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domenica 31 dicembre 2023

Le mie Top 2023: il cinema e le serie TV

10. Nimona

Una fiaba per grandi e piccini che omaggia il genere e lo rivoluziona. A metà tra il ciclo bretone e lo steampunk, non ha bisogno di forzature per risultare inclusiva, femminista, nuova.

9. Beau ha paura

Come non averne, di paura, davanti a un film così lungo, ostico, sperimentale? Impavido, Aster divide con un'esperienza cinematografica impareggiabile. Freud sarebbe andato a nozze con l'odissea di questo stralunato Phoenix in fuga dalla madre.

8. Pearl

Apparso nel circuito festivaliero l'anno passato, è arrivato in Italia esclusivamente in homevideo. L'assassina seriale di West è un personaggio di rara complessità emotiva e Mia Goth le rende giustizia in un monologo lungo dieci minuti. Il resto è un incubo in technicolor che fa ben sperare per il terzo capitolo della serie.

7. The Whale

Aronofksy torna a parlare di corpi. E insieme a lui torna Fraser, a lungo assente dalle scene. La loro collaborazione, claustrofobica e provante in un salotto già affollato di disturbi – non solo alimentari –, non è per tutti, ma regala un'interpretazione dalla potenza annichilente.

6. La chimera

Gli stranieri ce la invidiano, ma noi abbiamo avuto occhi troppo distratti per riconoscere il talento di Alice. Spirituale, tragica, immaginifica, questa volta raduna un cast internazionale e ci regala il film più vitale dell'anno, pur parlando di morte.

5. Close

Corrono per i campi fioriti e non hanno pensiero alcuno. L'adolescenza porrà fine a quegli andirivieni e getterà lo spettatore in una valle di lacrime. Dopo Girl, dal Belgio un'altra storia di repressione e identità. Perché comportarsi da uomini, quando semplicemente bambini?

4. Anatomia di una caduta

Il vincitore all'ultimo Festival di Cannes è un'analisi del rapporto uomo-donna, un giallo, una foto di nozze. Sorretto dall'interpretazione di Huller, scivola dal francese all'inglese, così come scivola la verità stessa: sdrucciolevole, non renderà libera una famiglia infelice a modo suo.

3. Babylon

Stroncato in patria, è stato un flop. Perfino io l'ho saltato in sala e l'ho recuperato tardi, in una visione domestica non all'altezza di cotanto splendore. Perdonami, Chazelle, per aver dubitato: sei memorabile tanto nei musical quanto nei baccanali.

2. C'è ancora domani

Al botteghino, una casalinga ha sorpassato Barbie e Oppenheimer. Oltre allo straordinario successo di pubblico c'è di più. Cortellesi firma un esordio lieve e impegnato, il cui finale ci lascerà per anni a bocca aperta – con buona pace di Silvestri, che canta A bocca chiusa.

1. Aftersun

L'ho visto a gennaio, ma se chiudo gli occhi sono ancora lì, fra le luci di una discoteca. E cerco invano di carpire i segreti di un padre malinconico, di una figlia precoce, di un dramma sull'elaborazione mai realmente elaborato. In sottofondo, i Queen.

5. The Good Mothers

Nell'anno in cui l'Italia si è chiusa in un silenzio scioccato davanti all'ennesimo femminicidio, non poteva mancare la coproduzione internazionale candidata ai Critics' Choice Award. Un manifesto di resistenza femminile, in cui giganteggia una Bellè all'altezza delle star hollywoodiane.

4. Lezioni di chimica

Se Barbie ha sbancato i botteghini ma non ha conquistato il vostro favore, andate a conoscere Elizabeth Zott: intraprendente e biondissima, puntava al mestiere di chimico. Le toccherà passare prima dai fornelli, in una miniserie in cui Larson segue la scia della Fantastica signora Maisel (di cui non ho visto la stagione conclusiva).

