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sabato 29 luglio 2017

Gabbiani a Centocelle


Carlo aveva smesso di crederci all'improvviso.
Per molti aveva mollato troppo presto, secondo lui, invece, aveva aspettato pure troppo. Non sapeva dire bene quando era successo, ma era certo che fu come se qualcuno, in un preciso istante, avesse spento la luce con un click.

Da quel momento una sensazione di serenità lo aveva avvolto nelle sue calde braccia ed ora lui dormiva lunghi sonni senza sogni.


In realtà, se solo avesse voluto, avrebbe ritrovato quel momento in cui tutto si era affievolito semplicemente risalendo la corrente della sua memoria. Se solo avesse voluto, avrebbe potuto rivivere quel giorno in cui aveva smarrito il gusto del sogno, quell'attimo nel quale la fantasia più profonda si era palesata davanti ai suoi occhi, trasformata in semplice realtà.

Poteva essere successo quando Rita, una cara amica di famiglia che lo accudiva quando i suoi erano al lavoro in città, gli aveva succhiato via la fanciullesca adolescenza in un afoso pomeriggio a Torvajanica? Oppure quando aveva iniziato a rubare di nascosto le Mildesorte della madre, nascondendone ogni giorno un paio all'interno della plafoniera dell'ascensore?

Probabilmente contava anche quella volta che gli spaccarono la testa a catenate perché voleva difendere una ragazzina del suo quartiere da tre coatti più grandi di lui, oppure, su tutte, quella volta che aveva capito che l'impegno dei suoi compagni si era trasformato in un passatempo alternativo, dove miliardi di parole in politichese non descrivevano neanche lontanamente gli sguardi dei contadini dell'alto Lazio.


Insomma, di motivi per analizzare la sua nuova condizione ce n'erano, eccome, ma da tempo non si poneva più domande e invece preferiva passare i pomeriggi a sorseggiare lentamente un bicchiere di vermentino, guardando nel cielo l'evoluzioni dei gabbiani sopra il campanile della chiesa.

Lo affascinavano i gabbiani, con quel loro modo di volare riuniti in gruppo e con quelle lunghe soste solitarie sulle cime dei campanili, con quella sfida continua alla forza di gravità che cercava di impedire al loro grosso corpo primitivo di starsene liberi nell'aria del domani, con quelle emissioni di suoni che privilegiavano la sostanza armonica anziché la forma melodica, con quel loro apparire anomalo, lontani dal mare eppure così a proprio agio nel contesto.


Ma come fanno... pensava Carlo, che non si era mai riuscito a dare una risposta, proprio come quando pensava al perché non comprendeva più i suoi simili, che costituivano fragili gruppi momentanei, che privilegiavano il suono delle parole anziché la forza dei loro contenuti, che non sapevano più godersi un momento di piacere seduti nel bel mezzo della loro solitudine e che anzi giravano in continuazione intorno al proprio io, stordendolo di parole fasulle, riempiendo i silenzi di richieste di amicizie fittizie, mostrando fotografie impalpabili che prendevano il posto del loro reale profilo.


Era stanco, e si smarriva pensando da quanto tempo tutto questo andava avanti.

Ricordava con piacere quei momenti in cui assistiva i suoi mattacchioni, quelli che gli altri chiamavano freddamente "i diversamente abili", perché a dire matti si mancava di rispetto, quando riusciva a parlare con un semplice sguardo, quando sentiva vibrare la comunicazione più profonda nei pochi segni scarabocchiati su un foglio a quadretti, quando percepiva, in maniera concreta più che mai, l'affetto e le mille parole di solidarietà espresse in uno scomposto abbraccio, in un rivolo di bava che nascondeva un sorriso aperto.
Ora solo il silenzio, circondato da fantocci vivi che non pensano alla morte, assediato da cadaveri ambulanti che non sanno cos'è la vita.

Ma perché ci stò pensando adesso, si domandava, e poi che cazzo ci fanno i gabbiani a Centocelle?


Il flusso dei suoi pensieri si interruppe quando si avvicinò la ragazza del bar, che con uno straccetto in mano gli disse che stavano chiudendo.
Mentre lei strofinava per bene il tavolino al quale Carlo era seduto, un seno quasi gli uscì dalla striminzita canottiera, ma lui non lo degnò di attenzione, perché era attratto da quei pochi peli che le intravedeva sotto le ascelle.

Erano anni che non vedeva un ciuffetto di peli addosso ad una ragazza, e si alzò sereno, con una sensazione di condivisione intima e privata, ricca di tanta naturalezza. Si sentiva vivo come una bestia selvaggia, scovava la vita vera che si nascondeva negli anfratti del quotidiano e, come un segugio dell'anima, percepiva nell'aria la trasformazione, in atto.


Quando arrivò a casa non mangiò nulla, non dedicò la solita mezz'ora all'igiene dei suoi denti e si buttò sul letto esausto.
Aveva il cuore stanco Carlo, braccato dall'altra metà di se stesso ed in quella tempesta emozionale,  i suoi denti neanche li sentiva.


Cadde in un sonno profondo, e sognò che correva in un viale alberato, e più andava avanti e più diventava piccolo e correva così veloce che, anche se non aveva preso il volo, una sensazione di leggerezza lo avvolgeva.
Dopo aver saltato, senza alcuna fatica, buche insidiose, falsi ponti levatoi e meschini trabocchetti, si trovò davanti ad una porta semplice e maestosa, che sopra aveva iscritto "Cor Magis Tibi Siena Pandit".
Fece qualche altro passo, con l'eco di quella frase che gli risuonava nella testa, fino ad arrivare ad una fortezza, che brillava di luce propria nella sua semplice imponenza, che avrebbe potuto incutere timore se fosse stata osservata con gli occhi di uno stolto ma che ai suoi occhi, tornati puri e bambini, appariva come un'accogliente ventre materno.

