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sabato 15 gennaio 2022

Biografie da Oscar: Spencer | Belfast | King Richard | Being the Ricardos

A che serve l'ennesimo biopic, per di più con The Crown in corso d'opera, sull'icona più famosa al mondo? Ultimo ritratto di signora per Pablo Larraín, Spencer racconta i tre giorni di agonia di un matrimonio lungo dieci anni; la donna in pezzi prima del mito inscalfibile. Diana festeggia il Natale in un castello stregato in cui i riscaldamenti sono sempre spenti, le ceneri dei vecchi regnanti ricoprono ogni cosa e i servitori, invitati al silenzio, sono schierati come un esercito. Ma, aggrappata alla tazza in ghingheri come una sposa, Diana vomita, disobbedisce e semina dissensi: il suo tormento si manifesta con l'autolesionismo. In una scena già cult, si strappa la collana e ingoia le perle insieme a una zuppa immangiabile. Favola nera o forse horror dell'anima, il film è una psichedelia di danze, spettri e fagiani dove tutto, fatta eccezione per l'epilogo, è gelo. In questo inferno di ghiaccio, Kristen Stewart si rivela una scelta tanto azzardata quanto vincente: sorprendente con accento british, presta gli occhi malinconici e il temperamento nervoso a una figura in tensione perenne, in grado di sciogliersi soltanto al cospetto dei figli e di Sally Hawkins; i costumi da Oscar fanno il resto. Si può fuggire a un destino segnato? C'è spazio per i miracoli, in un mondo in cui perfino i bambini sono educati alla violenza della caccia? Per fortuna il buon cinema tutto può. Il qui e ora non esistono, sussurra Diana: passato, presente e futuro sono la stessa cosa. Il tempo si fonde come in Dalì, allora, e attraverso questo magma Diana Spencer può andare incontro alla vita (e alla morte) nei luoghi in cui è stata bambina spensierata. È possibile la stessa felicità? Basta lasciare in pegno il vestito buono agli spaventapasseri e, fanculo il mondo, inseguire «gli amori, lo shock e le risate». (8)

Dopo Cuarón, Almodóvar e Sorrentino (anche Spielberg è atteso al varco con un'operazione simile), è il turno di Kenneth Branagh: riacciuffare una carriera ondivaga al suono di ricordi agrodolci. Il tutto rigorosamente in bianco e nero, con una fotografia talmente incantevole da essere degna del cinema Pawlikowski. Siamo nell'Irlanda degli anni Sessanta. Il piccolo alter-ego del regista si difende con uno scudo di latta dai draghi, dai drammi familiari, dagli sconvolgimenti politici. Benché molto preso dalle scorribande e da una coetanea, è impensierito da una serie tematiche: i genitori, sommersi dai debiti, meditano di andare altrove; i nonni, anziani, seminano perle di saggezza e preoccupazioni; le strade, un tempo familiari, ospitano barricate durante gli scontri tra protestanti e cattolici. Ogni elemento è al posto giusto, selezionato per non scontentare: mamma e papà sono di un'avvenenza fuori dal comune anche quando discutono (Caitríona Balfe è, a onor del vero, intensissima), gli anziani brontolano da Oscar (inspiegabile il casting di Ciaràn Hinds, di vent'anni più giovane della Dench e invecchiato malamente a colpi di trucco), le visite al cinematografo offrono significativi squarci di colore al biancore generale. Ma in Belfast, purtroppo, è tutto talmente attrattivo da risultare furbetto, patinato, piatto. Ogni anno c'è un film che sembra accontentare tutti tranne me: questo sarà l'anno di Branagh, con la pellicola più sopravvalutata e, forse, premiata della stagione. Un pugno di cartoline provenienti da un'infanzia così artefatta da sembrare di nessuno. (5,5)

L'ascesa di Venus e Serena Williams dal punto di vista dell'uomo che le ha messe prima al mondo, poi sui campi da tennis (solitamente appannaggio dei ricchi bianchi privilegiati): Richard, il loro papà. Ambientato nei primi anni Novanta, con le campionesse poco più che bambine, questo biopic tanto classico quanto appassionante mette in scena i sacrifici, l'orgoglio e lo spirito di abnegazione di una famiglia vincente. Padre di cinque figlie femmine, il protagonista ha un piano per ognuna di loro: cambieranno il mondo e si salveranno dal ghetto. Ma la perdizione esiste soltanto nel loro quartiere, o anche nelle competizioni del circuito professionistico? Solido nella prima parte, in cui prevale la grazia della dimensione corale, il film perde qualche colpo nella seconda: più concentrata sugli esordi di Venus, fa porre qualche domanda sulla condotta del genitore. La loro è una famiglia o un team? È giusto predisporre il futuro dei figli ancora prima che nascano? Quelli di Richard erano sogni o ossessioni? Disinteressata ad approfondire le controversie sul papà-manager, Hollywood sceglie per la vicenda un taglio fiabesco e toni bonari. Non stupisce, allora, la scelta di Will Smith come protagonista: idolo di generazioni vicine e lontane, qui spiegazzato come non mai, rispolverara i discorsi motivazionali del set di Muccino e punta facilmente agli Oscar. Pregi e difetti di un dramma sportivo senza ombre e con una morale sul valore dell'umiltà (non secondaria, però, al divertimento), che piace anche ai profani. (6,5)

