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mercoledì 9 giugno 2021

Le serie TV di aprile/maggio: Anna | Them | The Great | Halston

La piccola Anna viene alla luce nel momento giusto o forse in quello sbagliato. Insieme a lei, anche la serie TV che porta il suo nome. Quant’è macabro, infatti, con il Covid ancora in atto, vedere sul piccolo schermo un’Italia silenziosa, deserta e dalla mortalità alle stelle? Il futuro post-apocalittico di cui parla Niccolò Ammaniti, realizziamo con un brivido di sconforto, è già arrivato. Tratto da un buon romanzo pubblicato nel 2015, l’intreccio si amplia e s’infittisce fino a trasformarsi in un capolavoro della serialità nostrana. Il merito spetta all’amatissimo Ammaniti, qui anche regista di folgorante intuito, sempre apparso avanti coi tempi rispetto ai colleghi: questa volta è addirittura profetico. Ambientati in una Sicilia come non l’avete mai vista, trasfigurata in un incubo grazie al lavoro certosino di costumisti e scenografi, i sei episodi seguono il viaggio della protagonista: sopravvissuta a una pandemia che lascia scampo soltanto ai bambini, ha lo scheletro della madre in camera da letto e un fratellino da salvare. Durante il suo cammino, metafora del passaggio dall’infanzia all’adolescenza, si imbatterà in una corte spaventosa popolata da sadiche principesse, spregevoli talent scout, ermafroditi leggendari. Il regista, come recita il titolo di un altro suo famoso romanzo, non ha paura: né dei tabù, né delle svolte poco consolatorie, né degli accostamenti visionari. Acuisce a dismisura la crudeltà e la tenerezza. Anna è violenza, Anna è grottesca, Anna è imprevedibile, con i suoi bambini che a volte ammazzano e altre vengono ammazzati. Anna è l’intentato. E, dal basso della sua statura e dall’alto della sua saggezza, fornisce strumenti per trasformare l’incubo del virus in un’indimenticabile fiaba della buonanotte. Con i delfini nei campi di grano, gli elefanti in spiaggia, i pedalò contro la corrente. (9)

La famiglia Emory si trasferisce in un sobborgo bianco nella Los Angeles degli anni Cinquanta. In fuga da una perdita indicibile, si imbatte nella scortesia del vicinato. Popolato da mogli perfette e mariti spavaldi, il quartiere alto-borghese si mette all'opera per rendere un incubo il soggiorno dei protagonisti. L'incipit ci svela che resteranno lì dieci giorni appena. Cos'è accaduto? I pericoli sono al di fuori dei confini del loro giardino, ma soprattutto dentro di loro. Ciascuno dei membri della famiglia, logorato dalle conseguenze della discriminazione, convive con un demone da domare. Come in It, il terrore assumerà di volta in volta forme personali e ancestrali. Serie antologica destinata a raccogliere con successo lo scettro di American Horror Story – da qualche anno a questa parte scivolata nel baratro del cattivo gusto –, Them è un horror sociologico che affronta la tematica razziale senza l'ironia del cinema di Peele. Qui la crudeltà è una maledizione antica quanto gli Stati Uniti. Potentissima e disturbante, questa prima stagione sceglie un approccio scioccante e una deriva sanguinosa come in Tarantino. Di puntata in puntata – da incorniciare la nona, girata in uno straordinario bianco e nero –, trabocca di rabbia cieca, disperazione e violenza. Anche troppa, a detta di coloro che hanno abbandonato la nave davanti alla crudezza dell'episodio numero cinque: un apposito disclaimer, tuttavia, ci avvisava sulla portata degli abusi (fisici, psicologici, sessuali, su minori e animali). Peccato però che Them non vada troppo per il sottile e che molte sottotrame – ad esempio quella di una bravissima Alison Pill, mogliettina modello dagli istinti omicidi – vengano chiuse frettolosamente. Fa più paura il destino di un neonato o la sequenza in cui un'adolescente camuffa il colore della pelle intingendosi nella vernice? Fa più paura il già iconico Da Tap Dance, ingegnosa personificazione del fenomeno del blackface, o la consapevolezza che i mostri reali siano ben altri? Autoconclusiva, coloratissima nella vezzosa messa in scena ma intrisa di profonda inquietudine, la serie Amazon vi farà tremare. Oltre che per spavento, per l'indignazione. (8)

Se l’avessi vista rispettando la tabella di marcia prefissata, The Great sarebbe finita nel meglio della scorsa annata. Nominatissima alla stagione dei premi, benché rimasta ingiustamente a bocca asciutta, è trainata da grandi nomi – lo sceneggiatore è lo stesso della Favorita – e da un cast che include due degli attori più versatili delle nuove generazioni. La penna affilata di McNamara si riconosce sin dall’inizio e contribuisce a rendere irresistibile la serie anche per chi, come me, non ama i period drama. Ritratto pop, grottesco e deformante dell’imperatrice di Russia, The Great a ben vedere è più fedele del previsto nel delineare l’intelligenza rivoluzionaria di Caterina II. Giovane candida e speranzosa, finita nella corte promiscua di Pietro per via di un matrimonio combinato, ordisce un colpo di stato per rendere la Russia moderna. Compagna, amante e spia, persuade il marito con le lusinghe e con le cospirazioni. Prima vorrebbe ucciderlo. Poi, confusa dall’insorgere di un nuovo sentimento, cambia idea. Ama più il suo Paese, però, o il consorte? Elle Fanning, radiosa come una giovane Kidman, ha tempi comici strepitosi e primi piani intensi: distribuisce macaron sul campo di battaglia e porta l’Illuminismo a palazzo (con tanto di innesto del vaiolo). Accanto a lei, Nicholas Hoult: bello come il sole e stupidissimo, si rivela una spalla preziosa grazie al dono dell’autoironia. Storia dei vent’anni della Grande andata in moglie a uno zar fanfarone, la serie Hulu è una commedia nera scritta meravigliosamente. Una riflessione sul potere, e sulle donne al potere, al passo coi tempi nonostante le guance incipriate e i sontuosi abiti d’epoca. Dunque: huzzah! (7,5)