Appena mise un piede dentro, si svegliò.


Aprì un poco gli occhi, restando immobile per cercare di far risalire almeno l'eco di quel sogno ma trovò solo la sua prepotente erezione e si masturbò.


Appena in piedi non sentì alcun'altro bisogno.
Sotto la doccia raccolse i pensieri e subito dopo vendette la sua casa, donò i suoi dischi, inviò un fiore reciso alla sua donna, non avvisò al lavoro, comprò un biglietto di sola andata e partì.

Nessuno da allora li vide più...



**********************
Tutte le immagini sono di
Antonio Ligabue 1899 - 1965

domenica 7 settembre 2014

Massimo Urbani _ L'Avanguardia è nei Sentimenti - Arcana Jazz 2014



Finalmente è uscito!

In questi giorni è in libreria per i tipi di Arcana, nella collana Jazz diretta da Vincenzo Martorella, la seconda edizione del fondamentale libro che Carola De Scipio aveva dedicato a Massimo Urbani, oramai quindici anni fa.

Lavoro indispensabile già in origine, non solo perchè era praticamente l'unico profilo del sassofonista romano, interessante non solamente per la scelta di utilizzare le tante testimonianze di chi aveva conosciuto, frequentato o suonato con Massimo, "L'Avanguardia è nei Sentimenti" era uno dei più affascinanti ritratti in jazz per via di quella regia unica che l'autrice era riuscita ad ottenere orchestrando le tante voci raccolte, strutturando i vari periodi in una storica architettura complessiva ed armonizzando le emozioni, contrastanti ma sempre toccanti, che la fiammeggiante meteora di Massimo Urbani aveva riflesso sul popolo del jazz.



Libro basilare, dicevo, che in questa nuova veste è diventato bellissimo:
una forma più adeguata, sia in leggibilità che in ordinamento grafico, cinque nuove voci aggiunte al coro (Carlo Atti, Roberto Del Piano, Gaetano Liguori, Carla Marcotulli, Pietro Tonolo), moltissime fotografie inedite di Roberto Masotti che ci regalano una più sfaccettata immagine del nostro, anzi un vero vibrante ritratto, ed una discografia aggiornata al 2014 che tenta di fare ordine e di dare il giusto rilievo attraverso i documenti sonori official o meno, nella storia musicale di Massimo Urbani.

La discografia è curata da me, ma non è questo il motivo che mi spinge a raccontare questo libro sulle pagine del mio blog. Ho amato quel testo da subito, l'ho apprezzato per la sua forma d'istantanea senza giudizio alcuno, l'ho letto, consultato, sfogliato e riletto come si fa con un saggio o con un libro di poesie e, già nel settembre del 2008, l'avevo utilizzato come base reale di un racconto immaginario che oggi ripubblico per l'occasione.

Non perdetevi questa seconda chance per avvicinarvi nel profondo ad uno dei più appassionanti musicisti del jazz.


IL BORGATARO DELLE STELLE

Stranamente, non c'era musica nell'aria.
Nella stanza solo una forte luce biancastra, che illuminava i mucchi di panni sporchi e le bottiglie vuote lasciate sul pavimento.
Massimo distolse gli occhi dalle crepe che disegnavano il soffitto,
si alzò dal letto e in un attimo fu di fronte alla finestra.

Nonostante fosse la fine di Giugno, sulle finestre c’erano ancora le buste di plastica che Ivano aveva fissato con il nastro adesivo, per non fare entrare il freddo. Un gesto semplice che dimostrava amicizia e protezione. "My Brother", pensò, sentendo l'emozione salirgli dal petto come una marea. Era passato molto tempo dall’ultima volta che si erano incontrati, troppo.


Massimo guardò quel telo di plastica che vibrava al vento e trasformava la luce del sole in una nebulosa biancastra e innaturale, come quella di certi ospedali o quella artificiale che si usava nei teatri. Niente di più lontano da quegli ambienti morbidi di penombra in cui amava suonare.
Gli passò per la mente che quella poteva essere la luce che molti raccontano di aver visto in fondo al tunnel della vita.

Rimase lì, ad ascoltare il ritmo del vento, delicato come un sussurro di spazzole, e decise di lasciarlo andare ancora un po’. Yeah, che almeno quella busta spezzasse quell’ovattato silenzio.


Si voltò e fece lo stesso percorso per tornare a letto, pensando che in quei giorni sarebbe dovuta iniziare la stagione estiva dei concerti romani, in quei locali all’aperto che prima lo avevano accolto come un grande del Jazz, con gli amici che accorrevano per sentirlo suonare e gli organizzatori che gli offrivano da bere e gli preparavano magici incontri con le stelle d’oltreoceano.
“Urbani, l’enfant prodige”
“Massimo, la rivelazione del Jazz italiano”.
“La precoce genialità di Massimo Urbani”


Ora sembrava che nessuno volesse più ascoltare le storie che raccontava con il suo sax, pareva che tutti lo evitassero, che la sua musica fosse troppo imprevedibile e diretta, proprio come la sua vita.

Finalmente raggiunse il letto, anche se gli sembrò di averci impiegato un’infinità di tempo.
Guardò il telefono a lungo, come per trovare una risposta a nessuna domanda, ma quello restò muto, inutilmente presente sul pavimento.
Massimo allora si sdraiò e decise di aspettare,
di aspettare ancora un po’.


