono nascosto che, in ultima battuta, fa storcere il naso –, intrattiene con il suo carico di indignazione e attualità, grandi attese e grandi nomi. Graffia, ma poco aggiungono gli attori, la regia dai toni retrò, la settima arte. Il messaggio arriva, forte e chiaro, ma ci si aspettava una marcia in più. (6,5)

Passato alla storia per aver soffiato lo scettro a La La Land, Barry Jenkins aveva infastidito più di qualcuno – occhi puntati a quella vittoria politica, a quel dramma tetro preferito al musical di Chazelle –, ma non il sottoscritto. Moonlight mi aveva commosso, imperfetto e strabordante com'era. A colpirmi, l'universalità e la discrezione di un autore che raccontava una storia d'amore senza farne mai un film LGBTQ. Atteso al varco, quest'anno è tornato: l'intento, quello di parlare di persecuzione razziale senza mai scomodare il razzismo. Possibile? Lo splendido romanzo di James Baldwin gli aveva già spianato la strada: si parlava d'amore, mica di odio, e i toni erano quelli inconsueti di una fiaba romantica. In cui lui ama lei, c'è un bambino in arrivo, ma il poliziotto sbagliato accusa l'uomo sbagliato: può Stephan James aver stuprato una donna indifesa? L'incantevole Kiki Layne non ci crede e, con il pancione che cresce, mobilita gli avvocati difensori e le famiglie in frantumi – se quella di Fonny, a proposito di fiabe, sarà composta da matrone bigotte appena uscite dalle pagine di Cenerentola, la ragazza potrà contare sull'ostinazione di Regina King: una mamma che s'impunta, s'improvvisa segugio in viaggio a Puerto Rico, ma non rischia di restare nel cuore con un'eroina femminile che sa di già visto. Bellissima dal punto di vista stilistico, la trasposizione colpisce lo sguardo per l'approccio di un Jenkins esteta come non mai: l'intimità mozzafiato dei piani sequenza, la scelta dei colori pastello, l'avvolgente colonna sonora jazz. Il filtro insolito della favola urbana, tuttavia, fa correre al regista un rischio serissimo: quello di risultare fuori tempo, con un melodramma alla Frank Capra. Mancano la vena sarcastica di Lee, la potenza dialettica di Washington, la concordia di Farrelly, e questo messaggio d'amore, purtroppo, al cinema trova un mondo troppo scettico, troppo cinico. Lì, nella sua semplicità, il suo grande coraggio ma anche la sua insanabile pecca. Il romanzo, scritto cinquant'anni fa, sembra stato pensato ieri; il film, fedelissimo, risulta antiquato. La tristezza, quella vera, nasce davanti al monologo di un vecchio amico appena uscito di galera e terrorizzato all'idea di farvi ritorno. L'empatia, quella vera, è per un Dave Franco che apre casa sua alle coppie felici, mentre i protagonisti – che penetranti sguardi in camera, che volti telegenici – fantasticano su come arredare un open space. Fonny e Tish credono in Dio, nella giustizia, in loro stessi. Se la strada potesse parlare, allora, ti racconterebbe di un epilogo sospeso nella speranza, di un passo indietro per Jenkins, di un tentativo a metà. Al chiaro di luna, Beale Street aveva tutta un'altra forza. (6)

venerdì 10 agosto 2018

I film che leggeremo: Oscar-Friendly

Il primo uomo 
31 ottobre 2018
Dalle stelle di City of Stars alla luna. Dal musical al biopic a tinte action, sempre facendo tappa presso quel Festival di Venezia, a fine agosto, che già aveva portato fortuna la prima volta. Ryan Gosling è Neil Armostrong, nel film ispirato all'omonimo bestseller di James R. Hansen. La curiosità, onestamente, questa volta vola bassa. Genere abbastanza consolidato da essere venuto a noia, cast che poco osa – la moglie di Armstrong è Claire Foy: guarda caso, compagna di vita del sofferente Andrew Garfield in Ogni tuo respiro – e, unico grandissimo pro, un instancabile Chazelle che punta al firmamento e all'en plein.