Anno che vai, Ryan Murphy che trovi. Instancabile, prolisso, sempre uguale a sé stesso, lo sceneggiatore e regista americano è uno di quelli che critico sempre ma che sempre, poi, finisco per guardare con puntualità. Dopo l’horror, il musical e le pièce teatrali, questa volta produce una miniserie su Halston: stilista a me sconosciuto – divenne famoso per i cappelli confezionati per Jackie Kennedy, ma realizzò perfino jeans, profumi e costumi per il teatro –, morto di Aids nel corso della parentesi più triste degli anni Ottanta. Nonostante Murphy si limiti a starsene dietro le quinte, porta con sé la solita fotografia noiosamente laccata; il solito trinomio queer di sesso, droga e disco music; un attore di richiamo – un Ewan McGregor molto manierato: a tratti convincente, a tratti pigro – a fare da traino per Emmy futuri. Schiacciato dalla propria fama, inglobato dalla monotonia dei meccanismi aziendali, lo stilista nutriva pessimi rapporti con la critica e aveva per musa l’emergente Liza Minelli. Gli eccessi consueti, ossia amanti e cocaina a gogò, con orchidee dappertutto e incursioni frequenti allo Studio 54, non mancano. Ma a sorpresa mancano i pasticci. Meno dispersivo di altri lavori passati, meno kitsch, il lineare e gelido Halston ricerca in cinque puntate di lunghezza variabile l’uomo dietro il marchio. Riesce nell’intento? Nì. La sceneggiatura, che sembra letteralmente una pagina di Wikipedia, ne descrive infatti vita, morte e miracoli con attenzione cronachistica, ma purtroppo manca il guizzo. Evitabile, fatta eccezione per le emozioni nascoste nel terzo episodio o per la saggezza dell’epilogo. (5,5)

sabato 21 dicembre 2019

Mr. Ciak: The Nightingale, Light of My Life, Ready or Not, Ophelia, Teen Spirit, Vox Lux

Sono uno spettatore che generalmente non si lascia turbare. Jennifer Kent, già ai tempi del bellissimo esordio, tocca però i tasti giusti. E al secondo lungometraggio, premiato a Venezia, conferma il suo ascendente su di me. Tanto The Babadook mi aveva affascinato, quanto The Nightingale mi ha scosso. Sarà che si inizia col peggio – uno stupro, l’infanticidio –, per poi giungere a un epilogo liberatorio, che stempera la sofferenza in un’alba sull’oceano. In un’Australia trasformata in una prigione a cielo aperto, un tenente spregevole – un inedito Sam Claflin, lontano dai soliti film sentimentali –  s’invaghisce di una detenuta irlandese. Il capo di un plotone della morte come può reagire al rifiuto? Sopravvissuta allo sterminio della famiglia, Clare ricerca l’aiuto di un aborigeno: entrambi emarginati, i paria troveranno punti in assonanza in quelle lingue e in quei canti così diversi. Gli inglesi espropriano, violentano, bruciano, ammazzano. E la visione non lascia niente di suggerito né di impunito. Il percorso della coppia, disseminato d’incubi e cadaveri decapitati, risulta provante e potentissimo, nonostante i discutibili viavai della parte conclusiva. Classico ma inattaccabile, The Nightingale è l’epopea western che non avremmo pensato nelle corde della regista; un horror sui mali della colonizzazione, ambientato in una natura resa ancora più selvaggia dalla presenza britannica. È uno schiaffo in faccia per cui ringrazi. Il merito spetta soprattutto all’interpretazione ribollente di Aisling Franciosi, che conosce la vendetta ma anche il perdono; che ha seni beffardi che non smettono di pompare latte; che confida più nelle parole che nella violenza. La sua commovente collaborazione con Baykali Ganambarr, indigeno che decifra le orme e il canto degli uccelli, regala un duetto di rara intensità su un usignolo che non voleva né gabbie né padroni; che preferiva ruggire anziché cantare. (8)

Stesi sulla schiena, parlano fitto per dieci minuti. Sono un padre e una figlia. Lui spiega a lei il sesso e l’amore. Le insegna che nessuna razza è superiore alle altre. Le tramanda i ricordi di una mamma da tenere in vita a furia di storie. Le racconta, rivisto e corretto, il mito dell’arca di Noè. A salvare l’umanità dal Giudizio Universale è stato davvero un uomo? Sono stretti in una tenda da campeggio. Sembra una gita nei boschi, ma in realtà è la fine del mondo. Le donne si sono estinte, non si sa perché, e quella bambina – vestita da maschietto per camuffarsi – è un’eccezione alla regola. Il padre, che trasmette infinita tenerezza, è un uomo di parole e non d’azione. La figlia, terrorizzata dall’evenienza di un abbandono, vive l’età in cui inizia a pretendere gonne e giubbotti glitterati. Camminano tra gli alberi, in cerca di ville o baracche. A volte s’imbattono in anziani ospitali, altre in bracconieri spietati. Light of My Life, esordio alla regia di Casey Affleck, non indugia nei sentimentalismi. Non trasforma la sua giovane protagonista in un canonico simbolo di resistenza. Per quanto questo atipico survival debba tanto, troppo, a The Road e I figli degli uomini, l’odissea del minore degli Affleck ha comunque la sua da dire. Grazie alla voce bassa e intorpidita dell’interprete che già ci ha commossi con Manchester by the sea. Attraverso la lentezza di un genere che mostra poco ma suggerisce tantissimo, parlando più del presente che del futuro; più di noi che dell’apocalisse. Travolto da un’accusa per molestie, l’attore e regista fa ammenda con un atto d’amore al genere femminile lungo un film. Come non credergli, come non perdonarlo, dopo questa indiscreta lezione di vita e resistenza? (7+)

