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venerdì 24 novembre 2023

Ritorni d'autore: Babylon | Oppenheimer | Coup de Chance | The Killer | Monster

Due innamorati ballavano romanticamente e si interrogavano, speranzosi, su come conciliare sentimenti e carriera. Questa volta ci sono elefanti in pista da ballo, umori corporei, feticismi. Come si è passati dal musical al baccanale, dal sogno al delirio? Caustico, volgare e disincantato, il film tradisce la fiaba per raccontare l'evoluzione della settima arte. E la progressiva degenerazione del mondo che c'è dietro. Si passa dal muto al sonoro, dai divi alle meteore, dal western alla commedia: il tutto per accontentare un pubblico che in fretta si annoia e dimentica. Babylon ha anticipato lo sciopero degli sceneggiatori. Ha irritato Hollywood e infastidito gli spettatori, entrambi artefici del meccanismo perverso che fagocita i protagonisti. Il pubblico deve essere intrattenuto. Chi non sa reinventarsi è spacciato. Pitt è sul viale del tramonto, come l'amica Swanson; Robbie prende lezioni di etichetta, ma il richiamo del lato selvaggio è forte; Calva rischia di essere risucchiato dal caos della festa che si limitava a contemplare. Questo Chazelle è coreografico come Luhrmann; folleggia come Tarantino. Maneggia serpenti, ammazza comparse, divora topi. Provoca e denuncia, in un'opera esilarante ed esaltante, pornografica e candida. Mi rincresce averlo perso al cinema. Sarebbe stato un onore piangere insieme al protagonista, nel finale, e guardare attraverso i suoi occhi schegge di Gene Kelly, di angeli e fantasmi. (10)

È sulla bocca di tutti da prima dell'uscita. L'ho visto a oltre un mese di distanza dall'arrivo in sala, impermeabile a qualsiasi entusiasmo. Oppenheimer, accolto come il capolavoro di Christopher Nolan, è per me un film grande che non diventa mai un grande film. Algido, logorroico, cerebrale, stordisce a suon di nomi e informazioni, ma mostra il portento e l'orrore della bomba atomica fuori scena. A distanza di sicurezza. Restano i tormenti dell'uomo, qui interpretato da un emaciato Cillian Murphy, diviso tra patriottismo e senso di colpa; quei troppi dettagli, a metà tra scienza e politica, che lasciano a lungo confusi. L'emotività irrompe soltanto nell'ultima parte: un processo alle intenzioni in cui ogni azione è in discussione e, a sorpresa, a rubare la scena è la tradita, sottostimata moglie interpretata da Emily Blunt. Non ho ben compreso il ruolo del doppiogiochista Robert Downey Jr, ben nascosto sotto un mascherone di trucco ma sempre insopportabilmente gigioneggiante. Non ho capito il troppo rumore per nulla, o quasi. Da questa detonazione mi sarei aspettato un brivido lungo la schiena; l'acufene; un'eco maggiore. Il biopic sull'inventore dell'atomica, invece, è una docufiction magistralmente diretta e montata a cui tuttavia manca il sano ardore di Prometeo. Senza fuoco, fuori fuoco, si rivela un compito diligentemente svolto e poco altro. (6)

Alla tenera età di ottantotto anni, Woody Allen dirige il suo cinquantesimo film. E ogni volta che torna in sala è sempre un po' festa. Quanto ci mancava? Quanto ci mancherà? Sfortunatamente, nonostante sia stato misteriosamente ben accolto all'ultimo Festival di Venezia, Coup de Chance è una commedia nera senza grandi guizzi che, scegliendo un idioma e toni diversi, si limita a riproporre l'acuminato triangolo sentimentale dell'indimenticato Match Point. Questa volta la moglie trofeo, interpretata dall'incantevole Lou de Laage, è divisa tra l'amante scrittore e il ricco marito malavitoso. Se la sorte ci mette lo zampino, ribalterà tutto la puntualità dell'epilogo per regalarci, in extremis, un sorriso beffardo. Il resto appartiene a un Allen logorroico e eccezionalmente francofono, piuttosto povero di contenuti, che strizza l'occhio alle donne infedeli di Chabrol e ammalia grazie alla fotografia assolata del solito Vittorio Storaro. Checché se ne scriva, gli ho preferito di gran lunga gli ultimi film: il teatrale La ruota delle meraviglie, lo scoppiettante e giovanile Un giorno di pioggia a New York e perfino Rifkin's Festival, sottovalutata delizia cinefila troppo in fretta sacrificata sull'altare dello streaming. (5)

Un sicario è appostato sui tetti parigini. Non dorme, non ha sentimenti, non sbaglia mai. Finché non manca il bersaglio e per lui ha inizio una fuga rocambolesca che tocca altre quattro città, altri quattro capitoli, nel tentativo di costruirsi un futuro alternativo accanto alla compagna lontana. Lo interpreta Michael Fassbender, attore troppo a lungo assente dalle scene. Asciutto, stiloso, inafferrabile, indossa camicie floreali da turista tedesco e si concentra ascoltando i successi degli Smiths. Come se non bastasse, firma il tutto David Fincher, finalmente tornato al thriller dopo la parentesi metacinematografica dell'autoriale Mank. Al secondo film per Netflix, il regista cult torna sugli schermi con l'adattamento di un graphic novel nelle sue corde. La violenza c'è, ma è raffinatissima. Gli omicidi abbondano, ma i corpi quasi non sanguinano. Gli scontri fisici sembrano coreografie studiatissime. Chirurgico, rigoroso, freddissimo, questa volta si diverte e diverte con un film d'intrattenimento godibile ma non all'altezza. Perché The Killer, partito sotto i migliori auspici con un omaggio al miglior Hitchcock, diventa una pellicola d'azione che non ha né la classe di James Bond, né la leggerezza di John Wick. Colpa di un soggetto tutt'altro che memorabile, in cui l'entrata in scena di Tilda Swinton rappresenta il momento di maggiore curiosità: peccato sia impegnata in poco più che un cameo. L'ultimo Fincher, come il suo killer dall'insopportabile voce narrante, intrattiene in poltrona ma non fa centro. (5)

Lo strano comportamento di un bambino insospettisce gli adulti. La mamma, iperprotettiva, fatica ad ammettere che il figlio stia crescendo; il maestro, tacciato di maniere forti, è forse più lungimirante di altri; la preside, reduce dalla morte della nipotina, modera per tutelare l'istituto. Il protagonista è una vittima o un bullo? Chi, fra lui e un fragile coetaneo, è il mostro? Kore'eda torna Giappone con una sceneggiatura perfetta. Delicatissima e magistralmente orchestrata, mostra la stessa vicenda attraverso tre punti di vista complementari. Ne viene fuori un puzzle sui segreti di grandi e piccini, che favoleggia di rinascita. Quieto ma pervaso di tensione, sceglie di mantenersi ambiguo fino alla fine: nemmeno l'epilogo ci chiarirà se abbiamo assistito o meno a una tragedia. Monster inizia con un incendio e termina con un tifone. E, fra le due calamità, lascia posto alle scosse sismiche della pre-adolescenza. Come in una versione più stratificata di Close, Kore'eda descrive il momento in cui la purezza dei bambini viene meno. Saranno mai felici al di fuori di quel vagone ferroviario al centro del bosco? Nella sequenza più memorabile (insieme a quella di quattro mani che tentano di pulire un finestrino dal fango), la preside insegna al piccolo protagonista a soffiare via il dolore in una tromba. E gli suggerisce che, se non è per tutti, non è felicità. Non c'è giallo più fitto dei propri sentimenti. (7,5)

mercoledì 30 settembre 2020

Recensione: Proprio come te, di Nick Hornby


| Proprio come te, di Nick Hornby. Guanda, € 18, pp. 368 |

Lei è Lucy, quarantadue anni, insegnante reduce da un divorzio burrascoso: bianca. Lui è Joseph, ventidue anni, babysitter, allenatore di calcio, aspirante deejay: nero. Loro si conoscono un sabato al bancone della macelleria presso cui il giovane lavora nel weekend. Entrambi abituati a sentirsi inadeguati, si piacciono all’istante ma è vietato flirtare durante le contrattazioni: a Lucy, per di più, serve proprio un babysitter per i suoi figli. Insomma: di mezzo c’è un rapporto di lavoro, e c’è che vent’anni di differenza e una diversa estrazione sociale sono troppo da superare. Ma lo so cosa state pensando: è una commedia romantica! I contrasti e le barriere sono soltanto piccoli ostacoli sulla via che conduce al lieto fine. L’ho creduto anch’io davanti a una lettura che mi figuravo simpatica, leggera, spensierata. E a lungo Proprio come te è esattamente questo:  la storia di un inatteso colpo di cuore che si fa leggere con un sorrisone che va da guancia a guancia. Il merito spetta alla verve comica di Nick Hornby. Amato e seguitissimo tra cinema e televisione, era in lista da anni ma questo è il primo romanzo dei suoi che riesco a leggere. Nonostante l’intreccio elementare, posso dirmi comunque sorpreso. Perché, com’è noto ai più, Hornby è forse l’artefice di alcuni dei dialoghi più brillanti su piazza – ho pensato a Woody Allen e Amy Sherman-Palladino – e i suoi protagonisti son indagati sin nelle pieghe più intime.