Se la strada potesse parlare
30 novembre 2018
Chazelle e Jenkins sono destinati ancora a incontrarsi. Dopo la clamorosa gaffe di due anni fa, si spera vivamente che a fare da arbitri non saranno Beatty e Faye Dunaway. Il regista di Moonlight torna, e un trailer montato ad arte lascia intuire che in ballo abbia stile, impegno e forti emozioni. Adatta un romanzo di James Baldwin, prossimamente in ristampa grazie a Fandango Libri, ma abbandona il mondo LGBT – lo scrittore afroamericano, eppure, è noto soprattutto per il cult gay La stanza di Giovanni – senza tralasciare il razzismo, gli amori proibiti, le strade. Che parlano, sì, e in anteprima al Festival di Toronto forse ci racconteranno una storia destinata a far breccia.


Suspiria
2 novembre 2018 (USA)
In principio c'era Suspiria De Profundis. Romanzo-confessione del giornalista Thomas de Quincey che da un viaggio nell'Italia dell'Ottocento portava con sé un lungo incubo e la conoscenza delle tre Madri. Dario Argento aveva dedicato un film a ognuna di loro. Il primo, a cui avrebbero seguito gli imperfetti Inferno e La terza madre, era Suspiria: cult irripetibile, pronto a farsi remake. Non si storce il naso, però, se a occuparsene è l'esteta Guadagnino. I personaggi mantengono i nomi originali, il cameo di Jessica Harper appare quanto mai doveroso ma, titolo a parte, i due film sembrano avere poco altro in comune. Cambia il taglio – freddissimo, alla Von Trier –, cambia la durata – sfiorerà, pare, le tre ore complessive – e cambia il pubblico, se le streghe di Suspiria sono pronte non troppo a sorpresa a infestare festival solitamente chiusi al genere. Getterà un incantesimo sulla Laguna? E sull'Academy, pronta nel 2019 a mettersi in gioco con una categoria aggiuntiva: quella dei film popolari?


Beautiful Boy
12 ottobre 2018 (USA)
Com'è che si dice? Stagione dei premi che vai, Timothée Chalamet che trovi. Lo straordinario Elio di Chiamami col tuo nome, vincitore morale agli Oscar, non vuole diventare una meteora di passaggio. Tanti progetti nel cassetto – Allen, Villeneuve, Gerwig – e altrettanta voglia di lasciarsi nuovamente stupiti e commossi davanti al primo film americano del regista dello struggente Alabama Monroe. Una storia vera, di padri figli e dipendenze da stupefacenti, in cui Chalamet è il bellissimo (e problematico) ragazzo del titolo, mentre il versatile Carrell è il genitore imperturbabile che vorrebbe ricondurlo sulla retta via: quella che porta a casa. I fortunati lo vedranno sempre a Toronto. Gli altri, aspettando l'uscita italiana, lo leggeranno in libreria con Sperling Kupfer.


Mary Queen of Scots
8 novembre 2018
Si sono incrociate in tempi recenti sul Red Carpet: nominate l'una per Lady Bird, l'altra per Tonya. Bionde, giovani e bravissime, Saoirse Ronan e Margot Robbie condividono il set e la corona nel dramma in costume Mary Queen of Scots. Cugine, amiche-nemiche, rivaleggiano per il regno e per l'Oscar: si trasformano. Se a Soirse donano la treccia rossa e la fierezza dell'appassionata Mary, la bellissima Margot raccoglie il testimone di Cate Blanchett, s'imbruttisce e diventa Elisabetta I. Il romanzo di John Guy porta il nome della prima, ma a giudicare almeno dall'intensità del trailer – con quella sovrana inedita: stempiata, incompresa, sterile – potrebbero spuntarla a sorpresa le fragilità della Non protagonista.


Boy Erased
22 novembre 2018
Adolescenti omosessuali da convertire in nome della fede nell'Altissimo. Se ne era già parlato in The Miseducation of Cameron Post, coming of age vincitore dell'ultimo Sundance Film Festival. Il tema shock sarà lo stesso nel ritorno alla regia dell'attore-regista Joel Edgerton, che per l'occasione adatta di proprio pugno le memorie di Garrard Conley in uscita per le Edizioni Black Coffee e guida un cast stellare con Nicole Kidman e Russel Crowe, gentitori preoccupati, e un Lucas Hedges che alla verde età di ventidue anni indovina come un rabdomante ruoli su ruoli. Teniamolo d'occhio anche nel dramma Ben is Back, in cui è diretto dal padre John e affiancato da una ritrovata Julia Roberts.