Agli spettatori italiani Lucille Ball e Desi Arnaz diranno pochissimo. Star di una sitcom degli anni Cinquanta, erano i nostri Sandra e Raimondo. L'ultimo film del sempre bravissimo Sorkin è un biopic che ce li mostra a un crocevia: accusata di simpatizzare per il comunismo, Lucille fa i conti con i tradimenti del marito e una seconda gravidanza. Come mandare avanti comunque lo show? Nonostante Javier Bardem sia una spalla esemplare, Being the Ricardos è una masterclass tutta al femminile. Già anima della sitcom originale, Lucy diventa ancora il fulcro del tutto: Sorkin la mostra dagli esordi fino alla retrocessione in radio, in preda al fervore delle riprese e durante le tensioni del quotidiano. Buffa sul set, tutta smorfie e gridolini, nel privato era una padrona di casa perfezionista, polemica e sbloccata. Contestatissima da alcuni spettatori, una Nicole Kidman fresca di Golden Globe incarna entrambe le anime del personaggio alla perfezione e strega con un mimetismo che le arrochisce la voce e stravolge il viso (più del chirurgo, sì). La vicenda ha scarso appeal, soprattutto per il pubblico straniero? La struttura a tasselli non appare sempre funzionale? Se amate le grandi performance e i grandi autori, sedetevi ugualmente in poltrona e applaudite Sorkin. La sua è una commedia elegante, pulita, all'apparenza semplicissima. Ma, proprio come I Love Lucy, di quella semplicità che soltanto i set collaudati sanno rendere nascondendo gli sforzi del cast sotto il tappeto. (7)

venerdì 13 aprile 2018

Mr. Ciak: A Quiet Place, Madre!, Doppio Amore, Cinquanta Sfumature di Rosso

Sfondi e scenari: gli stessi dei survival indipendenti (vedasi il cottage in fondo al bosco di It comes at Night). Lo spunto: originale ma non molto, tipico di chi vorrebbe tenere alti il dramma umano, l'ambiguità, la suspance (leggasi La morte avrà i tuoi occhi, prossimamente un film grazie a Netflix e Susan Bier, in cui contro l'ignoto si viveva non nel mutismo, ma a occhi bendati). I toni: quelli sommessi di progetti che non hanno bisogno di spargere ettolitri di sangue o alzare la voce per farti sinceramente paura (certo, se solo a produrlo ci fosse stata l'affidabile A24 avremmo evitato gli errori di 21 Cloverfield Lane, The Ritual e altri horror che troppo vogliono svelare). In A Quiet Place ci sono un imprecisato futuro post-apocalittico e due genitori con un terzo figlio in arrivo, dopo la morte mai elaborata di un altro bambino. Cattiva idea allargare la famiglia, se fuori c'è un pericolo a cui sopravvivere solo così: in silenzio. I protagonisti si esprimono con il linguaggio dei segni, con gli occhi e i movimenti corporei, per non attirare in casa mostruosi invasori dall'udito sopraffino. Gli espressivi Emily Blunt e John Krasinski, coppia anche nella vita reale, si dividono l'educazione dei figli, compiti e spauracchi, a un passo dal gorgogliare del fiume. Si lavora sinergicamente – nel cast raccolto, nei copioni personalizzati da una palpabile intesa –, e agli Abbott, cosa rara davvero, ci si affeziona. Mentre si concedono un lento in cantina. Mentre il senso di colpa e il passato li uniscono e li dividono nel corso di una notte implacabile. Mentre la poetica lentezza iniziale, ben musicata dal solito Beltrami, cede il passo infine all'azione dei survival: evitabile, sì, ma messa già in conto in una produzione commerciale che ha il cuore come un martello pneumatico, una tecnica all'avanguardia e un giovane regista, quel Krasinski impegnato in un duplice ruolo, costretto a cedere a più di qualche faciloneria (su tutte, il design delle creature: troppo mostrate, troppo simili a quelle di Stranger Things, quando il miglior Shyamalan avrebbe invece gettato ad arte ombre strategiche). I dialoghi sono ridotti a zero o quasi. Nell'aria non vola una mosca. Ogni piccolo rumore, ogni scricchiolio, costituiscono un rinnovato fremito in poltrona. La scrittura è solida, l'uso del montaggio sonoro da Oscar e il dosaggio degli jumpscares, nonostante i perdonabili difetti di sorta, ti fa torcere le mani in poltrona e vergognare un po' per i sobbalzi. L'ho visto da solo, in una sala semivuota, e a un certo punto scalpitavo per l'arrivo dei titoli di coda: stanco di stare sempre sul chi va là, chiedevo basta, ma anche ancora. A Quiet Place è un gioiellino di tensione a piedi nudi, a fior di nervi, che insegna che il silenzio è d'oro. A volte, anche l'horror mainstream. (7,5)