È questo il punto. Basta essere legato a qualcuno, e sei nei guai.

L’inizio della relazione tra Lucy e Joseph è tanto naturale quanto adorabile. Si scambiano SMS dalla punteggiatura perfetta, e la punteggiatura è sexy; si danno alle maratone dei Soprano sul divano; sgattaiolano al piano superiore per fare sesso a ogni occasione buona. In segreto giocano alla famiglia felice. Ma come se la cava una coppia improbabile alle prese con la vita nera? Quali film andare a vedere al cinema, se il gap generazionale è grande? Cosa dire agli amici e alle famiglie? Come guardare al futuro, se l’orologio biologico di lei ha le ore contate? Nick Horny, nella seconda parte, lascia spazio a quello su cui i film preferiscono glissare: le fragilità, i dubbi, le paure. Le cene in pubblico, ad esempio, infondono un’orribile ansia da prestazione. Lucy reagisce con l’entusiasmo di una mamma chioccia davanti ai successi musicali del partner. Joseph sbadiglia come un adolescente annoiato a teatro. Sulla scia dei loro ripensamenti, la narrazione si appesantisce più del previsto. E la commedia romantica degli inizi perde il brio del primo incontro e trova l’amara verità. Diventa qualcosa di più. Le situazioni alla Indovina a cena, così, cedono il passo alle zone grigie già popolate dagli amati-odiati protagonisti di Persone normali.

E proprio per questo Lucy era speciale: lei lo tirava dentro il presente. […] E forse in questo non c’era futuro, ma c’era il presente, e proprio in questo consiste la vita.

Gli amori non richiedono forse una fatica immane? Nella vita di coppia contano più le affinità o le differenze? Circondati da una galleria di secondari esilaranti, sullo sfondo di una giungla urbana nevrotica e multirazziale, gli innamorati devono lasciare la confortante parentesi in cui si sono rifugiati per il debutto ufficiale in società. Si imbatteranno nelle opinioni sgradite di chi mette al vaglio la felicità altrui. Conosceranno in prima persona il pregiudizio dei quartieri bene: se un ragazzo di colore bazzica sotto casa, purtroppo, i vicini saranno ben pronti ad allertare la polizia. Per di più, corre l’anno 2016: gli inglesi sono in fermento per il referendum, mentre dagli Stati Uniti si allunga già l’ombra sinistra di Donald Trump. La scelta – Leave o Remain – inevitabilmente diventerà anche la metafora del destino dei due. Se il lieto fine è in dubbio, nell’impossibilità di imparare ad amarsi un giorno alla volta, ci si può forse astenere dal voto?

Il mio voto:  ★★★★
Il mio consiglio musicale: The Beatles – Hello, Goodbye

sabato 7 dicembre 2019

Mr. Ciak: Storia di un matrimonio | Un giorno di pioggia a New York | C'era una volta a Hollywood | L'ufficiale e la spia

Qualche giorno fa ho fatto l’albero. Mi sono subito accorto che c’era qualcosa che non andava: era stato riposto di fretta e qualche ramo si era spezzato; due delle quattro serie di luci led, inoltre, erano fulminate. Rinunciare all’idea oppure montarlo come andava andava? Storto e spennacchiato, adesso mi fa compagnia mentre scrivo: non è il primo che metto in piedi da solo. Odio l’allegria obbligata del mese corrente, e la conta degli alberi di Natale fatti alla bell’e meglio mi aiuta a tenere a mente gli anni trascorsi da quando siamo andati in pezzi. L’ultima immagine della mia famiglia risale a dicembre. Quest’anno fanno quattro anni: pensavo di più. Ripenso alla nostra vecchia formazione, e sembra una vita fa. Mentre cercavo di non cader vittima della malinconia, l’attesa alle stelle mi ha spinto a vedere l’ultimo film di Baumbach – acclamato a Venezia, ma tornato a bocca asciutta – in occasione di questa amara ricorrenza. A dicembre, ho visto finire anche il matrimonio tra Adam Driver e Scarlett Johansson. E la visione mi ha talmente devastato che in sala, sentendomi singhiozzare, qualcuno avrebbe chiamato un’ambulanza. Purtroppo o per fortuna, è soltanto su Netflix. La mia potrebbe sembrare la cronaca di un dramma pesante e distruttivo, ma chi conosce il cinema di Baumbach – io pochissimo, e ammetto di non averlo mai apprezzato – non può che aspettarsi siparietti esilaranti, vedasi ad esempio i piantonamenti dell’assistente sociale, o comprimari sopra le righe come l’avvocatessa di un’inviperita Dern. Lui e lei all’inizio restano in rapporti civili: legati da un sodalizio artistico lungo un decennio, giungono a un crocevia nel momento in cui le loro carriere prendono strade opposte – il primo scritturato a Broadway, l’altra assunta per una serie TV a Los Angeles. Il goffo pigmalione e la sua musa entrano in collisione per il bene dell’unico figlio. Chi lo crescerà, e dove? Inizierà una lunga battaglia legale e, senza esclusione di colpi, ci si farà male. Benché colti e divertenti, gli ex diventeranno delle belve: una sorte che non risparmia nessuno. Nemmeno il regista in persona, che in un film autobiografico commuove parlandoci delle contraddizioni dell’uno e dell’altro. Allora quanto odio per Scarlett: colei che fa il primo passo e sceglie infine il tribunale. Quanto odio anche per Adam: un gigante buono che, in una lite furibonda, vomita parole così oscene da farmi sentire l’esigenza di mettere in pausa lo streaming. Da figlio di separati, ho sentito ogni recriminatoria. Ma le lacrime sono scorse più per la bellezza dei piccoli gesti che per la bruttezza delle parole pesanti. Anche quando tutto è finito si trova infatti qualcosa per cui sorridere: il ritornello di un musical al karaoke; un foglio volante con su scritti i pregi della persona amata; il dettaglio di quei capelli ormai da accorciare, o di una scarpa sciolta. Come permettere che un nostro caro inciampi? Non si può. E così io mi preoccupo, faccio giri di telefonate, addobbo. Onorando il padre e la madre, nella casa del matrimonio che hanno disonorato. (8,5)

Dopo il dramma della Ruota della fortuna, dopo lo scandalo dell’infamia, il prolifico Woody Allen ha voglia di voltare pagina e dimenticare. Tornando a un passato d’oro: ossia quello dello skyline di Manhattan, del jazz in filodiffusione, dei bellimbusti galanti e nevrotici. Lo fa con una commedia come non ne dirigeva da un decennio, sabotata in patria e salutata con affetto in Italia: una sorpresa. Invecchiando, infatti, ci si inacidisce. Il regista ottuagenario è invece protagonista di una novella fioritura. In forma smagliante, compone un puzzle romantico con ogni pezzo al posto giusto e una sceneggiatura talmente brillante da rendere gli zigomi doloranti per il ridere. Poligono sentimentale perfettamente in linea con il suo stile, ma riadattato a favore delle nuove generazioni, può contare su una scrittura a orologeria e su un autore quanto mai al passo con i tempi. Divertenti, divertiti e meteoropatici, i protagonisti passano un giorno in città: il prezzemolino Chalamet, elegantemente fuori moda, è figlio dell’Upper East Side ma come Il giovane Holden rifugge i salotti e l’ipocrisia; Elle Fanning, attrice dal talento comico finora inespresso, è una reginetta di bellezza la cui ingenuità suscita ilarità nel pubblico e mai biasimo: desiderosa di essere una reporter, si perde appresso a scandali da rotocalchi, contesa da un regista in crisi, uno sceneggiatore tradito e un attore traditore; Selena Gomez, amica di famiglia, stupisce invece piacevolmente per le risposte acidissime e una sensibilità affine a quella del protagonista. La pioggia spariglia le carte in tavola, cambia le relazione e il colore del cielo. Imbottiglia le automobili in code infinite. Qualcuna la ama, qualcun altro la odia. Ma in un film delizioso e scintillante come questo – Storaro, illuminami d’immenso; Allen, mi trasferisco in una tua commedia – vien voglia di buttare l’ombrello e di saltare nelle pozzanghere. Per godere del futuro arcobaleno: una visione in mezzo allo smog. Per concedersi un altro amore: una salvezza dal solito cinismo. (7,5)