The Wife - Vivere nell'ombra
4 ottobre 2018
Le proverbiali donne dietro i grandi uomini. Le attrici fuori classe, sfortunatamente nell'ombra. Colpa dell'età che avanza e di Hollywood che fa di conseguenza marcia indietro, o semplicemente dei progetti sbagliati? Glenn Close e Joan, la protagonista dell'omonimo romanzo di Meg Wolitzer a ottobre in libreria per Garzanti, hanno più di qualche tratto in comune. Che The Wife, un Big Eyes ambientato tuttavia nello spietato mondo della letteratura, possa essere il loro canto del cigno come giura già qualche bookmaker? 

mercoledì 22 febbraio 2017

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: Moonlight, Fences, Jackie

8 Nominations. Che parola stana, gay. Significa allegro, gioioso. C'è poco di leggero, di colorato, se crescendo ti scopri tale nella famiglia sbagliata di una città sbagliata. Chiron vive nella periferia di Miami, con una genitrice instabile e i prepotenti che lo inseguono all'uscita di scuola. Lo canzonano, vantandosi di avere capito quello che lui non si è ancora mai domandato. Quegli insulti dicono la verità su di lui? Chiron lo domanda al suo angelo custode, uno spacciatore dal cuore gentile, che gli spiega che potrà forse essere gay, ma “non una checca”. E Chiron continua a rimuginarci sopra, ad arrovellarsi, prima al liceo e poi per le strade di Atlanta. L'acclamato Moonlight – apprezzato in patria, meno in Italia – è un romanzo di formazione a tre voci. Come se si parlasse di persone diverse, quasi, non di tre fasi della stessa esistenza. A impersonare il protagonista, tre interpreti bravissimi, legati dal nodo di un'identica tristezza. L'esordiente Barry Jenkins punta in alto con una storia che non lascia indifferenti. Ci sono il bullismo, le sostanze stupefacenti, l'omosessualità più tormentata, e ho trovato tutto così misurato, così sentito, da non scivolare mai in una scrittura stereotipata o in passaggi di insostenibile pesantezza. Chiron cresce, si irrobustisce, ma non perde lo sguardo. Il bambino braccato, l'adolescente schernito, il re dei trafficanti che tergiversa in un caffè – sequenza di grande intimità, quella, come solo il cinema indie sa fare – hanno gli occhi di chi guarda gli altri uomini, le cose, come se non potessero mai averli. Girano attorno all'argomento con studiata vaghezza, cercano una pace interiore che nel ghetto sembra impossibile. Il guizzo a un dramma che ho trovato bello, tutt'altro che pretenzioso, ma misteriosamente non riuscito fino in fondo, lo danno la colonna sonora. La nobiltà degli archi, che zittisce il parlato sguaiato, il rap duro delle macchine in corsa, e se ne va così in cerca di un originalità a sorpresa. Moonlight, storia dal contesto troppo distante da noi ma dal respiro universale, è delicatissimo. Ma la limpidezza, i toni intimisti, sono un'arma a doppio taglio. E' una ricerca che dura una vita e, finalmente, si estingue in un abbraccio. Una riflessione sull'identità – non soltanto sessuale -, che brilla per la gentilezza di uno spacciatore (il pluripremiato Mahershala Ali, personaggio chiave che il minutaggio mi ha reso purtroppo anonimo). La ferocia di certe madri (una Harris stravolta, che mette in un angolo l'accento british e una bellezza venuta prima del talento). L'inquietudine di chi fugge, si maschera da gigante cattivo, ma poi si ritrova. Nel mare, che un caro amico ci ha insegnato ad affrontare anni fa. Nella luce della luna, che tinge la pelle di blu. Nell'amore, che è casa. (7,5)