Dopo l'ammaraggio dell'arca di Noah si attendeva l'arrivo di Darren Aronofsky nelle acque più placide del Lido. Acclamato o disprezzato, di Madre! hanno scritto i più – cose brutte, cose lusinghiere, interpretazioni in gran quantità – e, curioso per natura, qualcosa ho letto. Sarà perché giunto non del tutto impreparato alla visione, non l'ho amato e non l'ho odiato: al solito, mi piazzo a metà. Con il senno di poi non mi spiego infatti né i fischi né la venerazione. Non mi spiego, soprattutto, la confusione: le chiavi di lettura che fioccano dappertutto, come se alla base dell'allegoria dell'ultimo Aronofsky ci fosse chissà quale ermetismo, chissà quale sottigliezza. Tornando all'horror senza però lasciare indietro la suggestione delle Sacre scritture, il regista racconta con il grotteso della commedia nera e la violenza dell'epilogo l'incubo vissuto da una coppia perfetta. Le cure di una morbida e urlante Lawrence (per tutto il tempo, sul viso ha ragionevolemente un'unica espressione di sconcerto) hanno restituito smalto a una villa decaduta e giovinezza al poeta di un insopportabile Bardem. Lui padre padrone, lei sottomessa – anche quando si parla di avere un figlio, anche quando la casa inizia a riempirsi di ospiti inopportuni e inquietanti (si parte dal fanatico Harris e dalla sobillatrice Pfeiffer, due Adamo ed Eva agées, finendo con la spietata giustiziera Wiig). Riassunto in pillole allucinogene di Antico e Nuovo Testamento, in Madre! è tutto un simbolo. La morale ecologista è dietro l'angolo – assieme ai reiterati tentativi del processo creativo, suggeriti con una bella struttura circolare; al ripiegare sull'ottusa fiducia che la prossima volta andrà meglio –, meno la delusione preventivata. Aronofsky interessa, affascina e indigna. Pasticcia, senz'altro. Ma erano mesi che mi negavo, a fine visione, il piacere di un sezionare un film in compagnia ripercorrendolo a ritroso. Il difetto più palese: la semplicità del linguaggio, lì dove altri gli rimproverano un'insensatezza di base; il fatto che questo Aronofsky chiassoso e fisico manchi della solita eleganza, nella scrittura e nella forma, non andando troppo per il sottile. Dà un morso proibito alla mela della conoscenza, e rischia di farsela andare di traverso. Trascina l'ex compagna Jennifer Lawrence in un lungo calvario, e solleva tutt'attorno fumo, fuoco e fiamme. Resiste imperterrito un cuore di cristallo, sul fondo del vaso di Pandora; sotto la cenere. Madre! pecca di ambizione e non potrebbe permetterselo: lacunoso, perfino ingenuo. A modo loro, però, sempre piaciuti i peccatori. (7)