Non avendo rapporti idilliaci con Tarantino, ho affrontato piuttosto spaventato le due ore e trenta del suo film più divisivo. Confuso dai pareri discordanti, al tempo dell’uscita ho preferito evitare noie e delusioni: conservo infatti ricordi pessimi dell’interminabile The Hateful Eight, visione che ricordo particolarmente faticosa. Poteva andarmi meglio. Poteva andarmi peggio. C’era una volta a Hollywood è costituito da storie che viaggiano a velocità sostenuta e che non si incontrano mai sullo stesso binario. Storie di ricadute e rinascite, con lo star system sullo sfondo, dove invenzione e verità si mescolano a piacimento ma senza un disegno preciso. Qual è il punto di questo film: lungo, popoloso, ondivago? La prima ora e mezza è occupata da un piacevolissimo andirivieni di bella gente. DiCaprio, talento della recitazione intrappolato in ruoli da antagonista, sgomita per brillare in western dimenticabili; Pitt, controfigura e autista part-time, lo scarrozza a destra e a manca; Margot Robbie, sempre al centro della scena a passo di danza, è invece la splendida moglie della casa accanto. Il delitto di quest’ultima, Sharon Tate, è appena marginale. Il ranch di Manson è intravisto in una tappa fugace e, se non fosse per un trascurabile cameo, Charlie sarebbe assolutamente assente. Ci sono gli anni Sessanta però: dappertutto attori glamour, finanche fra le comparse – Pacino, Fanning, Hirsch, Olyphant –, radio e televisori ad alto volume. Una Los Angeles polverosa e trafficata, zeppa di figli dei fiori, caravan e inattese proposte di lavoro. La prima parte mi è piaciuta moltissimo. Peccato per quel salto temporale di sei mesi: con Leonardo di ritorno dalle riprese in Italia, l’intromissione di un’orribile voce narrante, l’arrivo della famigerata notte del massacro – qui messa in ridicolo e affrontata  in un trip inutilmente sanguinoso, con mosse alla Bud Spencer. Lieve e autoironico, a confine tra omaggio e fiaba, l’ultimo Tarantino usa il cinema – fabbrica dei sogni per eccellenza – per riscrivere la storia. Ma il suo film, sentito ma piuttosto sbavato, dubito che scriverà la storia della settimana arte. Soltanto i fan, di parte, potranno reputarlo riuscito. (6,5)

Altro film d’autore passato in Laguna, altro grande ritorno, L’ufficiale e la spia non è tornato in Francia a mani vuote: contestatissimo dalla stampa a causa dell’ennesima denuncia a carico di Polanski, il thriller d’inchiesta ha preso Venezia in contropiede guadagnando a sorpresa il Gran premio della giuria. Alla contentezza generale, a scatola chiusa, mi sono aggiunto anch’io: è necessario scindere l’artista dall’essere umano; condannare l’uomo senza censurarne il lavoro. A fine visione, reduce da un film tanto solido quanto scolastico, purtroppo ammetto a malincuore un po’ di delusione davanti a una ricostruzione nient’affatto memorabile. Forte di un irresistibile fascino polveroso e dell’interpretazione di Jean Dujardin, ci fa dimenticare a colpi di eleganza il disastro che fu Quello che non so di lei. Ma benché tecnicamente esemplare, per me resta piuttosto modesto sul piano narrativo. Avvincente ma schematico, si sfilaccia e si appesantisce nella parte conclusiva. Perde gradualmente potenza, fino a risultare una cronaca enciclopedica in sede di processo: la parte clou, ridotta purtroppo a una piccola parentesi nella quale ci si scorda della vittima Dreyfus. Interpretato da un irriconoscibile Garrel – purtroppo, rispetto a lui, sulle scene è più presente la pessima Seigner –, l’ufficiale ebreo accusato d’alto tradimento viene prima recluso su un’isola deserta, poi riscattato dalle indagini del suo superiore. L’antisemita Dujardin, infatti, dichiara la propria fallibilità di uomo e di statista davanti alla falsità dell’accusa e trascina in tribunale i servizi segreti. Seguire il proprio orgoglio, o l’onestà? Leggibile tra le righe anche in chiave autobiografica – Polanski si dichiara innocente –, quest’atto di accusa risulta ancora attuale, ma mi è parso freddo e informativo. Restano quadri bellissimi, con simmetrie vagamente hitchcockiane, e la sensazione di trovarsi al cospetto di un’opera da museo. E in un museo non si alza la voce. Non ci si arrabbia. Non ci si indigna. (6) 

martedì 27 novembre 2018

I ♥ Telefilm: Homecoming | Crisis in Six Scenes

Le geometrie di Kubrick, gli split screen di De Palma, l'aspect ratio di Dolan, il Soderbergh che filmava la claustrofobia con l'iPhone. Sam Esmail, quarant'anni e una carriera tutta in discesa dopo il successo di Mr. Robot, è andato a scuola dai migliori. Primo della classe, nonostante le scarse attrattive di una storia lisergica di hacker e complotti che al suo esordio non mi aveva conquistato, torna a ipnotizzare dall'alto di una regia bellissima. La sua macchina da presa sfida la paura delle vertigini: un tutt'uno perfetto con l'eleganza del vetro e dell'acciaio, il verticalismo hitchcockiano delle scale a chiocciola, una colonna sonora che spazia dalle arie di Handel ai rimbombi stridenti dei noir vecchio stile. E nobilita, così, un thriller psicologico che più classico non si può: rigoroso ma non senza ironia, algido ma non senza sentimento; rétro eppure modernissimo. Un addetto all'ufficio reclami, ossessionato dalla verità, s'improvvisa investigatore: cosa nasconde una compagnia che cura i veterani dal disturbo post-traumatico? Diciotto pazienti, sei settimane per reintegrarsi; lavori di gruppo, giochi di ruolo, scherzi e confidenze, in una mensa dove il martedì servono gnocchi a pranzo. Qualcuno vorrebbe andare oltre, qualcun altro addita intrighi dappertutto. Potrebbe saperne di più l'ex consulente Julia Roberts, che matura – anagraficamente e artisticamente – senza tradirsi mai, donando il suo sorriso e tanta femminilità a un personaggio che all'inizio appare intransigente e distaccato. Non più psicologa, ma cameriera in una sudicia bettola, ha un nuova routine, un nuovo domicilio – vive con una mamma d'eccezione, Sissy Spacek – e misteriosi buchi nella memoria. Cosa l'ha spinta a quell'inspiegabile retrocessione professionale? Il presente asfittico è in 1:1, mentre il passato in 16:9. E nel passato si annidano le chiamate di uno spietato Bobby Cannavale, Mefistofele che scoraggia (e ispira) riflessioni etiche ed esami di coscienza; la complicità con Stephan James, che forse esula dalla relazione medico-paziente e insospettisce qualcuno ai piani alti. Semplice ma reazionario nel suo piccolo, Homecoming ha episodi che si aggirano intorno ai trenta minuti di durata – di solito, priorità delle comedy – e una chiusa poetica in stile Comet. Se l'ottava puntata è una doppia corsa a cui riescono a stare meravigliosamente dietro un montaggio e una scrittura senza segni d'affanno, nona e decima si prendono tutta la calma del mondo in vista dell'epilogo pacato e un po' magico dei film indie. Ecco le chiacchiere in una tavola calda, il sorriso commosso davanti a una posata fuori posto, i dubbi dopo i titoli di coda con la promettente Hong Chau. Homecoming si accalora, si colora, si amplia e, in campo neutrale, si apre finalmente all'emozione. Come una gita in macchina dalla Florida alla California, da The Manchurian Candidate a Eternal Sunshine of the Spotless Mind, che apre gli occhi sui pro e i contro di una società alla Black Mirror mentre invoglia a sognare un po'. (8)

Prendete una coppia in là con gli anni, ebrea e conservatrice: lui, pubblicitario e scrittore, riposta l'ambizione di diventare il nuovo Salinger, confessa al barbiere l'idea di sceneggiare una serie televisiva; lei, un po' Diane Keaton e un po' Allison Janney, è invece una consulente matrimoniale che si barcamena fra coniugi in crisi e borghesi annoiati. Fuori impazzano gli anni Settanta: le manifestazioni giovanili, il rock, la ferita del Vietnam. Possono forse sentirsi protetti dal divenire storico se nemmeno la loro casetta è a prova di invasore? Qualcuno irrompe nella loro routine senza annunciarsi né chiedere il permesso. È una Miley Cyrus che a sorpresa regge benissimo i dialoghi fiume e i tempi comici di un cinema al solito verbosissimo, con un ruolo cucitole su misura: bionda, hippy e spregiudicata, fugge dalle accuse di terrorismo – immaginatela come l'irrequieta Dakota Fanning di Pastorale Americana – e semina tempesta. Pane per i denti di un ottantenne ipocondriaco e misantropo, che sa ridere di morte e politica a patto che nessuno mangi a tradimento il pollo della sera prima o le adorate arance Navel. Il risultato della convivenza forzata? Un'esilarante andirivieni che mette a soqquadro un attempato club del libro (le adorabili partecipanti leggeranno gli aforismi di Mao, i segreti della guerriglia, le istruzioni per fabbricare bombe con gli stessi principi del bricolage), le ideologie di un cocco di mamma che d'un tratto scopre di preferire le cattive ragazze (con buona pace di Rachel Brosnaham, futura Mrs. Maisel), le giornate di due anziani professionisti convertiti presto all'agilità dello spionaggio. Scrive e sceneggia Woody Allen, e si sente, e si ride, e fa la differenza. Crisis in Six Scenes, produzione Amazon vista con estremo ritardo per via del gran parlarne male, mi è parsa una commedia di quelle che mancavano da un po'. Da Blue Jasmine in poi, infatti, il regista si era dato a copioni più malinconici e a stelle più sfavillanti. Si era nascosto dall'altra parte della macchina da presa, quando in realtà nei suoi occhiali a fondo di bottiglia e nei suoi modi goffi mi sono sempre rivisto con estrema simpatia. In un formato per lui inedito, in una casa sempre più rumorosa e affollata, riesce a far faville pur non osando mai con una storia di conflitti e dissapori generazionali in cui subito mi sono sentito nel mio elemento. Le orecchie attente ai botta e risposta pensati con la classica intelligenza newyorkese, gli occhi che saettavano dal poster del Che in camera da letto a un assembramento di impareggiabili mattatori, il cuore leggero e pesante insieme. Questo Natale sarà infatti più spento del solito, complici gli antichi scandali rispolverati, senza le chiacchiere di Allen in sala. Che sia l'occasione buona per scoprirlo, rivederlo o, come in questo caso, recuperarlo. (6,5)