3. Tore

La chicca dell'anno arriva dalla Svezia. Agrodolce, queer e stilosissima, è la storia di un Piccolo Principe in cerca della propria autonomia. Una colonna sonora irresistibile e comprimari a cui voler bene renderanno un lungo piacere questi soli sei episodi.

2. La caduta della casa degli Usher

Succession (che, per la cronaca, non ho seguito) ma in chiave horror. L'ultimo capolavoro di Mike Flanagan è in realtà un bignami del miglior Poe. Una bambola russa di storie dentro storie, con morti da manuale e un cast in stato di grazia.

1. Beef – Lo scontro

Può una zuffa tra automobilisti trasformarsi in una faida, in un'indagine socio-culturale, in una storia d'amore? Sì, se produce A24 e il cast è il regalo più prezioso del melting-pot. Dopo i fasti di Everything Everywhere All at Once, questi asiatici indie e sfrontati conquistano anche il blog.

venerdì 16 giugno 2023

Ritorni d'autore: The Whale | Beau ha paura | Decision to Leave | Empire of Light | Close

Quello di Aronofsky è un cinema di corpi. Il wrestler Rourke spingeva il suo alle corde del ring; la ballerina Portman lo levigava alla ricerca ossessiva della perfezione. Fraser, vedovo gravemente obeso, ha trasformato la propria carne in prigione. Impegnato in una trasformazione indimenticabile, l'attore canadese recita con gli occhi e con quel corpo pantagruelico, sporco per tutto il tempo di muco, lacrime, cibo, sperma. Lo ha martoriato e martirizzato. Ma, al contempo, ha nutrito una commovente fede verso il prossimo. C'è davvero bontà nell'adolescente Sadie Sink? Hong Chau è un'infermiera amorevole o una carceriera? Ty Simpkins è mosso da afflato evangelico, oppure da altro? Hanno tutti luci e ombre. E Aronofsky li inchioda tutti al centro di un terrificante 4:3. Tutti in cerca di Moby Dick, tutti vittima delle loro vite passate, si lasceranno alle spalle la terraferma. E torneranno, finalmente, a vedere il mare. Solido, compatto, precisissimo, The Whale brilla per una scrittura teatrale inappuntabile e, generoso, contiene a fatica la silhouette di Charlie, così come gli strepiti di rabbia e nostalgia di un cast splendidamente assortito. Su tutti, come un Cristo amorevole, incombe l'adorato Fraser: vincitore dell'Oscar, ci regala un disperato canto del cigno. E una lezione su come amare gli altri pur odiando, fino alla morte, sé stessi. (8)

Beau ha paura. Prima della visione, ne avevo anch'io. Accolto tra applausi e pernacchie, il terzo film di Ari Aster (anzi, la terza fatica) è un'odissea psicologica che divide. Cinematografico eppure profondamente letterario, ha le nevrosi di Roth, gli atti mancati di Svevo, le metamorfosi di Kafka: il tutto messo in scena su una struttura fiabesca degna di Collodi. La visione, tappa dopo tappa, mostra il classico viaggio dell'eroe. Nello spasimato epilogo diventerà un uomo vero? Caotico, ma diviso in atti ben distinguibili, il film si apre come una distopia ambientata in un quartiere da poco riqualificato; si sposta poi in un salotto da sitcom americana, con due pimpanti coniugi pronti ad adottare il protagonista; sfocia nel teatro dell'assurdo e, all'ultimo, nell'horror psicologico, con tanto di mostro da sconfiggere. Si ride. Ci si sorprende. Si sbuffa. Sorpresi e sgomenti, proprio come questo Phoenix perennemente imbambolato, si vive la visione come un'avventura nell'avventura. Noi siamo nella testa di Beau. Ma Beau è nella testa di sua madre – una LuPone da Oscar. Si dice che i registi girino sempre il medesimo film. Questo Aster, lontano dai confini sicuri (be', si fa per dire) dell'horror, riprende i temi di Hereditary e li getta in un'autobiografia che, in contrasto con l'insostenibile pesantezza dell'essere, non poteva che farsi commedia nera. Non è troppo presto per autocitarsi? Il regista newyorkese avrà già finito le idee? Mi godo lo spettacolo; mi tengo il dubbio. Beau ha paura è una cosa divertente che non vedrò mai più. (7+)