Mentre ci si stappa i capelli per Cena con delitto, giallo di cui si parlerà prossimamente, sotto Halloween – a proposito di feroci rimpatriate tra parenti serpenti – era già arrivato in sala un bagno di sangue ad altissima tensione. Una partita a nascondino disputata con la suspance, dove una Rambo in tulle si emancipa in un battesimo splatter degno delle migliori regine del brivido. Bella e carismatica, con un visino che si concede le stesse smorfie di Emma Stone, la promettente Samara Weaving convola a nozze con uno scapolo d’oro. Durante la prima notte di nozze, però, la neosposina dovrà vincere una sfida in particolare per essere accolta in famiglia: sopravvivere. Con una satira sociale appena accennata, Finché morte non ci separi somiglia alla versione disimpegnata di Get Out. Qual è il segreto della famiglia omicida? Ambizione cieca, o forse c’è lo zampino di Belzebù? I ritmi sono invidiabili, l’umorismo è di quelli caustici, il divertimento è assicurato. Si trattiene il fiato. Si maledicono gli antagonisti a ogni comparsata. Si incita al dente per dente. Iniziata come una fiaba romantica, la commedia horror culmina con una perfida luna di miele. Pronti o no, vi vengo a cercare. Ma si è mai pronti al grande passo? Ai titoli di coda potremmo credere ancor meno nei doveri coniugali, nei legami duraturi, nel lupo che perde il pelo ma non il vizio: preferendo, almeno sul grande schermo, la morte all’amore.  (7)

C’è del marcio in Danimarca. C’è chi da quel marcio viene inevitabilmente corrotto, come Amleto in lotta per la successione. E c’è chi, invece, quel marcio lo subodora prima di altri: ovviamente, una donna emancipata e lungimirante. La fidanzata del personaggio shakespeariano non aveva molta voce in capitolo nell’opera originale: di lei ricordiamo l’annegamento e, soprattutto, il capolavoro di Millais che ne fa una ninfa acquatica. In un’epoca di femminismo e riscrittura, poteva forse mancare la tragedia filtrata dal punto di vista di Ofelia? All’inizio dama di compagnia, ci racconta una storia d’amore e vendetta nota ma non troppo. Piuttosto fedele al Bardo, il film viene rovinato dall’aggiunta degli ultimi dieci minuti, che lo trasformano in un calderone di idee di seconda mano, che attingono ora ai veleni di Romeo e Giulietta, ora ai tradimenti della Dodicesima notte. Il resto lo fanno le forzature e gli anacronismi; un rimaneggiamento non richiesto, adatto solo a riscattare la figura agli occhi delle nuove generazioni. Vicina alla bellezza del pittore ma lontanissima dalla complessità del personaggio, una Ridley fuori parte – paradossalmente, convince nelle poche battute che ricalcano il testo originale – capitana un cast inquadrato dal buon lavoro del direttore della fotografia, ma che fa storcere il naso per la parrucca dello zio Clive Owen e il passo falso di Naomi Watts, regina che fa quanto possibile per risultare credibile. Essere o non essere, è questo il dilemma. Vive la stessa scissione anche l’adattamento di Claire McCarthy: povero e frettoloso. (5)

Violet è una ragazza di belle speranze su un’isola sperduta al largo delle coste inglesi. Figlia di una genitrice single sommersa dai debiti, trova un angelo custode in un ex cantate d’opera ridotto a un clochard solitario: in lei, giovane dalla voce angelica, sembra vedere l'ombra di un talento cristallino. Brava ma non abbastanza ambiziosa, protagonista di un talent show, l’adolescente si scopre spaventata dai bagni di folla e dall’arrivo della puntata finale. Come fronteggiare le aspettative e la pressione psicologica un ambiente competitivo? In Teen Spirit, iconico soltanto per il titolo, c’è l’ascesa di Violet, ma mancano i dubbi, le incertezze, la battuta d’arresto. Fiaba canonica e un po’ superficiale, preferisce i toni drammatici a quelli scanzonati e una fotografia alla Refn, mentre la colonna sonora passa alcuni dei pezzi più ammiccanti delle ultime estati. Restano la regia e il montaggio accattivanti, a opera del figlio d’arte Max Minghella; la bravura assodata di Elle Fanning, dotata di una vocalità interessantissima e sempre perfetta in ruoli che richiedono una bellezza a tratti angelica, a tratti selvaggia. Telegenico e instagrammabile, con poco cuore e altrettanta poca grinta, questo musical non ha la stoffa per la fama. Forse ha l’X Factor – stile, interpretazione, qualche performance da riascoltare –, ma per renderlo memorabile servirebbe il resto dell’alfabeto. (6)