lunedì 29 gennaio 2018

Mr. Ciak: Ella e John, La ruota delle meraviglie, Napoli velata, Suburbicon

Lui malato di Alzheimer, lei con tumori dappertutto. Relitti che insieme, suggeriva Michael Zadoorian nel suo bellissimo romanzo, facevano una persona intera. Lui il braccio, lei la mente. Una loquace Mirren fa da navigatore e copilota a un meraviglioso Sutherland nel viaggio della vita. Direzione: la casa di Hemingway. Inseguendo la poesia di un autore immortale, ricordi di famiglia, il mito di un amore che non vuol morire. La meta cambia (tra le pagine si puntava infatti a Disneyland, con un briciolo di nostalgia per quei figli ormai grandi e accasati), si aggiungono segreti e vecchie gelosie strada facendo, ma restano intatti gli equilibri preziosi fra risate e lacrime, la distanza di sicurezza da qualsiasi furberia, certe occhiate tanto sincere da ispirare la commozione. Dopo i fasti della Pazza Gioia, un Virzì sempre in fuga, ma stavolta in trasferta hollywoodiana, ci racconta un altro bel viaggio disperato – l'ultimo, si presuppone – ma di cui, di ritorno dal cinema, non conserveremo né cartoline né ricordi per sempre. Il regista livornese evita i pietismi e il noioso glamour delle Nostre anime di notte, confezionando un romantico Thelma & Louise in cui ogni cosa va, tutto sommato, come dovrebbe. Virzì, regista di cuore e alchimie, dirige però con il pilota automatico. Lascia fare alle sue stelle splendenti. A una storia, comunque assai nelle sue corde, che emoziona da sé, con poco. Si limita perciò a sedere fra il chiacchiericcio irresistibile di Ella e John. Un po' stretto, intimidito ma non troppo, Paolo va in America, e non per fare il logico salto di qualità. Porta con sé uno sguardo sensibile, limpido, ma leggermente spaesato. Parla del mandato di Trump, del melting pot, di minoranze e multiculturalismo. Di una America per sentito dire, con tutti i clichè a fin di bene del caso: quella di chi l'ha vista di passaggio, e soprattutto al cinema – gli sceneggiatori, italianissimi, sono infatti i soliti nomi fidati. Perché meno a suo agio dei colleghi Muccino e Guadagnino in tema di trasferte internazionali, ci si augura per Virzì che The Leisure Seeker – recitato alla perfezione, godibile ma senza sorprese: note di demerito per il montaggio frettoloso e per l'approssimativo doppiaggio italiano – sia stato soltanto una vacanza. Che il biglietto, il suo, preveda un'andata e un ritorno a casa. (6,5)

Allen, il cinema d'autore sotto l'albero di Natale, film belli e brutti ad anni alterni. Cosa ci saremmo dovuti aspettare, lo scorso dicembre, dopo quel Cafè Society che qualcosa di buono l'aveva? Si arriva nella Coney Island di vent'anni dopo, la guerra passata da pochissimo, con un titolo e soprattutto un cast che promettono meraviglie. Ci si aspettava il Blue Jasmine secondo Kate Winslet, l'en plain. La sua Ginny – i mal di testa, la bottiglia sempre vicina, gli abiti di scena rispolverati a ogni piccola occasione – si sognava attrice e, a quarant'anni compiuti, si è svegliata cameriera. Accanto a Belushi, marito giostraio che forse non la merita, e a un bambino piromane. All'interno di un parco divertimenti che mette tristezza profonda suggerendo allegria a tutti i costi. Qualcosa cambia con il ritorno a casa della fatale Juno Temple, figliol prodiga in fuga dall'amante gangster. Qualcosa, nelle speranze di una protagonista illusa ed esasperata, va irrimediabilmente in tilt quando Timberlake – il bagnino/drammaturgo che ce li racconta dal primo all'ultimo – si accorge di quanto carina sia, sotto la pioggia, la sua figliastra. Il cielo minaccia acquazzoni sui caroselli. E un Allen sulle orme di Tennessee Williams, quantomai rigoroso e teatrale, minaccia invece tragedia. Misurato e strabordante insieme, vecchio ma nuovo, Wonder Wheel è un melodramma che scorre leggero pur portandosi appresso il peso di colpe, amarezze, rimpianti. Gli attori lo fan da padroni, su tutti una arcigna Winslet che con i suoi monologhi, con i suoi travasi di bile, ci sta così bene da non sorprendere più. La scrittura si regge – la si fa reggere, soprattutto: merito degli interpreti in parte – ma non resta impressa. Se non alla Winslet, se non a un Allen bravo a metà, la meraviglia è tutta da imputare allora alla fotografia dell'immancabile Storaro: capolavoro di spiagge assiepate e giostre malinconiche, di luci al neon che illuminano diversamente ogni angolo del film, per regalare a una donna sull'orlo di una crisi di nervi squarci di libertà e riflettori fissi. Il tutto, a bordo di una giostra che piace nonostante gli alti e bassi. Di una ruota – come quella della fortuna – che a volte gira, altre ti schiaccia. (7)

Ferzan Ozpetek, isolata certezza di buon gusto quando il cinema italiano puzzava ancora di delusione, torna nella terra che l'ha accolto dopo la pare non riuscitissima parentesi turca. Cambia genere, cambia città. Il regista di Mine Vaganti spegne gli arcobaleni ed esplora la Campania più segreta. Napoli, come l'argentiana Torino, ha i suoi coni d'ombra, i suoi misteri. Se ne accorge il medico legale interpretato da una ritrovata Mezzogiorno – invecchiata negli anni lontano dal set, ma sempre intensa, sempre bella –, che frequenta antiquarie streghe, saltimbanchi, sconosciuti destinati ad andare incontro a morte certa. Dopo una notte di passione, in quella scena lunga e bollente che già fa discutere, il suo fascinoso amante – un Borghi senza accento romano e senza vestiti addosso – viene ritrovato assassinato. La protagonista, che deve aver perso il contatto coi vivi a furia di interrogare cadaveri e di rivangare il passato di una mamma morta d'amore, si spinge insieme al regista fuori dal seminato; nei territori dell'esoterico. Il capoluogo campano, animale notturno e a sangue caldo, offre lo scenario più suggestivo. I protagonisti, nudissimi, si svelano con generosità. Abbiamo il doppio di Ozon, le follie fra sconosciuti di Bertolucci, le scale a chiocciola e i sosia di Hitchcock, le sale autoptiche di Argento. E di Ozpetek, uno chiede, che c'è? Il gusto per il kitsch, che però a piccole dosi piace. La colonna sonora con quel neomelodico tanto orientaleggiante di per sé. La mano di chi manovra meglio la macchina da presa che i fili delle sue troppe trame. Napoli velata ha infatti in una scrittura approssimativa, confusa, a metà fra il melodramma e il mistery, i suoi difetti peggiori. L'autore italo-turco, cantore di storie e sentimenti vecchio stampo, non sa gestitire gli omaggi e la tensione. Certamente nel suo se alle prese con il percorso psicologico di un'amante ossessionata, smarrisce la bussola alla ricerca di un'improponibile dimensione corale – qualche figurante rischierà di risultare ridicolo (la poliziotta Calzone, la medium Santella, il passepartout Barra), qualcuno messo in un angolo (la Ranieri, la Ferrari), pochissimi figure chiave (la teatrale zia di Anna Bonaiuto, solita garanzia di eleganza). Cala un velo nero, insomma, su un mélange di generi che resta parzialmente riuscito. Su un epilogo enigmatico o incompiuto quanto il resto, che però suggestiona. Nonostante le sbavature, insomma, il velo dell'insolito Ferzan non è di quelli troppo pietosi. (5,5)