Lui è un detective tutto d'un pezzo, a cui la ricerca della giustizia ruba finanche il sonno. Lei, cinese in Corea, è la principale sospettata dell'omicidio del marito. Questa è la storia di un'ossessione amorosa. Vietato, però, aspettarsi un torbido thriller erotico. Sontuoso nella messa in scena, a modo suo romanticissimo, l'ultimo Park Chan Wook è una schermaglia sentimentale illuminata da sprazzi impensati d'umorismo e da colori finora inediti al regista della Trilogia della Vendetta. A metà tra Insonnia d'amore e Vertigo, oscilla tra romcom e noir, mare e montagna, tenerezza e manipolazione. A tratti classico come un melodramma d'altri tempi, a tratti modernissimo per via del continuo ricorso alla tecnologia per superare la barriera linguistica tra i protagonisti, ammalia attraverso la cronaca di una dolce ossessione. La regia è di uno splendore indescrivibile, così come splendidi sono questi amanti al centro di un continuo flirtare; di un continuo inseguirsi. Ma l'intreccio, fragile e diluito, somiglia a quello di un racconto poliziesco che risulta stare un po' largo in una trasposizione cinematografica di oltre due ore. Restano le suggestioni del grande cinema festivaliero. E gli indizi, sparsi, del più infido tra i casi irrisolti: l'amore. (7)

In un piccolo cinema della costa inglese si intrecciano gli amori, i tradimenti e le tragedie dei dipendenti. Anche Sam Mendes, dopo il collega Spielberg, parla della magia della sala. Ma questa volta i riflettori non sono puntati su Hollywood, bensì sulle sale cinematografiche: qui rifugi per cuori spezzati e anime in pena. Nonostante lo spazio dedicato a figuranti d'eccezione, la protagonista è la fragile e timida bigliettaia che non ha mai il coraggio di irrompere in sala e godersi lo spettacolo. Affetta da una grave depressione, trova conforto nei colori caldi della bellissima fotografia di Roger Deakins e tra le braccia dell'ultimo arrivato: nero, giovane, pieno di vita. Accolto negativamente dalla critica, Empire of Light ha una dimensione corale mai realmente approfondita e troppa carne al fuoco. Ingenuo e sfilacciato, mostra il fianco alle critiche peggiori soprattutto nel finale: anzi, nei finali. Troppi, e didascalici. Ma mentirei se dicessi di non avergli voluto bene, vinto dalla gentilezza dei suoi protagonisti e dall'ennesima grande interpretazione di Olivia Colman. Il regista, lo stesso delle coppie scoppiate e delle battaglie in piano sequenza, torna e spiazza. Per i più, delude. Ma ci regala una coccola inaspettata, di buoni sentimenti e con vista mare. (7)

Leo e Remy sono inseparabili. Vanno a scuola in bicicletta, giovano a inseguirsi, dormono appaiati come due lenti a contatto e, sulla soglia dell'adolescenza, scelgono lo stesso liceo. Con una risatina, una compagna di classe domanda loro: “State insieme?”. Ne nasce un dramma dall'intensità straziante, che ha ridotto le sale a un silenzio tesissimo. Piangevamo tutti. Per la dolcezza disarmante della prima parte e per il dolore della seconda. Tormentati e pensierosi, infatti, i piccoli protagonisti si struggono nell'ombra della malizia sorta all'improvviso tra loro. Crescono, ma con il rischio di perdersi. A dispetto del titolo, questa è una storia di allontanamento. E quei bellissimi campi fioriti percorsi non più di pari passo, ma da soli, commuovo perfino più dell'inevitabile risvolto tragico in agguato. Cosa implica crescere? Cosa significa, ieri come oggi, essere uomini? Il secondo film di Lukas Dohnt, reduce dai fasti di Girl, è una tragedia sulle parole non dette e su quelle di troppo. Una riflessione sulla sessualità e sul dolore negati, in cui, nell'era della mascolinità tossica e nell'età acerba delle prime consapevolezze, è più lecito piangere per un braccio rotto che per un cuore spezzato. (8)