I don’t know why but I’m feeling so sad
I long to try something I never had
Never had no kissin’
Oh, what I’ve been missin’
Lover man, oh, where can you be?
.


Riaprì gli occhi di colpo, come se qualcuno lo avesse chiamato, ma la stanza era sempre vuota, ora tinta di un giallo caldo per via del giorno che volgeva al termine.
Si mise seduto sul letto, raccolse un uovo sodo dal pentolino vicino al telefono, ed iniziò a sbucciarlo.

Quanto tempo era passato da prima?

Strano concetto il tempo, per lui che ne aveva uno interno dalle mille cadenze, sempre nuovo e irriconoscibile ai più.
Sorrise ricordandosi la faccia di Enrico, che una volta gli regalò un orologio, al quale lui chiese un manuale per farlo funzionare.
Enrico si che gli voleva bene, lo accettava così com’era, lo aveva spinto a credere in se stesso, l’aveva portato in America, gli aveva fatto incidere il suo primo disco con Calvin e Nestor, quella ritmica americana che era tutta un’altra cosa.
Enrico era come un fratello maggiore, “e c’aveva er feeling”,  pensò.
Finalmente qualcuno che si prendeva cura di lui, mica come Giorgio, il professorone, che si voleva prendere più i meriti della sua musica che altro.
Enrico, caro Enrico, era ieri o vent’anni fa?


Prese un bottiglia, senza scegliere, soppesando solo il contenuto e ingurgitò tre, quattro sorsate come fosse acqua.
Ma quel liquido denso gli strinse lo stomaco, e lo convinse a raggiungere nuovamente la finestra per guardare in faccia il sole, prima che questo andasse a morire.
Tolse la busta di plastica, scusandosi quasi con Ivano, che tanto amore aveva impiegato per stenderla da tutte le parti e, all’improvviso, il cielo di Roma gli si svelò davanti.


I suoi occhi toccavano piazza Guadalupe, che sembrava piccola e delicata, protetta da una cinta di alberi, più in là seguivano il ritmo incessante che scorreva su via Trionfale e lassù, proprio vicino al cielo, c'era Monte Mario, dove si andava a vedere le stelle.
Questo lo fece stare bene, per qualche ora o pochi minuti, sorridendo la sua gioia in faccia al sole, che ora era rosso, grosso e basso come una bolla di fuoco spuntata là, dove finisce la città.

“Il più bel posto del mondo” disse ad alta voce e, subito, si stupì del suono della sua stessa voce, che era sempre stata alta, delicata e anomala per il suo corpo ma ora, più che mai, sembrava appartenere ad un altro. Forse era perché non la sentiva da troppo tempo?
O forse perché qualcosa era davvero cambiato dentro?


Questo lo rese agitato.

Lui che aveva sempre improvvisato, pensando di non essere più se stesso, divenne furioso.
Correndo da un angolo all’altro della stanza cercò tra i cumoli di roba sparsi sul pavimento, calpestò i suoi dischi, distrusse bicchieri, buttò all’aria i libri di studio, rovesciò il letto, spostò mille e mille buste di rifiuti e poi, finalmente, in un angolo vuoto, trovò il suo strumento. Lo afferrò, corse fuori e salendo le scale, in un attimo, fu sul terrazzo dove il cielo sembrava più vicino ed il sole era ancora alto. I tasti disegnavano una geografia familiare sotto le sue dita, perfettamente delineati, in ordine e sempre al loro posto. Imboccò lo strumento senza alcuna accortezza e, quando iniziò a soffiare, tutto si calmò.

Il blues era una medicina fantastica e la sua voce, unica e ineguagliabile, non lo aveva abbandonato, era rimasta con lui.
Lei non lo avrebbe lasciato mai.

The night is cold and I’m so alone
I’d give my soul just to call you my own
Got a moon above me
But no one to love me
Lover man, oh, where can you be?


All’inizio delineò piano una melodia, solo per Lui e per il suo strumento. Poi, in crescendo la portò in alto, soffiando con forza tutto il suo amore per la tradizione, omaggiando i Maestri suoi amici con l’uso delle loro frasi, con la forma appena accennata dei loro ricordi. Una dedica così bella e toccante che tutti i passanti si fermarono ad ascoltare. Poi, come aveva sempre fatto, cercò la propria via, dolorosamente e con la stessa facilità e naturalezza che aveva nel respirare.

La melodia esplose, frastagliata in mille schegge lucenti ed in ognuna si percepiva la tensione, la partecipazione, la fatica fatta di sangue e di sudore, l’amore che Massimo nutriva per il suono. Lottò duramente con il suo pensiero veloce come il lampo e sfinì le sue dita, perse nell’inseguimento di un sogno irraggiungibile, quello di un ragazzo di Monte Mario che voleva suonare a tutti i costi il Jazz.


La disperazione si manifestò con un grido alto, caldo e metallico allo stesso tempo, che fece fermare tutte le persone, al di là dei confini del quartiere, del paese o di questo mondo, chiedendosi da dove arrivava tanta bellezza, da dove nasceva tanto amore.
Domandandosi nell'intimo come si poteva sopportare tanto dolore.