I favolosi anni Cinquanta, lindi e pinti proprio come nelle réclame. Un quartiere idilliaco, super-esclusivo, che da una réclame sembra saltato fuori. Gli immancabili colori pastello, il giardino curato di tutto punto, le cerimonie d'altri tempi fra buoni vicini di casa. In quel microcosmo, nel cuore della notte, si consuma un delitto nell'indifferenza generale: una rapina finita male e la famiglia Lodge – padre, figlio, cognata – seppellisce la matriarca e in fretta trova una nuova formazione. Le cose non sono come sembrano. Lo capisce presto, e a sue spese, il piccolo di casa. Dirige Clooney, recitano un subdolo Damon e una doppia Moore, soprattutto scrivono i fratelli Coen. Che quasi mai mi piacciono, a onor del vero, ma che indubbiamente brillano per scrittura e ironia. Suburbicon, commedia nera a metà tra Hitchcock e il loro Fargo, delude il Festival di Venezia la scorsa estate e in sala, per quanto curato e godibile, perfino divertente, si rivela un intrattenimento innocuo e senza grande mordente. Purtroppo, negli esiti e nei moventi, prevedibile come immaginate tu e l'assicuratore di un Oscar Isaac baffuto e sopra le righe. Troppo presi a protestare con schiamazzi e vandalismo gratuito contro il trasferimento di una famiglia afroamericana, gli abitanti del quartiere – ipocriti, benpensanti, subito pronti a puntare il dito verso la pagliuzza del diverso – non si accorgono della trave nei loro occhi. Della cattiveria a un passo, nascosta neanche troppo accuratamente sotto la superficie – questione di una sceneggiatura di un nero sbiadito, che non punge, non graffia e purtroppo superficiale resta. Come in Carnage, soltanto i bambini sanno andare oltre: tendere la mano al di là del buio oltre la siepe. Tanto quanto nello sfarzoso ma vacuo Ave,Cesare!, l'omaggio non ha gambe proprie su cui camminare. L'erba del vicino, la linfa dei Coen, in quel di Suburbicon l'avremmo immaginata molto più verde. (6)

mercoledì 12 ottobre 2016

Mr. Ciak: Café Society, Swiss Army Man, Julieta, Suicide Squad, Elvis e Nixon

Bobby, giovane ebreo di belle speranze, abbandona il Bronx per Hollywood, confidando negli agganci dello zio produttore: medita presto, però, di fare ritorno a casa. Magari accanto a Vonnie, segretaria nel bel mezzo di una complicata relazione clandestina. Nella seconda metà ci si sposta a New York: il protagonista, con l'aiuto di un fratello criminale, fa del suo cuore spezzato fonte di ispirazione. Incontra una donna bellissima – un'altra Veronica -, nasce un locale notturno popolarissimo, ma nessuna città è grande abbastanza, la gente mormora e il passato, sotto forma di visita di cortesia, bussa alla porta. Café Society, ultima commedia di quel Woody Allen che quest'anno non attendevamo tanto presto, è stata bene accolta a Cannes ed esce sulla fresca scia di quell'antipatico disastro che era stato Irrational Man. Si ritorna al passato, di nuovo, se gli accademici alcolisti e le trame che virano al thriller, appena qualche mese fa, non avevano fatto breccia: tanta noia, poca magia. E non c'è traccia della prima ma un po' della seconda, per fortuna, in questo sentito omaggio al cinema dei telefoni bianchi, in cui la perfezione della confezione – costumi irresistibili, scenari splendidi e tanto jazz – contribuisce a farci chiudere un occhio, o entrambi, su una sceneggiatura a cui manca il guizzo. Il solito Allen, né il migliore né il peggiore su piazza, frizzantino e nostalgico, che sceglie di fare di Jesse Eisenberg – già nevrotico e prolisso di per sé, dunque padrone – il suo alter-ego. A contenderselo, due stelle inaspettate: Blake Lively, dea greca dal ruolo abbozzato; una Kristen Stewart bellissima e redenta, oggettivamente non troppo a proprio agio con i film retrò, per cui si hanno occhi innamorati. Pimpante nella prima parte e un po' frettoloso nel suo immalinconirsi, Café Society va scemando e non alza la voce, a discapito dei suoi anni ruggenti. Visione piacevole e ben lontana dall'essere memorabile, sul finire ispira l'esatta tristezza dei veglioni di Capodanno in cui, accanto all'anno che verrà, sembra celebrarsi tutto ciò che è fugace e illusorio: come questi anni '30 che non si curano ancora della guerra; come questi triangoli sentimentali che credono di avere tutto il tempo perché se ne venga a capo; come i sogni belli, d'amore, che al risveglio si scordano. (6,5)

Hank, naufrago, tenta di farla finita. A salvarlo dalla disperazione, l'arrivo di Manny, portato dalle onde. Tra i due, l'inizio di una straordinaria amicizia, tra confidenze e aiuto reciproco, per riempire le ore, le solitudini, le notti. Se la mettessi così, mi credereste, quando dico che Swiss Army Man è un'avventura umana ad alto tasso di emotività, buffa e toccante. Comprometto la mia affermazione, però, aggiungendo un dettaglio che vi sarà già saltato all'orecchio, se amate il cinema indipendente e dell'esordio dei Daniels, giustamente premiato al Sundance, avete sentito parlare: Manny, cadavere rigido e maleodorante, è morto per annegamento. Di tanto in tanto, la decomposizione gli gioca strani scherzi e, stecchito e tutto, si smuove, farfuglia, scoreggia; i suoi movimenti involontari, perfino le sue moleste flatulenze, possono essere d'aiuto su un'isola deserta. E così, complice la sua fervida immaginazione, Hank lo muove come una marionetta: lo fa parlare, e usa il suo corpo come ariete, salvagente, bussola, seconda voce nelle cantate in solitaria, confessore spirituale. Come spieghi cos'è la vita a un morto? Soprattutto, come gli riveli – tu che per lui sei tutto il mondo – che la tua esistenza, prima del naufragio, era ben peggio della sua? L'assunto iniziale non cambia: Swiss Army Man è una commedia surreale, che in parte nausea e in parte mette la pelle d'oca. Senza capo né coda, lì dove il ridicolo si spreca – scambi di ruolo, minacciosi orsi come in Revenant, peti come motori per solcare le acque –, in realtà è un'agrodolce riflessione sul sentirsi soli, fuori posto in un mondo non tagliato per i timidi cronici, che colora Castaway e Robinson di sprazzi musical e inguaribile follia. Sole attrazioni nel survival più grottesco e di cuore – ma che dico, di pancia - che incontrerai in vita tua, uno splendido Paul Dano e un inaspettato Daniel Radcliffe, forse bravo quanto mai, di cui sempre più spesso invidio le scelte e il coraggio. Sull'inservibile cellulare del primo, poi, la foto di un'altra musa indie, Mary Elizabeth Winstead: starà piangendo la sua scomparsa; lo aspetterà paziente a casa? Vuoi la colonna sonora che ricorda i brividi dei Sigur Ros, vuoi la sensibilità con cui sa stemperare il nonsense o, ancora, la familiarità con la domanda “ma se io scomparissi, qualcuno mi cercherebbe?”, l'opera prima di un assortito duo di nicchia libera dalle inibizioni e smuove qualcosa, nel profondo di te. Dirvi cosa non so, così su due piedi. Giuro che non sono solo i succhi gastrici; c'entra un po', immagino, anche l'anima. (7+)

Julieta, vedova in là con gli anni, decide di abbandonare la sua vecchia casa e di trasferirsi con il nuovo compagno. Non ha rimpianti, ma segreti sì. E ripensamenti? Cambia idea all'improvviso, infatti, quando un giorno incontra una persona di un'altra vita: la sua interlocutrice le dice che ha visto la figlia di Julieta, Antia, e i suoi tre bambini in Svizzera. Quella figlia che è uscita dalla vita della protagonista, anni prima, senza lasciare traccia; un fantasma che addolora, di cui neanche il suo nuovo amore sa. Dopo il pessimo Gli amanti passeggeri, un Almodòvar che conosce picchi e epocali scivoloni ritorna al cinema – puntando direttamente ai prossimi Oscar – con il libero adattamento dei racconti di Alice Munro. Melodramma tutto al femminile, raffinato e trascinante, Julieta si addentra in una travagliata relazione madre-figlia con una colonna sonora hitchcockiana, colori caldissimi e una squadra di esemplari primedonne. Qual è stata la colpa della protagonista affinché sua figlia fuggisse via? I flashback la mostrano giovane e innamorata, e per magia cambia volto, su un treno notturno: viene attratta da un passeggero, marinaio misterioso e disperato, e subito è amore grande. A condannarlo a una morte precoce, solo il mare in tempesta? Per la prima ora, un Almodòvar rinnovato, ma fedele a sé stesso, seduce e avvince come solo lui sa. Il dramma di una madre ripudiata e la rievocazione del suo grande amore, che ha portato alla nascita di una figlia irrequieta e rancorosa, lasciano pensare al meglio; c'è tanto in gioco. L'ultima mezz'ora – perché Julieta, purtroppo, è un film corto e, di conseguenza, inappagante – si converte alle ellissi narrative, ai salti indietro e in avanti, e mostra una chiusa brusca, che non soddisfa. Risibile, quasi, con l'emergere del solito tema dell'omosessualità, questa volta assolutamente buttato lì, e una lettera che non è sufficiente per i chiarimenti, la riconciliazione, una puntata di C'è posta per te. (6)