venerdì 13 aprile 2018

Mr. Ciak: A Quiet Place, Madre!, Doppio Amore, Cinquanta Sfumature di Rosso

Sfondi e scenari: gli stessi dei survival indipendenti (vedasi il cottage in fondo al bosco di It comes at Night). Lo spunto: originale ma non molto, tipico di chi vorrebbe tenere alti il dramma umano, l'ambiguità, la suspance (leggasi La morte avrà i tuoi occhi, prossimamente un film grazie a Netflix e Susan Bier, in cui contro l'ignoto si viveva non nel mutismo, ma a occhi bendati). I toni: quelli sommessi di progetti che non hanno bisogno di spargere ettolitri di sangue o alzare la voce per farti sinceramente paura (certo, se solo a produrlo ci fosse stata l'affidabile A24 avremmo evitato gli errori di 21 Cloverfield Lane, The Ritual e altri horror che troppo vogliono svelare). In A Quiet Place ci sono un imprecisato futuro post-apocalittico e due genitori con un terzo figlio in arrivo, dopo la morte mai elaborata di un altro bambino. Cattiva idea allargare la famiglia, se fuori c'è un pericolo a cui sopravvivere solo così: in silenzio. I protagonisti si esprimono con il linguaggio dei segni, con gli occhi e i movimenti corporei, per non attirare in casa mostruosi invasori dall'udito sopraffino. Gli espressivi Emily Blunt e John Krasinski, coppia anche nella vita reale, si dividono l'educazione dei figli, compiti e spauracchi, a un passo dal gorgogliare del fiume. Si lavora sinergicamente – nel cast raccolto, nei copioni personalizzati da una palpabile intesa –, e agli Abbott, cosa rara davvero, ci si affeziona. Mentre si concedono un lento in cantina. Mentre il senso di colpa e il passato li uniscono e li dividono nel corso di una notte implacabile. Mentre la poetica lentezza iniziale, ben musicata dal solito Beltrami, cede il passo infine all'azione dei survival: evitabile, sì, ma messa già in conto in una produzione commerciale che ha il cuore come un martello pneumatico, una tecnica all'avanguardia e un giovane regista, quel Krasinski impegnato in un duplice ruolo, costretto a cedere a più di qualche faciloneria (su tutte, il design delle creature: troppo mostrate, troppo simili a quelle di Stranger Things, quando il miglior Shyamalan avrebbe invece gettato ad arte ombre strategiche). I dialoghi sono ridotti a zero o quasi. Nell'aria non vola una mosca. Ogni piccolo rumore, ogni scricchiolio, costituiscono un rinnovato fremito in poltrona. La scrittura è solida, l'uso del montaggio sonoro da Oscar e il dosaggio degli jumpscares, nonostante i perdonabili difetti di sorta, ti fa torcere le mani in poltrona e vergognare un po' per i sobbalzi. L'ho visto da solo, in una sala semivuota, e a un certo punto scalpitavo per l'arrivo dei titoli di coda: stanco di stare sempre sul chi va là, chiedevo basta, ma anche ancora. A Quiet Place è un gioiellino di tensione a piedi nudi, a fior di nervi, che insegna che il silenzio è d'oro. A volte, anche l'horror mainstream. (7,5)