Suonò per un tempo interminabile, per il mare e per il sole, per la luna e per le stelle, con gli occhi rivolti al cielo e lo strumento lontano dal corpo, che andava verso l’alto come se dovesse spiccare il volo. Solo il suo peso corporeo lo teneva ancorato su questa terra, come una zavorra, come uno scomodo ostacolo.
La sua voce, il suo soffio, la sua musica tutta era di un altro pianeta e sembrava volesse tornare a casa. Suonò per Bird, suonò per Trane e per il povero Albert, pensò a Sonny ed al caro Larry, che erano tutti lì con lui, che erano lì per Lui.


A quel punto, per un momento dispensato dal dolore, piegò la melodia su se stessa, che tornò all’origine, toccando con morbide linee quelle frasi che tanti avevano suonato, donando un corpo nuovo ad un abito usato e, con dolcezza, terminò la frase da cui era partito.
L'aria era carica di una tensione incredibile, tangibile, visiva, come ogni volta che Massimo imboccava il sax.

Nonostante avesse suonato con una dolcezza inaudita, scegliendo le parole più semplici per raccontare dal profondo le emozioni ed i sentimenti, si percepiva che il dolore era sempre dietro l'angolo, si sentiva che la rabbia era sempre in agguato, pronti ad assalire lui e la coscienza di tutti quelli che, anche per caso, si trovavano a sfiorare la sua persona.


Il silenzio che seguì era argenteo, elettrico come quell’istante indefinibile che nasce tra la fine della canzone e l’inizio dell’applauso, che appartiene ancora alla musica ed al suo creatore, ma è già di pubblico dominio. Nessun rumore, anche il vento si era fermato.
Tutto rimase attonito, sospeso da questa vita comune in un attimo di Poesia creativa, in silenzioso rispetto al cospetto del suo creatore.

Nessun applauso.

Massimo aprì gli occhi e, infatti, non vide nessuno.
Quando staccò lo strumento dal suo corpo, il sole era ancora lì, ora meno caldo e appena un poco più basso, come se fossero passati solo pochi minuti.
Non era cambiato niente, era cambiato tutto.
Massimo sentì tramontare la vita dentro.
Da quanto tempo durava?
Trentasei anni o un giorno??
Se anche avesse avuto ancora tempo, sarebbe stato capace di raccontare altro, Lui che non avrebbe mai suonato la stessa cosa per due sere di seguito?

I’ve heard it said
That the thrill of romance
Can be like a heavenly dream
I go to bed with a prayer
That you’ll make love to me
Strange as it seems


Venne quel momento della giornata in cui è già tardi per cenare ed è ancora presto per andare a bere con gli amici.
Massimo aveva sempre mangiato male, scegliendo a caso come senza alcuna direzione. Solo la pasta alla carbonara aveva un posto di privilegio nei suoi gusti, ma ora non mangiava quasi più.
Prese un’altra bottiglia qualunque, si riempì un bicchiere di cartone fino all’orlo, bevve in un solo sorso e decise di uscire, da solo.
In fondo la solitudine lo aveva sempre accompagnato nella sua musica.



Appena sceso in strada riconobbe l’odore del suo quartiere.
Lui era cresciuto lì, ma non su via Balduina o in via Cortina d’Ampezzo, la parte dove ci sono le case dei dottori e degli avvocati, con i portieri in livrea e le sbarre dappertutto.
No, lui era nato nelle case popolari di Monte Mario, e ne era orgoglioso.
Dalla fine di via Aristide Gabelli, dove abitava ora, ci metteva due minuti a piedi per raggiungere piazza di Nostra Signora di Guadalupe, il centro del quartiere, il centro del mondo per Massimo. Quante volte si era seduto su quelle panchine, sotto gli alberi della piazzetta con Chet Baker, Don Cherry, con Dave Liebman o Sal Nistico.

Ma oggi non c’era nessuno seduto vicino a Lui e questo non gli piaceva.
Pensò allora di andare dal sor Antonio, “er man” del “bar delle palmette”, che anche se era li per vendere, una parola per Massimo la trovava sempre.
Si alzò dalla panchina, attraversò la piccola piazza e subito, all’inizio di via Augusto Conti, trovò il bar.


L’insegna al neon disegnava “Sissi Bar” con una luce viola che non poté fare a meno di notare. “Sissi Bar”, così c’era scritto, e dentro del sor Antonio neanche l’ombra. Sedette ugualmente al bancone, ordinò da bere e si guardò intorno.
Niente, non riconosceva niente di quel posto.
E si che c’era stato mille volte con Ivano, lo zio Luciano e gli amici del quartiere.

Massimo pensò che era colpa sua.
Pensò che ci aveva messo troppo ad attraversare la piazza, che il tempo, il Suo tempo, non era come quello degli altri, e che lo portava su e giù per i piani della vita come un ascensore impazzito, a volte troppo velocemente o, altre volte, lasciandolo inesorabilmente indietro.


Il tempo era il padrone della melodia della sua vita.
Come quella volta che con Furio, Luigi e Paolo decisero di mettere su un gruppo. Passavano gli anni ed i giorni a suonare, a bere Campari con Gin, a parlare di Chet o di Dexter. Grazie ad Alberto Alberti questi quattro amici suonavano nei festival più importanti e si trovavano a dividere il palcoscenico con Freddie Hubbard o Jack DeJohnette o Woody Shaw. Fecero un disco molto bello con l’etichetta di Sergio Veschi e affittarono perfino una stanza a Procida per starsene un po’ al mare.

A ricordarlo ora sembra un sacco di tempo passato insieme, mentre lo vivevano sarà durato un attimo.
Il tempo è un grande improvvisatore, pensò Massimo, mai uguale a se stesso.