Un’altra ragazza di talento, un’altra storia di canto e rivalsa. Si parte altrove, da lontano. In territori che, all’apparenza, hanno più che fare con il thriller. Una regia caliginosa ci porta negli Stati Uniti, nel cuore di una strage scolastica. La giovane Celeste sopravvive. E canta la sua rinascita fino a diventare una stella. Ma la sua carriera, inquadrata in tre tappe fondamentali della formazione, è scandita da tre atti di violenza: prima la strage, poi il crollo delle Torri Gemelle, infine un attentato in Turchia. Perseguitata dalla fatalità, la pop star canta i sogni infantili e il decadimento; l’ambizione e la barbarie. Simbolo dei più, deve il proprio successo a Dio o a un patto con il diavolo? Vox Lux, profondo su carta, vorrebbe raccontare assieme all’evoluzione del personaggio femminile l’involuzione del panorama musicale. Ma partito sotto i migliori auspici, con la voce narrante tipica dei documentari, abbandona la cupezza iniziale per una verbosissima seconda parte. Pretenzioso ma molto ben diretto, il film di Corbet si articola infatti in una serie di colloqui con la sorella maggiore di Celeste, la figlia, il manager Jude Law, un giornalista scandalistico. La colonna sonora è poco orecchiabile. E la protagonista, interpretata da adulta da una dimenticabile Portman, incarna il prototipo della celebrità capricciosa e narcisista, circondata di relazioni fallimentari e tappe bruciate. Il tutto, in direzione di un epilogo da film-concerto, dove il playback spudorato di Natalie e le coreografie alla Lady Gaga non sono all’altezza dell’apoteosi istantanea del personaggio. Lo spettacolo deve continuare. E il film invece? Quando comincia? (5,5)

giovedì 1 agosto 2019

Mr. Ciak ad agosto: la mia ultima volta al cinema con Pensieri Cannibali e White Russian

Salve, amici. Come state? Il caldo bestiale di quest'inizio di agosto è tantissimo, sì, ma comunque non abbastanza da impedire le rimpatriate in sala. Sapete chi ho incontrato di nuovo? Gli amici-nemici Cannibal Kid e James Ford che, come già accaduto qualche anno fa, hanno aperto le porte dei loro blog per commentare insieme le uscite cinematografiche: non di questa settimana, ma dell'intero mese. Sarà davvero la nostra ultima volta insieme? Sperando di vederne delle belle – e di trovarli, soprattutto, belli carichi –, vi lascio con la carrelata di un agosto che, almeno sul grande schermo, promette al solito qualche ventata di freschezza, fra commedie generazionali, horror "a mollo", titoli festivalieri da rispolverare.

Una famiglia al tappeto (1 agosto)
Mr. Ink: Per anni e anni, da ragazzino, sono stato un patito di wrestling. Non sono più aggiornato da un po’. Accanto a The Rock, Triple H e John Cena, però, ricordo loro: le Divas. Bionde e sexy come le conigliette di Playboy. Qualcuna se le dava di santa ragione. Qualcuna – per esempio Stacy Keibler, ex fiamma di George Clooney – era più interessata alle paparazzate che al ring. Fare un film sulla giovane Paige, lottatrice atipica con il look da rocker e il nome di una delle sorelle Halliwell, poteva essere interessante: mio fratello mi parla di uno scandalo sessuale che l’ha vista coinvolta e di un infortunio, purtroppo, che l’ha costretta presto al ritiro. Restando su toni più superficiali, invece, il film è un’innocua favoletta femminista sulla scia di Glow con la prezzemolina Florence Pugh. Già visto, se ne scriverà a breve.
Cannibal Kid: Mr. Ink era un patito di wrestling?!? Questa non me l'aspettavo. Questo sì che è un colpo basso! Che Mr. Ink e Mr. Ford in realtà siano la stessa persona? Se non altro, come chiunque abbia superato gli 8 anni di età, Ink ha smesso di seguire questo “sport”. Anche io comunque ho già visto questo film e devo dire che... mi è piaciuto un sacco. Sorpresa! Dopo Glow, il wrestling femminile mi ha messo di nuovo al tappeto. Quello maschile invece continua a sembrarmi una fordianata pazzesca.
Ford: sapevo della passione di Ink, che ovviamente sostengo e che anzi, sul buon esempio del fratello, gli consiglio di rispolverare. Non ho ancora visto il film - ma è tra le visioni obbligate delle vacanze -, ma quello che posso dire è che la figura di Paige è stata senza dubbio una delle più importanti per il cambiamento avvenuto nel wrestling femminile degli ultimi anni: la ragazza è sempre stata parecchio turbolenta - le sue relazioni sentimentali ed i gossip conseguenti ne sono la prova -, ma sul ring era un vero talento, e l'infortunio che l'ha costretta al ritiro giovanissima è stato uno dei più grandi torti al wrestling che il destino abbia giocato nel passato recente. Ad ogni modo, aspetto di essere messo al tappeto.

Hotel Artemis (1 agosto)
Mr. Ink: Un trafficante, un assassino, due ladri e un poliziotto s’incontrano in un ospedale privato. Sembrerebbe proprio l’inizio di una barzelletta triste, di quelle che raccontano gli zii alticci (o Ford, anticipando la battuta del Cannibale) alle cene di Natale. Si tratta, in realtà, di un thriller futuristico con un cast decisamente popoloso, che medie disastrose e un poster italiano realizzato con gli scart di Paint hanno reso a malapena adatto per una timida distribuzione estiva. Neanche il piacere di rivedere Jody Foster, di recente regista di film e serie TV tutt’altro che memorabili, può spingermi a fare il check-in all’Artemis.
Cannibal Kid: Film che latita nell'hard-disk da mesi, la sua uscita italiana mi ha ricordato della sua esistenza. E ora che me ne sono ricordato, posso dimenticarmene di nuovo. Di cosa stavamo parlando?
Ford: altro film che mi pare sinceramente scarso e che non intendo recuperare neppure alla vigilia delle ferie, quando la serata film diventa una vera e propria goduria, specie sapendo che il giorno dopo ci attende il mare invece che il lavoro. Passo oltre senza troppi patemi.