Aveva buone probabilità di piacermi, almeno su carta, qualcosa come Suicide Squad: forse il primo fumetto al cinema a prendere le parti non dei buoni, ma degli antagonisti. L'ho aspettato, immaginandomelo sarcastico, eccessivo, originale. Nei mesi che ci sono voluti per vederlo, però, la critica aveva già parlato – e, se male, di certo non a torto. Il cupo action di David Ayer, con una squadra di mercenari kamikaze senza niente da perdere, vede i prigionieri di una struttura di massima sicurezza collaborare per salvare il mondo da un pericolo maggiore. Ormai sulla bocca di tutti per il montaggio fatto alla bell'e meglio, il Joker latitante e una colonna sonora da estimatori, Suicide Squad mi è parso meno catastrofico di quanto letto qui e lì, ma comunque caotico, arrangiato, mediocre. Ci sfrecciano davanti in rapida successione le generalità e i moventi dei protagonisti – spiccano il solito Will Smith, padre di famiglia; la ammiccante e promettente Margot Robbie; una Viola Davis granitica -, e si ha la sensazione, tra borsette trafugate, nostalgie lampanti e unicorni di peluche, che questi loschi figuri siano cattivi di nome, ma non di fatto. Gli si contrappone la risibile Incantatrice di una doppia Delevingne, che agita il bacino, evoca gli stessi raggi laser del novello Ghostbuster e, soprattutto, è incapace di intimorire o incantare. Ci sono troppe facce, interpreti premio Oscar di cui non ci facciamo bastare l'introduzione sommaria; allo stesso modo, però, la carne al fuoco è troppo poca. Disimpegnato videoclip, Suicide Squad si regge su un trascurabile pretesto per aprire le strade di Gotham a un carrozzone colorato, in maschera, che costituisce un lungo preludio per un film che verrà. La missione dura due ore che non pesano – e sono abbastanza, ed è un pregio -, ma non trova né il tempo, né gli spazi vitali per sviluppare gli anticorpi: oltre le sbarre, fuori dalla sua cerchia di affezionati nerd. (5)


Nel 1970, un Elvis all'apice della notorietà chiedeva un appuntamento privato al presidente Nixon. Portava una pistola rarissima in regalo, da buon ospite, una coppia di assistenti fedeli (un sorprendente Pettyfer, l'inservibile Knoxville) e una richiesta surreale. L'uomo di cui tutto il mondo conosceva il volto, e la voce, voleva diventare infatti un agente federale. Il risultato del loro stranissimo faccia a faccia, diretto dalla regista indie Liza Johnson e prodotto da Amazon, è una commedia vintage dagli inaspettati tempi comici, con uno spunto minuscolo e la partecipazione di due grandi stelle. Michael Shannon è un inedito re del rock 'n roll, capriccioso, magnanimo, esigente, i cui progetti assurdi nascondono abilmente la sottile mestizia dei suoi ultimi anni di vita. Kevin Spacey, ben lontano dai maligni giochi di potere del suo Frank Underwood, è un leader politico aperto e incuriosito, che cura nel dettaglio la sua immagine pubblica e la conquista degli elettori più giovani; dello scandalo Watergate nessuno parla ancora. Poco somiglianti nell'aspetto, badano ai timbri di voce e alla mimica: sopra le righe, perché parte di un'atipica parentesi di storia contemporanea, ma esagerati mai troppo. La regia è impersonale, però, e il resto del cast è composto da un movimentato viavai di conoscenze telefilmiche; il messaggio del film, a tratti divertente ma pretestuoso, francamente sfugge. Quale spettatore, soprattutto se italiano, sentiva l'esigenza della cronaca del loro incontro? A visione ultimata il dubbio persiste – il tema non mi interessava, e all'indomani del fresco Elvis & Nixon non ho di certo cambiato idea -, ma ogni occasione è buona per guardare due fuoriclasse, qui leggerissimi, gigioneggiare senza freno. Allo stato brado, lungo gli impenetrabili corridoi della Casa Bianca. (6)

sabato 2 gennaio 2016

Mr. Ciak: Love 3D, Youth, Sicario, Per amor vostro, Irrational Man

Murphy, americano, ed Electra, giramondo, fanno coppia fissa da un po'. Sono a quel punto della relazione in cui amano stuzzicarsi, scoprire cosa sogna il partner quando chiude gli occhi. Si sono visti, si sono piaciuti, si sono spogliati a Parigi. Hanno avuto i corpi, adesso ambiscono alla mente: cos'ha in testa lui, cosa lei? La realizzazione di un sogno erotico comune ai più – un ménage à trois con una sconosciuta – porterà la coppia a scoppiare. Crack, e viene meno la fiducia reciproca. Crack, e si rompe il preservativo di lui e l'altra ragazza, amante occasionale, aspetta un figlio che chiamerà Gaspar. Crack, e ad Electra – con un nome da eroina tragica e un'inclinazione alla tristezza – si spezza il cuore. Love, dopo un incipit shock, ci porta nella vita del protagonista, due anni dopo. Quando un altro amore – quello per il figlio, però – ha rimpiazzato l'innamorata mai dimenticata. Quando, a Capodanno, una chiamata dal passato lo getta nello sconforto: cos'è successo ad Electra, così vulnerabile e così allo sbando? Ha un titolo presuntuoso, Love, e un'etichetta coniata dalla critica: il porno d'autore del provocatorio Gaspar Noé saprà forse portare a termine il suo folle volo - raccontare l'amore tutto, quello con l'articolo determinativo davanti e la lettera maiuscola -, mostrando il dentro e il fuori, i corpi giovani e le anime sofferenti dei suoi personaggi in crisi? Ha, a precederlo, una fama losca, una serie di poster espliciti e l'accoglienza tiepida di Cannes. Dove qualcuno si era scandalizzato e qualcuno annoiato. Il clamore mi ha incuriosito in fretta e la provocazione non mi trova, generalmente, scosso: a mio agio con il nudo – con quello degli altri, almeno, ché io sono un "tipo" già coi vestiti addosso -, ma stomacato, a tratti, dall'insistenza e dal voyeurismo della pornografia – se fosse il contrario, sapete che lo ammetterei pure. Love è un melodramma di struggente intensità, che mostra cosa succede alla coppia - negli amari e chiacchierati boy meets girls che sempre fanno breccia, da queste parti – prima e dopo la passione. Per la prima volta, però, lunghe inquadrature ci mostrano il durante. Le cose belle, quando si è assonnati; le cose brutte, se immersi nel quotidiano. Le droghe e la gelosia a fare prima da collante, poi da ponte tibetano, sospeso tra loro: reggerà mai? Ci si abitua presto, quindi, al nudo e al resto. In due ore e quindici, dunque tante, Murphy ed Electra si acchiappano e si lasciano, si amano e si riamano – sono leggeri, liberi e, qualche volta, trasgrediscono – ma è una sola la sequenza di cattivo gusto, pensata per gli occhialini 3D e la sfida gratuita al pubblico; un isolato esempio di provocazione fine a sé stessa. I bravissimi Karl Glusman, marcio d'amore, e Aomi Muyock, una visione, parlano di desideri reconditi, oppiacei, nomi di bambini, Kubrick e Robert Frost. Fanno faville fuori e dentro il letto. Stesi senza vergogna, sotto le luci rosse, e proiettati al futuro. Noé – alter ego del protagonista, che vorrebbe dirigere un film di “sangue, sperma e lacrime”, di “sessualità sentimentale” – ci accompagna sulla sua arca spregiudicata, con scatti rubati e ritrovati, un senso di segreto, le lenzuola spiegazzate, i messaggi in segreteria e i ricordi lampo. La colonna sonora è incalzante, inquieta, e la fotografia un gioiello oltre la soglia massima del realismo. Mentre i protagonisti, duo aperto alle sperimentazioni, ti danno, nel frattempo, il benvenuto nel loro trip e nella loro camera da letto. Quanto sei disinibito e quanto innamorato, tu? Le inquadrature fisse, i corpi in moto. I giri di vite. Il fuoco dei lombi e il gelo dei cuori. Sempre prima, dopo e durante. Com'è il sesso, incensurato, ai tempi dell'amore. (8)