Uscì da quel bar sconosciuto da sempre e tornò in piazza, questa volta contando i passi.
Scelse un panchina, dal momento che erano tutte vuote e stette lì, a guardare la vita.
Passò una signora grassoccia con le scarpe troppo larghe e una macchina della polizia.
Tutto lì.

Someday we’ll meet
And you’ll dry all my tears
Then whisper sweet
Little things in my ear
Hugging and a-kissing
Oh, what I’ve been missing
Lover man, oh, where can you be?


“Tancredi, Di Bartolomei, Nela, Vierchowod, Maldera, Falçao, Prohaska, Ancelotti, Iorio, Pruzzo e Bruno Conti, che è il più Jazz di tutti…”

A questo pensava quando si sentì chiamare per nome.
“Massimo, Massimò…”
Sorpreso e felice di ascoltare il suono del suo nome ancora una volta, aprì gli occhi e si trovò davanti un ragazzo di cent’anni che gli sorrideva con la pelle della faccia accartocciata sul teschio e appena qualche dente in bocca.
“Sò Italo, er fratello piccolo dei Ruscio, te ricordi?”
Massimo guardò quel viso come si osserva un complicato reticolo di linee aerospaziali, con la stessa attenzione di quando si studia una cartina stradale.
“cioè, sei er pulcetta ?” disse non credendo alla sua stessa, infallibile, memoria che ricordava quel vecchio, appena un attimo fa, come un ragazzino di dieci anni che giocava a pallone in piazza con i calzoni corti.
“e si, so io. Mà, nun è che c’avresti venti sacchi pe comprà un po’ de robba a mezzi, eh Massimè?”


La “robba”.
Lui non ci pensava sempre, ma ora sembrava l’unico aggancio per non restare solo, un pretesto per dividere un po’ di tempo insieme con qualcuno, una lieve medicazione per assopire almeno un po’ il dolore dei suoi ricordi.

“si, vabbè, tiè stì ventisacchi, però nun ce vado io a compràlla, vacce tu, io t’aspetto a casa de mì madre, che lì mò nun c'è più nessuno...”

Massimo si alzò dalla panchina, tirandosi su i jeans sempre un po’ corti e s’incamminò senza salutare, 'chè quello, per lui, in fondo non era nessuno.
Poi si voltò e sorridendo appena disse forte “ciao purcè…” che oggi per lui, quello lì era tutto.


Uscendo dalla piazza passò davanti alla chiesa.
Era lì che aveva cominciato a suonare, a dodici o tredici anni, con la banda di Monte Mario, in quello stanzone dove Jeannot lo sentì suonare il sax e gli disse "continua, e sarai il migliore del mondo".
Nel cortile guardò con affetto i giochi colorati dei bambini e, per un attimo, pensò a Valentina, che stava a Bologna ed alla faccia che avrebbe potuto avere il piccolo Massimetto, il figlio che la sua donna portava in grembo.
Non pensò ad altro aprendo l’ennesimo pacchetto di sigarette, questa volta senza distruggerlo. Restò qualche momento stupito e commosso di tanta delicatezza.


Proseguì per qualche passo sulla sua vita, passando per via Augusto Conti, per poi girare subito a sinistra in via Agostino Dati, verso casa. Lì, proprio all’inizio, c’è sempre stato un negozietto di dischi, ed allora gli venne in mente quando in vetrina trovò “360° AEUTOPIA”, il suo disco con Beaver, Cameron e Ron al piano.

Forse la più bella macchina ritmica che avesse mai guidato.

Pensando al titolo non poté fare a meno di sorridere amaramente davanti ai grandi giochi del destino, crudele e beffardo.
Ora, in quella vetrina, non solo non trovava più il suo nome, ora lì non c’era proprio più niente. Provò meno dolore quando si accorse di non riuscire a vedere neanche la sua immagine riflessa.
Il vetro rifletteva solo la strada, le macchine parcheggiate ed una fontanella dalla quale non usciva più niente.
Provò anche ad alzare il braccio, come per un saluto, per confermare quello che nella sua testa già pensava.

Il vetro, rimasto vuoto e impassibile, lo spinse con più fretta verso casa.


Arrivato sotto le palazzine, si fermò al primo portone, guardando la finestra del primo piano. Lì ci abitava Ivano.
La luce era accesa e, dalle persiane accostate, Massimo poteva vedere la sagoma della madre che si muoveva nella cucina. Pensò anche di andare a trovarla, di non salire a casa sua ad aspettare “il pulcetta” con la robba, di passare da lei soltanto per salutarla, ma ebbe il terrore di non riconoscerla.
Entrò velocemente al suo portone e salì le scale fino al secondo piano, dove c’era la casa dove era nato. Girò la chiave e aprì la porta, in casa non c’era nessuno.


Maria Teresa, la madre, era morta da tempo.
Massimo si fece una carezza da solo, pensandola.
Il fratello Maurizio viveva dalla fidanzata, Marco era a Belgioioso, in comunità, ed i più piccoli, Gianni e Barbara erano, come sempre,  al lavoro o in giro.
Anche Ugo, il padre, se ne era andato da poco. Massimo ricordò le risate con i fratelli quando Ugo, un omone grande e grosso in canottiera e bretelle preparava i panini al prosciutto a Chet, che era già senza denti e che impiegava due ore di orologio per mangiarli.
Oppure quando il padre tornava a casa dal lavoro, metteva su un disco di Coltrane, senza sapere chi fosse, si sedeva sul balcone, sempre in canottiera e bretelle, e piangeva per la commozione.