Fast & Furious – Hobbs & Shaw (8 agosto)
Mr. Ink: The Rock e Jason Statham chi? Ospitato da due boss come Ford e Cannibal Kid, esperti in risse (verbali) da orbi, mi sembra una scortesia grande preferire la compagnia dei protagonisti dell’ennesimo Fast & Furious (reboot, prequel, boh: non so cosa sia) alla loro. Lo salterò per questo motivo perciò, e non perché non abbia mai visto in vita mia un capitolo della serie action.
Cannibal Kid: Mr. Ink, non hai mai visto manco un Fast & Furious? Devi recuperare il primo, un caposaldo della tamarraggine dei primi anni zero, mentre il resto della saga è più che altro trascurabile. Curiosamente, a introdurre Ford alla visione di questa serie cinematografica ero stato proprio io. Riuscirò a convincere pure il poco tamarro autore del blog letterario Diario di una dipendenza? Tutto può succedere, tranne che questo non necessario spin-off dedicato alla versione action-hero di Ford & Me, ovvero Hobbs & Shaw interpretati da Dwayne Johnson & Jason Statham, si riveli un capolavoro.
Ford: questo spin off di un franchise partito decisamente male e divenuto interessante con l'arrivo di The Rock e del suo livello oltre misura di tamarraggine promette di essere uno dei guilty pleasure fordiani dell'estate: botte, casino, The Rock, Statham, altre botte, esplosioni, altre botte. E, sempre in tema di wrestling, la comparsata di un parente dello stesso Dwayne Johnson, considerato da molti come il "nuovo John Cena", Roman Reigns. Direi che non posso perderlo.

Il sole è anche una stella (8 agosto)
Mr. Ink: Lui, asiatico, incontra lei, giamaicana con il visto in scadenza. Hanno un giorno insieme, New York e pochissime speranze di lieto fine. Sembra tutto talmente teen e adorabile, ovviamente, che lo conosco già. Lo scorso anno ho letto infatti l’omonimo romanzo di Nicola Yoon, giù autrice del passabile Noi siamo tutti, con un coinvolgimento che non mi sarei aspettato. Un po’ Serendipity, un po’ Prima dell’alba, come risulterà in sala un genere che, di solito, preferisco leggere sotto l’ombrellone anziché guardare?
Cannibal Kid: Finalmente Mr. Ink rivela il suo lato più cannibale, e finalmente la programmazione cinematografica di agosto mi regala una youngadultata strappalacrime come si deve. A piangere mi sa però che sarà più che altro Ford. Dal terrore.
Ford: in effetti, questo promette di essere l'horror più terrificante dell'estate. E di fronte ad una cannibalata tale, giro bene al largo.

Crawl – Intrappolati (15 agosto)
Mr. Ink: Gli animalisti devono essersi rotti i cosiddetti. Squali intrappolati negli uragani del trash, squali che nuotano nei supermercati sommersi, squali alle prese con le grazie di Blake Lively o Mandy Moore strizzate in drammatici bikini colorati. Insomma, non soltanto Steven Spielberg. E alla lobby dei coccodrilli giganti, invece, chi pensa? Il francese Alexandre Aja, dopo avermi divertito da morire con Alta tensione, Le colline hanno gli occhi e Piranha, ci porta in uno scantinato allagato. Una trappola mortale, in cui la suddetta belva assassina può tormentare Kaya Scodelario: piuttosto misera a livello di curve, vero, la fanciulla britannica di Skins è comunque una bellezza da non sottovalutare. Produce Sam Raimi.
Cannibal Kid: Una robaccia survival trash con i coccodrilli giganti? Ma questa è una fordianata gigante che non guarderò mai!
Ah, la protagonista è Kaya Scodelario? Corro subito a guardarlo!
Ford: Aja è piuttosto incostante, ma il suo livello di trash abbastanza elevato da farmi considerare questo survival con coccodrillo gigante annesso come un altro dei guilty pleasures da ombrellone che mi sa tanto dovrò cercare di recuperare, immaginando una delle future battaglie con il Cannibale con me nella parte del rettile mangiatutto e lui in quello della damigella in pericolo.

Il re leone (21 agosto)
Mr. Ink: Margo Mengoni ed Elisa sono le versioni italiane di Donald Glover e Beyoncé. Doppieranno Simba e Nala, tanto nel cantato quanto nel parlato, nel’ennesimo live action non richiesto. Ripeto, signore e signori, Mengoni ed Elisa: e c’è chi, con anni d’anticipo, osa lamentarsi se la prossima Ariel sarà impersonata da un’attrice di colore? Di questo passo attendiamo Crudelia doppiata da Alessandra Amoroso: i dalmata, così, si ammazzeranno direttamente da sé, per la gioia delle pelliccerie di ogni dove.
Cannibal Kid: Considerando che già la versione originale a livello musicale non è niente di che, per quella italiana c'è proprio da aver paura. Anche se la scelta di Elisa non mi sembra così malvagia. Considerando inoltre che già ero stato tra i pochi al mondo a non aver sopportato la ruffianissima e fordianissima pellicola animata, questa “nuova” versione, non richiesta soprattutto da me, me la sbranerò. Se mai la guarderò.
Ford: la Disney, in evidente crisi di idee, continua a propinare al pubblico live action dei suoi film d'animazione più noti e amati. E, a meno di pressioni insostenibili dei Fordini, farò come ho già fatto con Dumbo e compagnia bella. Finta che non siano neppure usciti.

La rivincita delle sfigate (21 agosto)
Mr. Ink: Inaspettato successo di critica in patria, Booksmart – esordio alla regia dell’attrice Olivia Wilde – arriva in Italia storpiato da un titolo a misura di Giffoni. Ritratto adolescenziale annunciato come fresco e divertente, per alcuni già iconico, potrebbe essere una delle maggiori sorprese di una stagione dichiaratamente fiacca. Dopo Eight Grade (se vi manca, recuperatelo!) ho lasciato un posto vuoto per un altro romanzo di formazione, sperando che quest’opera prima sia proprio il diamante grezzo di cui si legge in anteprima.
Cannibal Kid: Dai, dai, dai. Un film teen che si preannuncia come il Lady Bird di quest'anno e che si prenota un posto tra i miei nuovi cult personali. Alla faccia di quello sfigato di Ford, uahaha!
Ford: nonostante le apparenze cannibalesche - paurosamente cannibalesche - questo film potrebbe rivelarsi la sorpresa del mese e forse dell'estate, considerato che incuriosisce perfino un tamarro senza ritegno come il sottoscritto. Speriamo bene.