Dopo l'ammaraggio dell'arca di Noah si attendeva l'arrivo di Darren Aronofsky nelle acque più placide del Lido. Acclamato o disprezzato, di Madre! hanno scritto i più – cose brutte, cose lusinghiere, interpretazioni in gran quantità – e, curioso per natura, qualcosa ho letto. Sarà perché giunto non del tutto impreparato alla visione, non l'ho amato e non l'ho odiato: al solito, mi piazzo a metà. Con il senno di poi non mi spiego infatti né i fischi né la venerazione. Non mi spiego, soprattutto, la confusione: le chiavi di lettura che fioccano dappertutto, come se alla base dell'allegoria dell'ultimo Aronofsky ci fosse chissà quale ermetismo, chissà quale sottigliezza. Tornando all'horror senza però lasciare indietro la suggestione delle Sacre scritture, il regista racconta con il grotteso della commedia nera e la violenza dell'epilogo l'incubo vissuto da una coppia perfetta. Le cure di una morbida e urlante Lawrence (per tutto il tempo, sul viso ha ragionevolemente un'unica espressione di sconcerto) hanno restituito smalto a una villa decaduta e giovinezza al poeta di un insopportabile Bardem. Lui padre padrone, lei sottomessa – anche quando si parla di avere un figlio, anche quando la casa inizia a riempirsi di ospiti inopportuni e inquietanti (si parte dal fanatico Harris e dalla sobillatrice Pfeiffer, due Adamo ed Eva agées, finendo con la spietata giustiziera Wiig). Riassunto in pillole allucinogene di Antico e Nuovo Testamento, in Madre! è tutto un simbolo. La morale ecologista è dietro l'angolo – assieme ai reiterati tentativi del processo creativo, suggeriti con una bella struttura circolare; al ripiegare sull'ottusa fiducia che la prossima volta andrà meglio –, meno la delusione preventivata. Aronofsky interessa, affascina e indigna. Pasticcia, senz'altro. Ma erano mesi che mi negavo, a fine visione, il piacere di un sezionare un film in compagnia ripercorrendolo a ritroso. Il difetto più palese: la semplicità del linguaggio, lì dove altri gli rimproverano un'insensatezza di base; il fatto che questo Aronofsky chiassoso e fisico manchi della solita eleganza, nella scrittura e nella forma, non andando troppo per il sottile. Dà un morso proibito alla mela della conoscenza, e rischia di farsela andare di traverso. Trascina l'ex compagna Jennifer Lawrence in un lungo calvario, e solleva tutt'attorno fumo, fuoco e fiamme. Resiste imperterrito un cuore di cristallo, sul fondo del vaso di Pandora; sotto la cenere. Madre! pecca di ambizione e non potrebbe permetterselo: lacunoso, perfino ingenuo. A modo loro, però, sempre piaciuti i peccatori. (7)

La mente che parla al corpo e gli suggerisce di soffrire. Lì, sotto le palpebre abbassate, i dolori della giovane (e bella, come si diceva in qualche film fa) Chloé. Dolori lancinanti alla bocca dello stomaco e un'unica guarigione, se la medicina scuote la testa e dichiara bandiera bianca: uno psicologo che scandagli nel suo passato e in traumi rimossi per istinto di sopravvivenza. Medico e paziente vanno a letto violando il codice deontologico; si innamorano. Finché Chloé non finisce nelle braccia di un altro terapista, di un altro uomo, che non si sa perché ha la stessa faccia di Paul: la sua versione tenebrosa, laconica, specchiata, che scava più a fondo ancora, e nei segreti della camera da letto. Lei, l'attrice feticcio Marine Vacht, ha il caschetto castigato della prima Mia Farrow e un corpo acerbo dalle insospettabili curve a gomito. Lui, anzi loro, sono Jeremie Renier: altra conoscenza del regista francese, con un fascino barbuto che fa passare d'un tratto la paura di invecchiare. Esplorazioni invasiva dell'intimo femminile, con immagini troppo di classe, troppo patinate, per suscitare scandalo – si apre con un chiacchierato primo piano della vagina della protagonista, si prosegue con onirici ménage à trois e uomini sottomessi con una cintura fallica soltanto per il desiderio di lei –, L'Amant Double arriva nelle sale italiane con il titolo Doppio amore dopo il mancato rumore al Festival di Cannes. Messo da parte il freddo languore di Frantz, il sempre atteso Ozon torna alle atmosfere di De Palma – lussuriose ma incoerenti – e al tema del doppio, già debitamente affrontato negli irraggiungibili Swimming Pool e Una nuova amica. Qualcuno ci ha letto infinita autoironia, qualcun altro un'analisi freudiana che arriva all'orgasmo partendo da lontano. Raffinatezza stilistica a parte, questa volta non ho trovato appigli o spunti degni di riflessione, in un intrigo torbido ma lacunoso, retto interamente dall'intesa sessuale fra due protagonisti bellissimi. E stimolerà ormoni e zone sensibili più di qualsiasi Sfumatura di grigio, inutile negarlo, eppure L'Amant Double appare il gemello ipodotato dei fratelli maggiori meglio riusciti. Autocelebrazione intrisa di eleganza che sul lettino di uno specialista, fra le lenzuola spiegazzate, rischia di farsi parodia di sé stessa. (5,5)