Massimo accese la televisione.
Trasmettevano “i soliti ignoti” che a lui piaceva tanto.
Abbassò tutto il volume aspettando “il pulcetta” eppure, stranamente, c’era musica nell’aria.


I don’t know why but I’m feeling so sad
I long to try something I never had
Never had no kissin’
Oh, what I’ve been missin’
Lover man, oh, where can you be?


Note al testo:

Il corpo di Massimo Urbani morì la notte tra il 23 ed il 24 giugno 1993.

La musica di Massimo è ancora viva, e si trova al fianco delle stelle del Jazz.

Questo mio scritto deve tutto alla musica di Massimo, un ragazzo di borgata che aveva uno spiccato senso per la vita ed una conoscenza profonda della musica dei suoi idoli d’oltreoceano.
Devo molto anche al lavoro di Carola De Scipio “l’Avanguardia è nei Sentimenti – Vita, morte, musica di Massimo Urbani” Stampa Alternativa, Roma, 1999, ed al bellissimo modo di raccontare vite in Jazz di Geoff Dyer.

Immagini di Jean-Michel Basquiat (December 22, 1960 – August 12, 1988)

mercoledì 14 maggio 2008

Io & Chet Baker, vent’anni fa.

0. Intro
 .
Chet Baker


Oggi,
in questa stessa notte di vent’anni fa,
una telefonata anonima agli agenti del commissariato di Warmoesstraat, segnalò il ritrovamento di un corpo senza vita sul marciapiede laterale dell’Hotel Prins Hendrik di Amsterdam.
 .
Gli agenti intervenuti, scrissero sul rapporto che il corpo era stato ritrovato di fianco ad uno di quei caratteristici paletti allineati sul marciapiede, riverso sul fianco destro in posizione fetale, con una maglietta a maniche corte ed un paio di pantaloni gessati. 
Il cranio era fracassato ed il viso ricoperto di sangue.
 .
Accanto al cadavere c’erano un paio di occhiali dalla pesante montatura in tartaruga.
Le condizioni del corpo sembravano di un uomo sui trent’anni, la sua posizione e lo sfondamento del cranio, fecero pensare che fosse caduto da una delle finestre dell’albergo.
 .
Non avendo documenti, non fu possibile identificare il cadavere.
.
the-end
 .
Solamente la mattina dopo, Venerdì 13 Maggio 1988 alle ore 08:00, l’ispettore Rob Bloos si presentò all’albergo per una breve indagine e per chiudere il rapporto.
Quando la receptionist disse che il cliente di una camera, chiusa dall’interno, non rispondeva alle sue telefonate, l’ispettore decise di forzare la serratura ed entrare.
Nella stanza il letto era intatto, ed era presente un solo bagaglio, una custodia rigida di una tromba.
All’interno c’era il dorato strumento, un orologio, cinquanta fiorini olandesi, un braccialetto, un accendino, meno di un grammo di eroina ed un pezzo di carta con sopra scritto Chet Baker.
 .
Il resto che si conosce sulla figura di Chet Baker è Storia, mistero, gossip o leggenda.
Ma la musica di Chet è reale, incisa una volta per tutte tra i solchi di centinaia di vinile.
Più reale forse dell’uomo che l’ ha interpretata, del quale, ai più, è stato possibile conoscere solo un’immagine.
 .
Questo che segue è il mio ricordo di Chet e della sua bellissima musica,
in forma di ballata.
.
Chet-on-Poetry

.