Submergence (22 agosto)
Mr. Ink: Nomen omen. Sumbergence, dramma romantico con a bordo una coppia di belli e bravi da paura (Michael Fassbender, nella fantasia di qualche fan, probabilmente si è spupazzato entrambi), è stato sommerso e superato dagli altri titoli girati nel mentre da Alicia Vikander e James McAvoy. Io stesso me l’ero procurato in lingua per poi dimenticarlo presto e senza rimpianti sul mio Hard Disk. C’è da aggiungere l’aggravante, poi, che il cielo non brilli da un po’ sulla filmografia ondivaga del regista Wim Wenders... Meriterà finalmente una rispolverata, e il recupero?
Cannibal Kid: Se manco a un fan di Alicia Vikander come me è mai venuta voglia di guardare questo potenziale polpettone che ha già due anni sul groppone, dubito che verrà a qualcun altro. Forse giusto a quel tenerone di Ford, uno dei pochi al mondo a cui quell'altro polpettone con la Vikander, alias La luce sugli oceani, era piaciuto ancora più che a me.
Ford: La luce sugli oceani era stato una grande e inaspettata sorpresa, ma c'è da dire che in quel periodo ero a casa per il mio anno sabbatico dal lavoro ed avevo le energie fisiche e mentali per affrontare polpettoni di ogni genere. Ora mi pare più difficile, dunque penso che lascerò Wenders ancora per un pò in standby.

Charlie Says (22 agosto)
Mr. Ink: Il famigerato Charles Manson si contende il titolo di cattivo dell’anno con il nostro Matteo Salvini. Spunto prima per un orribile film di serie Z con la rediviva Hilary Duff nei panni di Sharon Tate, poi per l’ultimo attesissimo Quentin Tarantino, il carismatico sussurratore dallo sguardo infernale ha questa volta il volto di uno dei Doctor Who più noti nel ritorno in sala di Mary Harron. Sia per il passaggio in Laguna, sia per la regista che – a proposito di squinternati da manuale di psicologia – firmò il cult American Psycho, ci si fida.
Cannibal Kid: Come antipasto per il film di Tarantino ci potrebbe stare. Anche perché pure io di Mary Harron mi fido, così come non mi fido di James Ford, Charles Manson e Matteo Salvini. I tre cattivi dell'anno. E di sempre.
Ford: Manson è un personaggio che mi ha sempre infastidito, un pò come Cannibal, e parlando di psicopatici e serial killers non è mai stato tra i miei favoriti. Eppure, non fosse altro che per fare da anticamera a Tarantino, una visione ci potrebbe stare. Potrebbe.

Attacco al potere 3 – Angel Has Fallen (28 agosto)
Mr. Ink: Perché, ne hanno fatto pure altri due? Gerard Butler, accusato del tentato omicidio del Presidente degli Stati Uniti (no, non Donald Trump: la storia allora sarebbe molto diversa), si vendica insieme a papà Nick Nolte. L’attore protagonista, per l’occasione, rispolvera in parte il canovaccio di Giustizia privata – thriller tamarro che, a sorpresa, mi era piaciuto parecchio ai tempi – e ruba il ruolo all’ormai intercambiabile Liam Neeson. Gerard, che mi combini: la precedenza agli anziani!
Cannibal Kid: La precedenza agli anziani non viene data nemmeno in questa rubrica. Ford infatti è sempre l'ultimo a commentare. Mentre sarà il primo (e unico) a guardare questo nuovo inutile capitolo di una saga che per me poteva tranquillamente finire già al trailer del primo film.
Ford: Gerardone Butler è uno dei fordiani più fordiani degli ultimi anni, anche se ammetto che la saga di Attacco al potere è quasi troppo perfino per me. Avendo visto gli altri due ed essendo in agosto potrebbe scapparci anche questo numero tre, ma non garantisco. A meno che il Gerardo non mi prometta di darle a Trump, Cannibal o entrambi.

The Rider – Il sogno di un cowboy (29 agosto)
Mr. Ink: Tante cose possono dirsi del Cannibale, belle e brutte, ma non che non abbia un certo gusto per i colpi di teatro: me lo conceda a cuor leggero anche Ford. Chi non legge le sue classifiche di fine anno per sapere quale film di nicchia, all’ultimo momento, ha tirato fuori dal cilindro? Nel 2018, fra gli altri, è stato il turno di The Rider. Dramma western alla Kent Haruf, acclamatissimo nel circuito indie, che potrebbe regalare gioie e lacrime di commozione anche su White Russian. E quando un piccolo film mette d’accordo il Gatto e la Volpe, diciamolo, non può che essere grande.
Cannibal Kid: Sono felice che i miei colpi di teatro siano apprezzati, almeno da qualcuno. Un altro colpo di teatro è l'annuncio che questa sarà l'ultima puntata della rubrica sulle uscite cinematografiche. Però se non altro si chiude alla grande. The Rider a me è piaciuto decisamente, ma credo che Ford potrebbe trovarlo addirittura uno dei più bei film del decennio. E una pellicola gradita da entrambi è un altro colpo di scena clamoroso.
Ford: non mi ricordavo di questo colpo di teatro del Cannibale, e dunque mi segno di recuperare questo The Rider - che promette benissimo - in modo da poterne parlare appena tornerò dalle vacanze, anche se sarà durissima farlo rischiando di essere d'accordo con il Cucciolo Eroico, così come è stata dura essere d'accordo con lui nel decidere di chiudere questa rubrica.