4 Nominations. Troy ha tutto quello che un afroamericano di cinquant'anni potrebbe desiderare. Costruisce, intorno al suo sogno, una recinzione: ad aiutarlo, un figlio adolescente da mettere alla prova. Accanto a Rose, moglie fedele, è diventato un uomo migliore. Ma il protagonista ha l'indole del traditore e i geni di un padre che si sciacquava i denti con un sorso di gin. Cosa rappresenta per lui e per Rose quel recinto che taglia fuori il mondo e li vincola in un tinello su cui si aprono crepe preoccupanti? Le barriere sono fisiche e metaforiche in Fences. Ispirato all'opera di August Wilson, il ritorno alla regia di Washington è una tragedia in medias res. Non ci si sposta da quelle quattro mura: microcosmo di pochi metri che contiene i giganti. E, fedele alla propria natura, il film conserva dialoghi forti e monologhi intensi. Dalla porta mai chiusa a chiave entrano i figuranti – un collega di buon cuore, un fratello matto – e ognuno ha i suoi exploit. Teatrale nella struttura, il cast di Fences duella a colpi di battute e segreti amari come se la macchina da presa non ci fosse. Poco da cogliere, se non l'esistenza in presa diretta: con le sue chiacchiere, i suoi rancori e quei dolori tutt'altro che sconosciuti a chiunque sia stato parte di un nido. Fences è una storia a stelle e strisce – parla di segregazione, generazioni contro, sport – ma, poco alla volta, è diventata anche la mia. Che in Letteratura teatrale mi ci sono laureato, e con una tesi che parla in filigrana della crisi della famiglia patriarcale. Che in passato ho amato così tanto le modalità di questi drammi borghesi, inconsapevole che di lì a poco ne sarei diventato parte. Scritto ad arte, il film risulterà vittima di dilungamenti di troppo. Purtroppo, mi è impossibile convincervi del contrario. Però il verbosissimo Denzel e la strepitosa Viola Davis (non ce n'è per nessuna) gridano intensità in ogni scena. Protagonisti di un matrimonio che è tutto un compromesso, un doloroso accontentarsi. Di un lungometraggio che, più che un film, ha il difetto di apparire teatro fotografato. E' un adattamento, e si vede. Dura due ore e diciotto, e si sentono. Fences è una grande pièce che non diventa grande cinema, secondo il principio della proprietà commutativa. Ma, nel bene e nel male, grande mi è parso. (7,5)

3 Nominations. Ho visto il video dell'omicidio Kennedy all'ora di inglese. Un colpo di fucile contro il presidente. Sua moglie, di rosa vestita, cerca di fermare il sangue. Di recuperare, in un gesto insensato, i pezzi di cervello dalla carrozzeria. Jackie, atipico biopic del cileno Larraìn, racconta le ore successive all'attentato. Ritratto psicologico originale, non lineare nella sua scrittura. Emozionale, non emotivo. A mio dire, non emozionante. Si sofferma su un lutto intriso di rigore. Su spazi vitali stipati di persone. La protagonista appare di rado sola. Si tiene addosso quel tailleur chiazzato di sangue più del dovuto. Deve predisporre una solenne parata, così come tempo prima aveva badato ai tappeti della Sala Ovale. Fuma, ma vieta che il dettaglio trapeli. Si mostra capricciosa, frivola e antipatica, risoluta. Natalie Portman, assente dalle scene dopo i fasti del Cigno Nero, è somigliante in maniera maniacale. Fin troppo? Ti fa pesare, infatti, la sua splendida prova. Ostenta la perfezione raggiunta, una fatica che c'è ma che non vuole si veda. Così tanto brava – dall'accento sospiroso al portamento impeccabile – da risultare petulante. Jackie, d'altronde, non doveva brillare per simpatia. Così presa dal suo ruolo, tanto calata nella parte di first lady, da confondere lato pubblico e lato privato. Razionalmente ho capito le ragioni dei bronci e la grande rabbia per l'idillio che si incrina. Dal punto di vista stilistico, poi, mi allineo a chi l'ha trovato impeccabile. Emotivamente, però, mi ha lasciato infastidito. E puoi essere il più curato dei film, ma se mi parli di una donna addolorata nel profondo e quel dolore io non lo vivo, non lo percepisco, allora puoi dirti riuscito solo a metà. Sono tutti bravissimi, tutto è bellissimo. Ma l'ho ammirato con freddezza, stando al di qua dell'uscio. La futura signora Onassis non si svela. L'icona è diventata inscindibile dalla donna. Doveva credere talmente tanto in Camelot – un sogno impossibile, condiviso insieme all'America – da diventare un personaggio fittizio. Incapace di abbandonare quella parte. Quelle stanze in cui beve vino costoso e sfila, anche quando nessuno la guarda più. (6,5)