1.     Deep in a Dream
 .
“... then from the ceiling, soft music comes stealing;
we glide through a lover’s refrain.
You’re so appealing, that I’m soon revealing
My love for you over again...”
 .
 .
Ho conosciuto Chet una sera, alla fine del novembre 1987.
 .
Io che, appena diciottenne, ascoltavo il punk dei C.C.C.P. che in quell’anno avevano pubblicato “Socialismo e Barbarie”, io che in maggio avevo visto a Firenze i Litfiba del Live registrato sul disco “Aprite i Vostri Occhi”, io che avevo appena comprato “Kiss me Kissme Kiss me”  dei The Cure e “Tender Prey”, l’ultimo di Nick Cave and the Bad Seeds.
 .
Io amavo la musica, ma non conoscevo il Jazz, e Chet Baker non sapevo nemmeno chi fosse.
 .
Ma Alice si, e non ci mise molto a convincermi "lo devi sentire cantare…” mi disse, “…ti farà innamorare con una sola nota.”
Lei, con quegli occhi maliziosi e quella voce morbida e musicale, avrebbe fatto fare qualunque cosa a chiunque.
.
The incredible C B
 .
Il locale si trovava in Corso Vittorio Emanuele, ricavato dallo scantinato di un vecchio palazzo romano, piccolo e pieno di fumo. Noi arrivammo tardi, a concerto già iniziato e, nonostante fosse pieno di gente, si sarebbe potuto sentir cadere uno spillo.
 .
I musicisti erano praticamente in mezzo alla gente, con i tavolini attaccati alle ginocchia. Quello che stava suonando aveva una chitarra, una rada barbetta, pochi capelli unti e lunghi e un assurdo maglione da sci, verde e celeste.
Dietro, in piedi, un ragazzo con una folta capigliatura riccioluta, l’unico di loro in giacca e cravatta, sembrava appeso al contrabbasso, la testa buttata all’indietro e gli occhi piccoli, trasformati da delle lenti molto spesse.
Il terzo, seduto con una tromba appoggiata sulle gambe, era così assorto che sembrava dormisse. Le mani gonfie, una sigaretta dimenticata tra le dita, stivali da cowboy e degli occhiali troppo grandi per il suo viso scavato, segnato come una roccia graffiata dal mare dopo millenni di vento.
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Chet live
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Poi, senza aprire gli occhi e muoversi troppo, cominciò a sussurrare
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“… la sigaretta mi brucia, mi sveglio
la mano non è ferita ma è il mio cuore che soffre;
ma noi ci ameremo ancora come facevamo una volta,
quando io sogno, profondamente te…”
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Mi persi un po’ tra le parole che trovavo sdolcinate, ma era il suo modo di cantarle, come fossero dedicate ad ognuno di noi, come se le stesse dicendo piano, intimamente, ad ogni singola persona che si trovava lì, che mi catturò. Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso, neanche quando Alice mi trascinò tenendomi per mano, facendosi largo tra un mare di gente, fino a raggiungere un tavolo vicinissimo a loro tre, con su scritto “Riservato Miss J”.
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In quel momento, molto lentamente, il tipo seduto con gli occhiali alzò la sua tromba. Forse per un gioco di luci, o perché eravamo molto vicini, ma quel movimento mi affascinò, svelandomi tutta la bellezza di quello strumento.
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chet-w-tp
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Curve morbide, levigate e perfette, tubi che si incrociano e si ritorcono su se stessi con una naturalezza che non svela complessità, e poi, la lucentezza.
Mille riflessi la fanno esplodere, tra guizzi di luce che si rincorrono accecanti e oscuri lati d’ombra, invertendo le parti in un cambiamento in continuo movimento, su una superficie sempre cangiante, che riflette lui e, cattura e deforma tutti noi.
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Poi, avvicina la tromba alle labbra e, senza alcuno sforzo, comincia a suonare.
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Attacca con un soffio caldo, da cui nasce un suono basso, rotondo, soffuso e continuo.
Gli occhi sempre chiusi e le dita, gonfie, che si muovono incredibilmente agili, creando una variazione di suoni che sembra impossibile fare usando solo tre tasti.
La tromba non segue la melodia del cantato, soltanto rifacendolo, ma scende in profondità, esplorando stanze nascoste che la voce non aveva considerato, ricreando un’atmosfera di intima complicità, di dialogo privato, come se suonasse solo per me. Solamente per uno di noi alla volta.
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Poi una voce alle spalle, normale e quindi sgradevole, mi riporta alla realtà “Seduto, per favore”.
Non me ne ero neanche accorto, ma mi ero innamorato.
 .chet

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2.     Zingaro
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“…com seus mesmos tristes, velhos fatos
que num àlbum de retratos
eu teimo em colecionar … 
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Non mi sono ancora seduto che il tipo con la tromba, incurante degli applausi, riprende a suonare.
Subito cala il silenzio, e in tutto il locale è come se il tempo si fosse fermato.
Ci sono solo io, lui e il suo suono.
Nasce una melodia lenta ed avvolgente, che Alice in un sospiro mi presenta come “… bossanova …”.
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Chet on-light
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La tromba inizia lenta, indietro nel tempo anzi, sembra addirittura fuori.
In realtà, ma questo lo capirò solo dopo sei o sette minuti, il suo suono è tra il tempo, decidendo se spingerlo avanti o obbligare tutti ad attenderlo, a pendere dalle sue labbra.
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Disegna il tema, con un’esecuzione apparentemente noncurante, distaccata e proprio per questo profondamente affascinante, con un suono senza vibrato, quasi parlato, facendo solo le note necessarie, senza aggiungere niente, come se quella fosse la prima ed ultima volta che lui suonasse quella canzone.
Poi, con un arpeggio leggero entra la chitarra, ripete il tema tessendo un tappeto di note minime, cristalline, semplici ed ariose che dialogano con la tromba, che replica il pezzo come prima, eppure ancora nuovo.
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thinking-chet
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Accanto a me Alice, ad occhi chiusi, sentendo la musica con tutto il suo corpo, in maniera naturale come se stesse respirando, canta a voce bassissima
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“…vou colecionar mais um soneto…
outro retrato em branco e preto
a maltratar meu coração…”
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È solo quando la chitarra va in assolo che, doppiando il tempo, la canzone si colora di tinte caraibiche, di malinconie latine e ballabili, permettendo cosi alla tromba di interpretare la melodia liberandola, con la stessa bellezza e fragilità del volo di una farfalla.
Per ultimo, il tipo al contrabbasso ricostruisce il tema dalla base, dal tempo e dal suo ritmo, dalla carnalità delle vibrazioni, che si spandono intorno e toccano delicatamente le corde più profonde, tornando all’origine, dove tutto è nato. 
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In quel momento, finalmente, il tipo con la tromba apre gli occhi piccoli, vispi e furbi, come quelli dei bambini sanno essere, ma su un viso stanco e troppo vecchio. Poi, guardando nella nostra direzione, sorride, stirando la pelle del suo viso finora accartocciata, trasformando la sua bocca piccola e ben disegnata in una stretta fessura, dedicando un affascinante sguardo alla mia compagna.
Nasconde una tragica bellezza quello sguardo, la disperazione dei vinti e la forza di chi deve per sempre continuare a provare, per non morire dentro, per rinascere ogni volta.
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Finisce il pezzo, lui si alza, ringrazia il pubblico e se ne va, lasciando sulla sedia la sua tromba, ammaccata, graffiata e bella quanto lui.
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trumpet
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Il pubblico applaude, fischia, batte i piedi e lo chiama per nome in un tripudio di follia, tutto per vederlo, per rivederlo ancora una volta.
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E infatti lui rientra.
Con un sorriso compiaciuto si offre ancora a noi, ringrazia, prende con dolcezza la sua tromba, si siede e, in un rispettoso silenzio, si accende lento una sigaretta.