Teen Spirit – A un passo dal sogno (29 agosto)
Mr. Ink: Ha il titolo che fa pendant con una canzone dei Nirvana ma, nella colonna sonora interamente cantata dalla protagonista, si scorgono a colpo d’occhio alcuni dei successi pop più trasmessi di questi anni. In attesa di vedere Natalie Portman in Vox Lux ed Elisabeth Moss in Your Smell, ci si godrà con gli occhi a cuoricino il talento e la bellezza della mia sorella Fanning preferita. Benché il sottotitolo suggerisca un musical in stile Disney Channel, meglio fidarsi della fotografia cupa alla Refn e della prova alla regia di Max Minghella, figlio d’arte conosciuto come attore (è Nick, l’autista innamorato) in The Handmaid’s Tale. Off topic: su YouTube, intanto, cercate il duetto fra Elle e Woodkid e alzate il volume a palla.
Cannibal Kid: Per chiudere alla grandissima per sempre questa rubrica, dopo il gioiellino The Rider ecco un altro potenziale nuovo cult assoluto. Per abbassare un po' le aspettative devo ricordarmi della cocente delusione provocata di recente da Vox Lux. Questa volta spero comunque che tutto vada per il verso giusto. Elle Fanning in versione popstar è già la mia nuova popstar preferita e un film del genere qui su Pensieri Cannibali già solo dal titolo è a un passo dal sogno. E a un passo dal cult.
Quanto alla fine della nostra rubrica sulle uscite cinematografiche, rappresenta invece la fine di un incubo. Almeno per un po' potrò starmene beato senza le opinioni spesso discutibili, e ancor più spesso detestabili, di Mr. James Ford. Tranquilli però che la nostra rivalità continuerà ancora. Cannibal VS Ford, la sfida prosegue. Coming soon su Pensieri Cannibali e WhiteRussian.
Ford: si chiude questa puntata - e la rubrica - con un potenziale cult cannibale che spero sinceramente di poter massacrare alla grande, più che altro perchè, ora che un capitolo è alle spalle, la rivalità più lunga della blogosfera ha bisogno di nuove sfide, e nuova benzina gettata sul fuoco. Non sia mai che si lasci questo spazio troppo vacante, del resto.

giovedì 14 febbraio 2019

Mr. Ciak: La vita in un attimo | How to talk to girls at parties | Film stars don't die in Liverpool

Un Oscar Isaac dalla barba incolta parla della rottura con Olivia Wilde sul divano della psicologa Annette Bening: aspiranti sceneggiatori, i due facevano faville vestiti da Pulp Fiction a Halloween e aspettavano un bambino. Olivia Cooke, cantante arrabbiata con il mondo intero, annienta il romanticismo di una ballata di Bob Dylan urlandola a squarciagola in chiave metal. Da qualche parte in Spagna, invece, Antonio Banderas – proprietario terriero, ma non del “Mulino che vorrei” - aiuta il figlio di Laia Costa a superare un trauma insanabile. Una manciata di nomi noti, personaggi agli antipodi nel tempo o nello spazio, le cui storie ruotano attorno allo stesso avvenimento tragico. A lungo, così, è dalla tragedia che cercheranno di allontanarsi. Sebbene sia un melodramma corale da inserire nel filone di Collateral Beauty, Life Itself lo si approccia con un occhio di riguardo: merito del taglio indie e di un inatteso black humor, delle audaci variazioni sul tema della prima parte, dei cambi di rotta shock. Soprattutto, inutile negarlo, del tocco magico di chi ha ideato This is us e consumato 500 giorni insieme a furia di visioni. La voce narrante della Wilde ci racconta con toni alterni di famiglie disfunzionali, sentimenti da elaborare e altri drammi; del destino sfortunato degli orfani e della bellezza pericolosa di New York, scomodando fra le righe implicazioni filosofiche e narratologiche che rendono senz'altro più estremo il classico intreccio intergenerazionale. Questo nuovo giro di vite prende avvio in maniera violenta e proseguendo, poi, si scopre più accomodante senza grandi sensi di colpa. La morale, già consolidata: cosa fare se la vita ti dà dei limoni? Facile, fanne una limonata: spremila, zuccherala, bevine fino all'ultima goccia. E ricomincia daccapo. Magari, all'interno di una sinfonia polifonica che si muove al solito in cerca di risposte esistenziali, e al solito funziona bene con i toni dolci della seconda metà. Grazie ai dettagli, ai volti, alle piccole cose in cui piace riconoscersi. E di cui, nella sera giusta, magari ci commuoviamo un po'. I narratori, si afferma, sono inaffidabili per loro stessa natura: la narratrice per eccellenza, in teoria, resterebbe la vita stessa. Come crederlo, però, davanti a una frenata agghiacciante, a uno sparo a bruciapelo, a una malattia innominabile, a un tradimento che ancora brucia nell'anima? Ci si affida, in quel caso, agli sceneggiatori che non si allontanano mai dalla comfort zone. Se anche la vita si rivela inaffidabile, Dan Fogelman, per fortuna, non troppo. (6,5)