Dal grigio al rosso, passando senza grande convinzione attraverso cinquanta sfumature di noir. A un certo punto, nell'incipit del terzo e ultimo capitolo della serie erotica di E.L. James, quei protagonisti che in bianco non sono andati mai, sperimentano il candore virginale dell'organza. Convolano a nozze, e allora lo fanno a Parigi e a Nizza, in barca a vela, in auto, nello chalet di montagna di lui. Si danno da fare, anche se il cinema patinatissimo di James Foley si dilunga sui preliminari ma ci nega il sesso, e mentre si spalmano gelato sulle parti intime (l'indomani non useranno un detergente intimo, ma Mastrolindo Sgrassatore) o giocano a far vibrare dildo, ecco che parte la hit del momento – quest'anno, l'orecchiabile duetto fra Rita Ora e Liam Payne –, con la signora Grey che spalanca la bocca non si sa se in preda al piacere, o per cantare il ritornello in lip synk. Passione e strafalcioni: gli stessi della prima volta. Anastasia che, inebetita, puntualmente si meraviglia delle dimensioni (fior di metafora?) del jet di lui. Christian che, con la scusa dello stalker che vorrebbe separarli, rafforza la sua figura di padre padrone. Se non fosse che la sua sposa – servita e riverita come una gran dama, con tanto di bodyguard e immeritata promozione –, spesso si impunta e lo contraddice. Nelle rare irruzioni nella stanza segreta di Grey, ci si vendica e ci si stuzzica in una sfida alla pari: chi sottomette chi, dopo essersi detti sì? Abituarsi alla routine matrimoniale richiede ora la carota, ora il bastone (insomma, comunque oggetti dall'inequivocabile forma fallica). Con orridi dialoghi da fotoromanzo svestito a thriller, la James e il marito sceneggiatore inseriscono nella loro irresistibile orgia trash corse in macchina che manco la sorella gnocca di Vin Diesel, agenti immobiliari maggiorate, criminali da strapazzo che rapiscono la tipa di Tezenis e passati traumatici con la pioggia scrosciante fuori. Ai protagonisti si chiedevano, all'inizio, seni a coppa di champagne e chiappe così marmoree da poterci spaccare in mezzo le noci di Macadamia. Dakota Johnson, migliore di film in film, appare qui di una bellezza raggiante. Jamie Dornan, l'uomo con le pentole inox per occhi, scopre invece le insicurezze di un'eventuale paternità, le serenate al pianoforte e lacrime che no, non ne attentano alla famosa virilità. I trasgressori che fanno faville al botteghino e nei portafogli delle nostre mamme in menopausa affrontano la quotidianità – magari in perizoma – e chiudono così, con un dignitoso tassello finale che invita sin dal titolo a non sparare di nuovo sulla croce rossa, le porte del loro sogno di coccole e gatti a nove code. (5)