Lo stesso lato umano, in questo caso quasi del tutto assente, ha lasciato traccia dell’incontro tra il nostro e Benny Goodman, che sviando alle domande sulla situazione “attuale” del Jazz, portava il dialogo esclusivamente su contesti che lo “elevavano” dal ruolo di jazzista, dal quale in seguito ha tratto infinita fama, come il suo impegno con alcuni compositori classici (Aaron Copland, Paul Hindemith). Un altro aspetto che è rimasto impresso nella memoria di Barazzetta era l’ostile rapporto che Goodman intratteneva con i suoi musicisti, per i quali aveva spesso parole caustiche, persino dure e che, anni dopo, gli fu confermato dal batterista Gene Krupa il quale, così rispose all’autore sul perché avesse lasciato Goodman nel ’38:
"ma lo sai che non ha mai, dico mai, chiamato nessuno dei musicisti che lavorarono con lui, e siamo stati in molti, sia che fossero solisti o no, buoni o cattivi, col nome proprio? Per lui noi siamo sempre stati dei «pop» qualunque. Hai capito bene? Non ci riconosceva alcun tipo di identità, quella artistica compresa.”
Di tutt’altro spessore è stato il rapporto che Barazzetta ha stretto con Duke Ellington, non a caso conosciuto da tutti come il Duca, anche per la sua eleganza musicale e per la sua nobiltà d’animo, che lasciò un ricordo indelebile e diede anche alcune fondamentali indicazioni per la sua professione di acuto osservatore musicale:
"voi critici non dovete parlare né considerare il Jazz come musica esclusivamente americana, perché questa è «una visione molto europea del Jazz». Ed ancora suggeriva: “di focalizzare sempre l’indagine sul ruolo e l’opera dell’individuo, perché sono sempre loro i personaggi più importanti sulla scena. E non bisogna perdere tempo a raggrupparli in stili, scuole o tendenze. Osserva come io considero i miei individui, so esattamente ciò che ognuno di loro può darmi e sono sicuro che solo loro possono interpretare nella maniera giusta le mie composizioni.”
Ma su tutti colpisce la lunga esperienza umana che ha legato Barazzetta a Charles Mingus, di cui vengono pubblicate delle lettere inedite, che ci permettono di conoscere altri aspetti del grande musicista e compositore e, soprattutto, la difficile condizione, da noi immaginata come privilegiata, di un jazzista afroamericano, come racconta lui stesso in questo stralcio di lettera datata 29 maggio 1962:
“…comunque io voglio solo suonare in condizioni più comode e oneste di quelle che ci sono ora. Certo, Miles Davis ce l’ha fatta, ma pensa ai quindici anni di successo che avrebbe potuto avere prima. Pensa a Lester Young che muore in un albergo da un dollaro e un quarto a notte, all’attuale povertà delle famiglie di Fats Waller, di Jelly Roll Morton, di Bird. Perché non dovrei avere il diritto di chiedere a qualcuno del tuo paese se ci aiuta a cambiare qualcosa del potere che c’è sugli artisti? Qui nessuno lo farà. Qui il Jazz lo stanno uccidendo se non va per la strada voluta da Glaser e dai suoi padrini. E se muore qui credi che possa sopravvivere nel tuo paese?”
Mingus, che spesso viene dipinto come schivo, irascibile e razzista al contrario, si è rivolto diverse volte con sincerità e modestia all’amico “Joe” Barazzetta, come nel maggio 1966 (di cui viene pubblicata la lettera manoscritta, cosa veramente rara):
“ Caro Giuseppe, AIUTO! Qui stanno cercando di danneggiare i miei affari. Soprattutto da quando ho registrato la musica di Monterey 1964 [9]. Non conosci qualcuno che vorrebbe lavorare con me… mi serve aiuto…”