La mente che parla al corpo e gli suggerisce di soffrire. Lì, sotto le palpebre abbassate, i dolori della giovane (e bella, come si diceva in qualche film fa) Chloé. Dolori lancinanti alla bocca dello stomaco e un'unica guarigione, se la medicina scuote la testa e dichiara bandiera bianca: uno psicologo che scandagli nel suo passato e in traumi rimossi per istinto di sopravvivenza. Medico e paziente vanno a letto violando il codice deontologico; si innamorano. Finché Chloé non finisce nelle braccia di un altro terapista, di un altro uomo, che non si sa perché ha la stessa faccia di Paul: la sua versione tenebrosa, laconica, specchiata, che scava più a fondo ancora, e nei segreti della camera da letto. Lei, l'attrice feticcio Marine Vacht, ha il caschetto castigato della prima Mia Farrow e un corpo acerbo dalle insospettabili curve a gomito. Lui, anzi loro, sono Jeremie Renier: altra conoscenza del regista francese, con un fascino barbuto che fa passare d'un tratto la paura di invecchiare. Esplorazioni invasiva dell'intimo femminile, con immagini troppo di classe, troppo patinate, per suscitare scandalo – si apre con un chiacchierato primo piano della vagina della protagonista, si prosegue con onirici ménage à trois e uomini sottomessi con una cintura fallica soltanto per il desiderio di lei –, L'Amant Double arriva nelle sale italiane con il titolo Doppio amore dopo il mancato rumore al Festival di Cannes. Messo da parte il freddo languore di Frantz, il sempre atteso Ozon torna alle atmosfere di De Palma – lussuriose ma incoerenti – e al tema del doppio, già debitamente affrontato negli irraggiungibili Swimming Pool e Una nuova amica. Qualcuno ci ha letto infinita autoironia, qualcun altro un'analisi freudiana che arriva all'orgasmo partendo da lontano. Raffinatezza stilistica a parte, questa volta non ho trovato appigli o spunti degni di riflessione, in un intrigo torbido ma lacunoso, retto interamente dall'intesa sessuale fra due protagonisti bellissimi. E stimolerà ormoni e zone sensibili più di qualsiasi Sfumatura di grigio, inutile negarlo, eppure L'Amant Double appare il gemello ipodotato dei fratelli maggiori meglio riusciti. Autocelebrazione intrisa di eleganza che sul lettino di uno specialista, fra le lenzuola spiegazzate, rischia di farsi parodia di sé stessa. (5,5)

Dal grigio al rosso, passando senza grande convinzione attraverso cinquanta sfumature di noir. A un certo punto, nell'incipit del terzo e ultimo capitolo della serie erotica di E.L. James, quei protagonisti che in bianco non sono andati mai, sperimentano il candore virginale dell'organza. Convolano a nozze, e allora lo fanno a Parigi e a Nizza, in barca a vela, in auto, nello chalet di montagna di lui. Si danno da fare, anche se il cinema patinatissimo di James Foley si dilunga sui preliminari ma ci nega il sesso, e mentre si spalmano gelato sulle parti intime (l'indomani non useranno un detergente intimo, ma Mastrolindo Sgrassatore) o giocano a far vibrare dildo, ecco che parte la hit del momento – quest'anno, l'orecchiabile duetto fra Rita Ora e Liam Payne –, con la signora Grey che spalanca la bocca non si sa se in preda al piacere, o per cantare il ritornello in lip synk. Passione e strafalcioni: gli stessi della prima volta. Anastasia che, inebetita, puntualmente si meraviglia delle dimensioni (fior di metafora?) del jet di lui. Christian che, con la scusa dello stalker che vorrebbe separarli, rafforza la sua figura di padre padrone. Se non fosse che la sua sposa – servita e riverita come una gran dama, con tanto di bodyguard e immeritata promozione –, spesso si impunta e lo contraddice. Nelle rare irruzioni nella stanza segreta di Grey, ci si vendica e ci si stuzzica in una sfida alla pari: chi sottomette chi, dopo essersi detti sì? Abituarsi alla routine matrimoniale richiede ora la carota, ora il bastone (insomma, comunque oggetti dall'inequivocabile forma fallica). Con orridi dialoghi da fotoromanzo svestito a thriller, la James e il marito sceneggiatore inseriscono nella loro irresistibile orgia trash corse in macchina che manco la sorella gnocca di Vin Diesel, agenti immobiliari maggiorate, criminali da strapazzo che rapiscono la tipa di Tezenis e passati traumatici con la pioggia scrosciante fuori. Ai protagonisti si chiedevano, all'inizio, seni a coppa di champagne e chiappe così marmoree da poterci spaccare in mezzo le noci di Macadamia. Dakota Johnson, migliore di film in film, appare qui di una bellezza raggiante. Jamie Dornan, l'uomo con le pentole inox per occhi, scopre invece le insicurezze di un'eventuale paternità, le serenate al pianoforte e lacrime che no, non ne attentano alla famosa virilità. I trasgressori che fanno faville al botteghino e nei portafogli delle nostre mamme in menopausa affrontano la quotidianità – magari in perizoma – e chiudono così, con un dignitoso tassello finale che invita sin dal titolo a non sparare di nuovo sulla croce rossa, le porte del loro sogno di coccole e gatti a nove code. (5)