Ho scoperto il piacere delle liste; degli appunti al volo sui post-it, ché poi mi dimentico. I più, in questi giorni, stavano appuntando i bei propositi per l'anno nuovo. Io, blogger all'improvviso allergico alle festività, ho compilato una lista, un'altra, per assicurarmi di non aver perso qualcosa lungo il tragitto. In crisi davanti all'imminenza dei famosi listoni, ho saccheggiato idee dai miei siti di fiducia per darmi ai recuperi finali. In fondo alla lista, un nome su cui non riponevo particolari aspettative: senza vergogna, non vi nascondo quanta antipatia mi faccia il cinema del sopravvalutato Sorrentino. A costo di rischiare il linciaggio pubblico, sul triondo della Grande Bellezza ne ho dette di cotte e di crude, tra amici. Forse ero in difetto io, non abbastanza sensibile al fascino del film antinarrativo – in quel caso, lontano nipote di La dolce vita, che compensava con il manierismo e l'ingiustificata autostima alla pochezza di idee e a un modesto talento. Forse erano in difetto loro, che non avevano visto quanto fosse strappacuore la concorrenza di Il sospetto e Alamaba Monroe. In una Roma di tentazioni e ambizione, i personaggi del film Premio Oscar ricercavano feste su feste: il film, per me insostenibile, era un circo lungo e grottesco; cacofonico. In Svizzera, all'ombra dei monti, si persegue la pace dei senti. Harvey Keitel, ignaro che di lì a poco la grande diva Jane Fonda gli darà il benservito, lavora al suo ultimo film – stando a lui, un testamento morale – attorniato da una squadra di sceneggiatori hipster; Paul Dano, giovane portento, è una star di Hollywood che medita su un ruolo storico che poco gli si confà; un meraviglioso Michael Caine, direttore d'orchestra in pensione, tenta come può di eludere le proposte di un insistente funzionario reale e di consolare Rachel Weisz, nevrotica e bellissima, che gli rimprovera di essere stato un padre assente e un marito ancora peggiore. Si spia, inoltre, quel che combinano gli altri ospiti, e giusto qui, in siparietti talora stranianti e surreali, fa capolino il Sorrentino che meno tollero: il cameo trash di un falso Pibe de Oro; una massaggiatrice con l'apparecchio ai denti che fa fitness; una colonna sonora instabile che, tra l'indie rock, gli arpeggi delicati, le arie liriche e l'accompagnamento onnipresente e discreto della chitarra, ho trovato – altro pregiudizio sfatato, dunque – intensa e, a tratti, conciliante. Dal ritorno del regista napoletano, dalla prova del nove che va sotto il nome di Youth, sono passati esattamente un'estate e un autunno; acqua abbondante, sotto i ponti e nelle piscine termali sui monti spruzzati di neve. Ma per i protagonisti, galantuomini attempati in villeggiatura, il tempo è come cristallizzato: non si invecchia, coccolati e viziati, tra le mura di un Grand Budapest Hotel in cui gli anziani sperano di liberarsi del peso degli anni – fanno miracoli i massaggi e le alte temperature delle saune; le visioni conturbanti di Miss Universo senza veli smuovono i pochi ormoni ricettivi – e i giovani, stanchi dei tradimenti coniugali o di impegni stressanti, imparano a inspirare ed espirare, piano. Quante probabilità c'erano che questoYouth, che da quel che leggo ha deluso gli estimatori doc di Jep Gambardella, a sorpresa, mi piacesse oltre qualsiasi mio fondato pregiudizio? Quieto, fotografato d'incanto, recitato da leggende viventi. Diretto con attenzione, senza strafare. Scritto molto bene - e non pensavo che avrei mai potuto ammetterlo -, con i suoi dialoghi buffi, mordaci, veri. La poesia, più che negli estemporanei aforismi cari al furbissimo Paolo, è allora nelle rughe d'espressione di impareggiabili gentlemen, nella visione di un'orchestra invisibile in mezzo a un prato verde. Dove tutto è musica, dove tutto è – davvero, questa volta – "grande bellezza". (7,5)

L'irruzione nella casa di un quartiere periferico. Una sparatoria violenta che apre voragini nei muri e la scoperta, dietro le pareti, di un puzzo terrificante – l'odore della morte – e di tasselli di delitti irrisolti. Un'indagine che diventa qualcosa di più grande e che coinvolge tante teste, tante squadre, fino a smarrire i concetti di verità e bugia, giustizia e vendetta. L'obiettivo, su cui i fucili di precisione non osano distogliersi: la lotta ai signori della droga; la ricerca di un tunnel, nascosto tra le dune e le piante spinose. Una bocca che sputa, negli Stati Uniti, un po' del peggio. Le atroci barbarità di una terra di confine. Cosa c'è realmente in ballo? Quella è una guerra – al narcotraffico, alla paura -, ma alla fine cosa si vincerà? Se la mia tipica impassibilità davanti al cinema d'azione mi rende incapace, anche in questo caso, di distinguere una sparatoria dall'altra – corpi in moto, esplosioni e spari in cielo mi sembrano grossomodo tutti uguali, indipendentemente dalla cornice: sono una persona superficiale e tanto annoiabile, perdonatemi -, di Sicario ho però apprezzato il peso degli interrogativi etici e la chiusa amarissima, la fretta che va da qualche parte, il cast smagliante. Il meglio di Villeneuve. Benicio Del Toro, che ha gioco facile in uno spigoloso ruolo dei suoi, con i metodi poco ortossi e un ritorno – dopo Soderbergh – alle frontiere messicane. Un Josh Brolin istrione. Gli occhi belli e cristallini di Emily Blunt – inglese e troppo delicata per i climi aridi e il fuoco incrociato, eppure in gamba – che coincidono, alla fine, con quelli dello spettatore medio: stordito e, a lungo, tenuto all'oscuro di una verità che sfugge. In Sicario, secondo lungometraggio americano del canadese il cui stile ricorda quello dei più grandi, spettatore e personaggi – tranne quello di Kate, forse, idealista e donna in un ambiente tutto al maschile – hanno punti di vista incompatibili e un diverso grado di conoscenza. Li si osserva agire in silenzio, presubilmente per una causa di forza maggiore che ci piace far coincidere con il sommo bene. Prima si spara a bruciapelo, poi si muovono le prime domande. E ci accolgono i corpi penzolanti dei capri espiatori – sembra di essere in un borgo medievale, cent'anni fa, eppure si tratta della contemporanea El Paso – e la disincantata morale che mali estremi richiedono estremi rimedi. La legge parla una lingua già morta. (7)

L'anno scorso, scorrendo la lista delle mie letture, si direbbe che sia riuscito a leggere qualcosa in più. Cento libri, più o meno, ma di una decina, sul blog, non trovereste traccia. Testi teatrali che ho letto per un esame. Il dovere si era rivelato piacere, alla scoperta della grande tradizione partenopea. E Napoli, poco dopo, l'ho ritrovata in Il ladro di nebbia e in Elena Ferrante; come a ricordarmi che un po' – con nonni e genitori campani – faceva parte di me. Con dicembre che finiva, vi ho fatto ritorno con Per amor vostro, il dramma di Giuseppe Gaudino che, a Venezia, ha visto trionfare una Golino al suo massimo. Gli appellativi di film d'autore o, ancora, di pellicola surreale, mi facevano però tremare: la magniloquenza e il visionario mi trovano purtroppo incompatibile. Dov'è il surreale, penserete, sentendo che parla di Anna, una donna di mezz'età, vittima di un marito usuraio e di visioni ad occhi aperti? Napoli, e lì brilla sempre il sole, si spegne, se si accende la scintilla nel regista. Un limpidissimo bianco e nero, in un'unione a una fotografia di raro lirismo, avvolge la città e i suoi personaggi pensierosi. La depressione di Anna, donna fragile e di buon cuore, è assenza di colore. Ma il curioso espediente formale risulta ora romantico – il bianco e nero d'altri tempi si addice all'infatuazione della protagonista per l'attore Adriano Giannini, con cui desidererebbe vivere un'ingenua passione da soap – e ora inquietante; la sua infelicità rende Napoli la dantesca città dolente, burrascoso il mare, spaventoso il cielo. Ma ogni tanto irrompe il blu, tenue come un acquerello, e la narrazione si ferma, per dare spazio alla visione di variopinti inserti musicali – il neomelodico, le canzoni sanremesi alla radio, le arie di Handel – e per dipingere intorno ad Anna, santificandola, aureola e manto. L'idea è semplice, la resa visiva accattivante e kitsch: una vita opaca, che chissà se scoprirà mai l'avvento del colore. Un po' come in Mommy: l'alter ego di Dolan poteva concedersi la libertà dei 16:9? Il flusso di coscienza di una impareggiabile Golino riesce nell'impresa ardua di mostrarsi agli occhi, con un esperimento coraggioso che non risulta mai manierismo fine a sé stesso. La verità non si mette in discussione, con siparietti domestici toccanti – i litigi furibondi, l'uso del linguaggio dei segni per spiegare a un figlio sordomuto cosa dice la tivù - e quelle famiglie in cui non c'è pace. Infelici a modo loro, ma anche a modo nostro. “Non c'è niente”, dice Anna, per nascondere con fierezza le sue fatiche di donna e le lacrime. “Non sei niente”, le dicevano quand'era figlia e adesso che è mamma. Nell'esplorazione del suo mondo, triste e illuminato a sprazzi, le spieghiamo però quanto si sbaglia. In Per amor vostro se non c'è tutto, comunque c'è tanto. E lei – che non a caso porta il nome della Magnani – è qualcuno che non scorderai. (7,5)