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3.     My Funny Valentine
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Chet PP
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Le luci sul piccolo palco sono spente, solo il pulsare della brace della sigaretta che si infuoca e si affievolisce mi ricordano che il tempo passa.
Sempre al buio, pianissimo in crescendo, parte il contrabbasso. Un suono legato, lungo, che con l’arco trascina le note in una lenta melodia, che passa dall’acuto al grave con una consistenza terrena, reale, quasi tangibile.
Poi la chitarra accenna appena il tema. Una breve sequenza di note che si insinua dentro, con la stessa semplice intensità di quelle musiche che, una volta ascoltate, restano in testa tutta la giornata.
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“…Myyy…
funny Valentine,
sweeet
comic Valentine ...
youu maaaake me smiiile with my heart...”
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Chet sings
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Quando Chet inizia a cantare, gli altri due cedono il passo, restando nell’ombra di un accompagnamento discreto, riconoscendo alla voce la stessa valenza di uno strumento, con una musicalità ed un senso del ritmo che gli permette di andare avanti da solo, con la bocca attaccata al microfono come se stesse sussurrando nell’orecchio della sua amata.
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Allunga le vocali quasi a voler rendere interminabile quella dedica d’amore
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“… yooour looks are laughable,
unn... photograa... phable
yet, you’re myyy fa-vo-urite work of art...”
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Tocca di nuovo alla chitarra il ruolo di elevare la musica ad uno stato etereo, un tocco limpido, luminoso, lieve e quasi azzurro, che trasporta la canzone ad un’altezza irraggiungibile per qualsiasi strumento di legno. Riparte dalla prima battuta e, in un assolo dondolante, mi dona l’immagine di un amore che conoscevo, ma di cui non conservavo memoria.
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Chet
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“… is your figure leess thaan greek?
iiiis your moouth a little weak?
... when you ooopen it to speack,
aa-aaare you smart...”
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É solo quando il pizzicato denso e scuro del contrabbasso mi vibra dentro che mi ricordo di non essere solo con Chet. 
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Guardo accanto a me Alice, il suo profilo africano forte eppure cosi armonico, le sue labbra lisce e arrotondate come le dune di un deserto sconosciuto, affascinanti e pericolose.
Ha i capelli raccolti che scoprono la linea del collo, che parte dalla spalla e sale, perfetta, fin dietro l’orecchio, dove la pelle è delicata e sensibile. 
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Il solo del bassista fa tornare la canzone reale, disegna le forme e colora la pelle della mia Valentine, che non è più astratta nella mia mente, ma accanto a me in carne e sangue, e mi fa pulsare di vita.
.Chet plays
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Poi lei chiude gli occhi e, un secondo dopo, il suono della tromba riempie il locale e tutti gli spazi vuoti dentro di me, trasportandomi fuori da tutto, con un suono a volte incerto, caldo e naturale come il vento che si ode tra le foglie, come la brezza che si gode di fronte al mare.
Ripete l’inciso con poche note inevitabili.
Eppure c’è dentro tutta la canzone, una melodia di quelle che non si possono dimenticare, densa e rassicurante, sensuale e romantica come solo certi ricordi sanno essere.
Lui incarna tutte e due le facce della canzone, la porta in alto rendendola spirituale come pura poesia e la riporta nella realtà, tra le lenzuola ancora tiepide di un letto vuoto, donandogli carnalità.
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Lui è la canzone.
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old-chet
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Dopo, in un sospiro riprende a cantare
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“… don’t change a hair for me
not if you care for me
stay, little Valentine, stay...
each day is ... a Valentine’s day...”
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Termina la frase delicatamente, come uscendo da dentro di lei, e non c’è stacco tra le sue parole ed il silenzio che segue. Restiamo tutti ancora assorti, come se quel silenzio facesse parte della sua musica. Lui rimane piegato sul microfono, le labbra che ancora lo toccano, gli occhi chiusi. Solo dopo qualche secondo, interminabile, di quiete, il pubblico si rende conto che la canzone è terminata.
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 Tra gli applausi Alice si alza e mi dice
“…vieni, ti faccio conoscere Chet.”
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Chet

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Note alla selezione musicale:
mi sarebbe piaciuto registrare quel concerto ma, all’epoca,
la mia passione doveva ancora nascere e questo blog non era che un sogno inutile.
Perciò la scaletta, nonostante riprenda quei brani, è così composta:
 Chet-long

  1. “Blue room”, only vocal – 1’25”
from Deep in a Dream the Ultimate Chet Baker Collection
Pacific Jazz 2002

  1. “Deep in a Dream of You” – 6’38”
 from LP Deep in a Dream of You - Moon MLP 026
Chet Baker (tp, v.) Jacques Pelzer (fl) Harold Danko (p)
Isla Eckinger (b)
Rome, Italy, 1976

  1. “Portrait in Black and White (Zingaro)” – 15’30”
from LP Memories, Chet Baker in Tokio – Paddie Wheel K28P 6491
Chet Baker (tp, v.), Harol Danko (p), Hein Van Der Geyn (bass),
John Engels (drums)
Tokio, Japan, June 14th, 1987
4. “My Funny Valentine” – 7’15”
from LP Chet Baker Sings Again – Timeless SJP 238
Chet Baker (tp, v.), Michel Graillier (p), Riccardo Del Fra (bass),
John Engels (drums)
Monster, Holland, October 8 th, 1985