Ci sono arrivi che sconvolgono, come quello di Abe – insigne professore di filosofia, stimato saggista, dongiovanni impenitente – in un college americano dove non succede mai niente e, all'improvviso, tra colpi di fulmine e morti sospette, succede di tutto un po'. Ci sono arrivi, invece, che neanche aspetti più: la troppa puntualità vizia, genera un curioso disinteresse. E' il caso, ad esempio, dei film di Woody Allen: al cinema, nel periodo di Natale, da quando ho memoria. Arriva inatteso dai più – ci culliamo, oramai, nella certezza che salterà fuori, con le luminarie e i pacchi regalo -, ma pur sempre degno di una visione o due. A volte dirige film belli e a volte film brutti. Tipo chiacchierone, bizzarro, che ama i dialoghi fiume e detesta le vie di mezzo. Ogni volta, dunque, è una roulette russa: avrà il colpo in canna, la marcia in più, il lungometraggio che ci proporrà sotto l'albero? Dopo Blue Jasmine – acidulo, freddo, ma con una memorabile diva in crisi di nervi – e il nostalgico Magic in the moonlight – omaggio dai colori pastello alla commedia anni trenta -, eccolo con Irrational Man. Profondamente suo, con l'accompagnamento jazz, gli inconfondibili titoli d'apertura, il citare sé stesso –, in questo caso, quel Match Point che, da ragazzino, mi fece rivalutare da capo un cinema che ritenevo borghese, logorroico, lontano da me. Un film - al contrario di ciò che dice il titolo - razionale, sì, ma quanto fine a sé stesso? Pareri positivi, eppure, mi rassicuravano: non c'è due senza tre. La storia è quella di un insegnante in in crisi esistenziale, ma carismatico, che è pane per i denti di donne crocerossine. Più delle attenzioni di Parker Posey, madre di famiglia che abbandonerebbe tutto a un suo cenno del capo, e della venerazione di una leziosa Emma Stone, promettente studentessa dal fidanzato noiosissimo e dalle ambizioni chiare, a stuzzicare l'appesantito e affascinante Joaquin Phoenix – e lui, ovvio, merita sempre il prezzo del biglietto – è il pensiero della morte. Uccidere uno sconosciuto, pianificare il delitto perfetto. Ritrovare, così, l'ispirazione, il vigore fisico, la gioia di vivere. Ma a che prezzo? Il cineasta nevrotico che non ama le mezze misure, il film uscito a metà, invece pianifica Irrational Man bene, ma pochissimo. O, comunque, non abbastanza: con i suoi bravi attori, le citazioni colte, il senso globale che gli manca per essere bello e la maestria presente, al contrario, che gli impedisce di essere brutto con faccia tosta. Una pistola inceppata, al gioco della roulette, salva il protagonista dalla sua stessa avventatezza; il film – incrocio insapore, incolore e inodore tra la commedia e il thriller e destinato a un epilogo tragicomico – spara a salve, nel vuoto. (5)

lunedì 21 settembre 2015

Recensione: Florence Gordon, di Brian Morton

"E' semplicemente fantasticoEssere insultata da Florence Gordon durante il nostro primo incontro. Mi sembra di essere stata promossa in serie A."

Titolo: Florence Gordon
Autore: Brian Morton
Editore: Sonzogno
Numero di pagine: 317
Prezzo: € 17,50
Sinossi: Florence Gordon ha settantacinque anni e vive a Manhattan. Femminista ebrea divorziata, scrittrice scorbutica, attivista testarda e orgogliosa, detesta la maggior parte delle cose che la gente trova piacevoli e ama mettere gli altri in difficoltà. Mentre è alle prese con la sua settima fatica, un libro di memorie, un articolo del "New York Times" la definisce "patrimonio nazionale", catapultandola sotto le luci della ribalta e obbligandola a superare quel filo spinato che aveva eretto intorno a sé. La situazione precipita quando i suoi "cari" si trasferiscono da Seattle a New York: il figlio Daniel (che ha snobbato le orme letterarie dei genitori per diventare poliziotto), la nuora Janine (psicologa, pronta ad avere una relazione con il suo capo) e la nipote Emily (che sta cercando di capire cosa fare di una problematica storia d'amore). Tra i quattro, giorno dopo giorno, si intreccia una commedia irresistibile, all'insegna di una crudele sincerità ma anche di una sorprendente complicità emotiva. L'anziana signora, i cui corrosivi commenti sono una sorta di "versione di Barney" al femminile, non risparmia niente e nessuno. E forse proprio per questo i personaggi che la circondano (e i lettori di questo libro) finiranno per affezionarsi a lei e non poter più fare a meno della sua voce.
                                                    La recensione
In un mondo in cui gli antipatici sono i nuovi simpatici e gli introversi i nuovi estroversi, i misantropi convinti – allergici alle pubbliche manifestazioni d'affetto, chiusi a riccio, pessimisti e sfiduciati – vanno ormai di moda. L'altro giorno, in centro, ho visto un ragazzino con la faccia della felicità, le guance rosse e il sorriso tutto denti, con una T-Shirt con su scritto: I Hate Everyone. Io che, in certi giorni, nel dubbio, odio tutto e tutti davvero, usando la scusa della timidezza cronica che mi rende silenzioso quando la compagnia non è di mio gradimento e rispostacce come armi a doppio taglio quando nessuno mai se le aspetterebbe dal tipo con gli occhiali che non ha nulla da dire, per essere alternativo dovrò mica imparare a socializzare? Gli scorbutici di cui ho letto quest'anno nei romanzi – con il mondo contro per posizione presa, ma diretti verso una parziale redenzione finale – si convertivano alla gentilezza come Scrooge davanti al Fantasma del Natale passato. Perché, dopo disavventure e piccoli miracoli, con la saggezza della vecchiaia – e la paura della morte, e una lista di cose da fare prima di tirare la cuoia – scoprivano essenzialmente che c'era ancora del buono, che la vita è bella finché dura, che non è mai troppo tardi. C'è poi Florence Gordon, eroina eponima del primo romanzo di Brian Morton giunto in Italia, che sa dimostrarsi coerente, puntuale e divertentissima. Ha il nome di una delle città più suggestive al mondo e di una cantante che sembra una splendida sirena degli abissi. Ha professato con caparbia il femminismo e la libertà negli anni della rivoluzione sessuale e, verso gli ottanta, rimane una vecchietta arzilla e indipentente, dotata di silhouette snella, passo svelto e imprevedibili risorse. Arrivata al punto di una vita intensa e di una carriera gloriosa in cui può permettersi la stesura di un memoir ricco e un po' autoreferenziale, scopre grazie a una recensione entusiastica – non la mia, perché Florence si accontenterebbe solo del Times – di essere patrimonio dell'umanità. Mentre si prepara all'arrivo di un'insperata notorietà (non è mai troppo tardi), il corpo inizia a dare i primi segni di fragilità (ma la vita è bella finché dura) e le si stringe attorno quel che rimane di una famiglia che ha voluto tenere a distanza (c'è ancora del buono). Se il copione sembra classico, in realtà Florence Gordon sorprende: perché, come dicevo, nessuno diventa d'un tratto dolce come lo zucchero e perché, dall'alto del suo adorabile egocentrismo, la protagonista – che ha avuto un libro con il suo nome, ma in cui c'è posto anche per gli altri – lascia parlare e sparlare anche chi le è, suo malgrado, vicino. Nessuna metropoli è abbastanza grande, nessun telefono è abbastanza irraggiungibile, se i Gordon decidono di riunirsi. Chi sono i soggetti di questa foto di famiglia a cui la matriarca non può sottrarsi? 
Daniel, il figlio poliziotto che, per ribellismo, non ha voluto seguire le orme dei genitori; Janine, la nuora rispettosa e adorante che ha una cotta per il suo capo; Emily, la nipote brillante e sfacciata che, in famiglia, è l'unica che riesca a tenere testa a una nonna anaffettiva che la tratta come un factotum. Se fosse un film, sarebbe una commedia di Woody Allen. Elegante, verbosa, con un cast all stars. Già immagino la locandina, al cinema, con generazioni a confronto: i due attori di mezza età bollati, anni prima, come promettenti ma che non hanno mai fatto, poi, il fatidico botto; la giovane stella in ascesa, amatissima dagli adolescenti, che qui dimostrerebbe di possedere notevole temperamento; la grande diva senza età, infine, che monopolizza le attenzioni e colleziona candidature. Florence è una Meryl Streep con qualche anno in più sulle spalle: una carriera straordinaria, l'essere sempre all'altezza, la nascita di una vaga antipatia presso i più – io, ovviamente, costituisco felicemente una categoria a parte quando si parla per congetture, ovvio, della più grande attrice vivente e della più grande rompipalle di carta e inchiostro – perché è come il prezzemolo e nessuno regge mai il paragone. Se fosse un film, non apparterrebbe però al mio genere preferito. Anche se amo il cinema che s'ispira al grande teatro, pieno di dialoghi ritmati e battute a raffica. Ma di solito sono abituato a discorsi piccoli che diventano grandi. Questa volta, invece, discorsi grandi diventano piccoli. Si passa dai dialoghi sopra i massimi sistemi all'intimità e non il contrario. Il romanzo pesa e non pesa, dunque, e sfiora e non sfiora, anche per coprotagonisti a noi sconosciuti: New York e i suoi newyorkesi di fretta, fissi al telefono. Se senilità e famiglia sono temi in rilievo, la Grande Mela costituisce il sottotesto – e Florence sarebbe lieta della mia precisazione. La nostra distanza dalla cima dell'Empire State Building o dall'ombra fantasma delle Torri, l'estraneità dinanzi a taluni argomenti di discussione – starà facendo bene Obama, e quanto è aumentato il prezzo della sanità? - rende parzialmente inconoscibile quella realtà, vista non con gli occhi meravigliati del turista passeggero. Ed è come se qualcosa si perdesse nella traduzione – non dico in quella ineccepibile di Parolini e Curtoni, sia chiaro – e nel corso del viaggio. L'immagine conclusiva, da fitta al cuore, così amara e necessaria, ha un'intensità smorzata per la scelta consapevole e onesta del freddo rigore di Florence. Fino all'ultimo, lupo solitario. 
Una risposta sarcastica potrà dare mille soddisfazioni perciò, ma un cuore caldo penso assicuri più ricordi.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: George Gershwin – Rhapsody in Blue (“Manhattan” Soundtrack)