Prendete un trio di amici e collocateli nell'Inghilterra punk. Alla ricerca dell'ennesima festa trasgressiva, guardateli seguire la musica e imbattersi in una casa di stranezze, sesso e piaceri in stile Rocky Horror Picture Show: tutine in latex coloratissime, proposte indecenti, bassi solletichi che d'un tratto ti aprono le gambe e mondi interi, in barba alla virilità. I protagonisti pensano che i tenutari siano gente strana perché americana. In realtà, sono alieni in trasferta – e, per di più, cannibali. Elle Fanning, così perfetta da apparirci a tratti una marziana davvero, per quarantotto ore abbandona la base e segue con il batticuore Alex Sharp, bruttino ma con carattere. Tempo a sufficienza per affezionarsi all'idea di cantare in un gruppo, ai baci ribelli di lui, alla tentazione di restare lì? La classica relazione breve e impossibile, che ricorda un po' una fiaba moderna in stile Splash: Una sirena a Manhattan, regala sorprese se proviene, come in questo caso, dalla folle inventiva di Neil Gaiman. Fantasiosa metafora di quel decennio di lotta generazionale e incomprensione reciproca, How to talk to girls at parties è una commedia rock 'n' roll con la testa fra le nuvole e risvolti straordinari, che fa faville nei momenti da puro boy meets girl – questi ultimi culminano con un allucinato duetto, prima che il film imbocchi la poco convincente mezz'ora conclusiva – e purtroppo si sfilaccia un po' in un epilogo infarcito di dialoghi esplicativi, toni grotteschi, stanze affollate. Festa discinta, rumorosa e dispersiva – nella folla scorgiamo la talent scout Nicole Kidman, in un ruolo piccolo ma incisivo –, con un'irresistibile messa in scena e un messaggio tutt'altro che sottile a sfavore, ma una candida storia d'amore per centro nevralgico. Lontano dall'essere un manifesto generazionale, How to talk to girls at parties resta comunque un apprezzabile teen movie d'autore. John Cameron Mitchell, decisamente nel suo fra travestitismo, giovinezze scatenate e pentagrammi, questa volta è troppo immalinconito per provocare. Effetto non tanto delle droghe pesanti quanto della nostalgia di chi, insieme a Gaiman, rimpiange il graffio dei vinili, i vent'anni e quell'occasione persa un trentennio fa: con una aliena uguale alla Fanning che, nell'allegria sconsiderata delle prime volte, ci aveva promesso perfino le stelle. (7)

Ci sono quei film belli e sfortunati che passano in sordina. Ignorati ai piani alti, non trovano nessuna distribuzione italiana: l'avvento del sottotitolo, per fortuna, ha salvato dall'oblio la visione di Film stars don't die in Liverpool – a carico, la bellezza di tre candidature agli scorsi Bafta – e il ricordo agrodolce di Gloria Grahame, diva già una volta sparita dai radar. Probabilmente nessuno di noi, oggi, la ricorderà. Classe 1923, vincitrice di un Oscar nell'anno di Cantando sotto la pioggia, l'attrice aveva collezionato quattro matrimoni fallimentari, pochi ingaggi e un tumore al seno mai del tutto debellato. Meglio rinunciare alla chemioterapia, nella paura di perdere i capelli, la bellezza e il lavoro. Stella del muto ormai in caduta libera, negli anni Ottanta nascondeva la cicatrice della mastectomia e s'innamorava di un aspirante attore più giovane di tre decenni. Gloria porta Peter a New York, lo invita in ristoranti frequentati da leggende del cinema, gli regala una favola da seguire senza un briciolo di scetticismo. Lui, dalla sua, ricambia con un altro copione; quello dell'ultimo grande amore. La Grahame fumava come Lauren Bacall, si atteggiava alla maniera di una Marilyn seducente e falsamente svampita: piena di femminilità e decoro, permalosissima, faceva sparlare per le relazioni scandalose e sognava di interpretare Giulietta benché non avesse più l'età. Ignorò strenuamente il suo male, fingendo fosse indigestione; prima fuggì, come fanno gli animali morenti, e infine si rifugiò a Liverpool presso la famiglia di Peter, circondandosi di trucchi, pellicce e affetti sinceri. Si reincarna alla perfezione, qui, nei gesti di una Bening somigliante e straordinaria, al punto da non spiegarsi la mancata considerazione dell'Academy. E si gode la compagnia di un ritrovato e cresciuto Jamie Bell, che dopo i fasti di Billy Elliot torna a ballare e a condividere il set con l'adorabile Julie Walters. La biografia sentimentale di Paul McGuigan scivola con grazia invidiabile dal presente al passato. Il famoso umorismo britannico e qualche guizzo stilistico donano alla Grahame il batticuore finale, allora, e a noi qualche furtiva lacrima in poltrona. Soprattutto, nuovo lustro alle stelle offuscate dalla memoria breve di Hollywood. Film stars don't die in Liverpool è l'altra faccia di Viale del tramonto: quella felice. (7,5)

domenica 3 dicembre 2017

Mr. Ciak - Torino Film Festival: Darkest Hour, Mary Shelley, Professor Marston and The Wonder Women

Mali estremi richiedono estremi rimedi. La Seconda guerra mondiale è in atto. Hitler avanza. Diffonde la paura per le sue scelleratezze soprattutto in Europa. L'Inghilterra e le truppe alleate tremano. A chi affidarsi in tempi così disperati? Chi vorrebbe sobbarcarsi il peso di scelte decisive, questioni di vita e di morte? La proverbiale patata bollente spetta a Winston Churchill: primo ministro, essenzialmente, perché non c'era altra scelta. All'opinione pubblica non piacevano i suoi modi radicali. I suoi discorsi infervorati che parlavano della guerra come necessaria, mai banalmente di pace. Darkest Hour, ritratto pubblico e privato del politico inglese, racconta un uomo e un Paese indecisi sul da farsi. Circondati da forti venti di guerra, da opinioni divergenti. Cosa voleva il mondo da loro? Cosa il popolo? Dirige con mano elegante, al solito, un impeccabile Joe Wright. Whiskey a colazione, la cenere dei sigari dappertutto, le scelte importanti prese sulla tazza del water. Qualche gradevolissimo tocco di umorismo british ma, in definitiva, troppa pesantezza. Da colui che mi ha reso digeribile Jane Austen, moderna la letteratura russa, memorabile e spregevole la piccola Saoirse Ronan, mi aspettavo classe immancabile, sì, e quella punta di interesse che manca. Non amo il film bellico e Wright, che in un meraviglioso piano sequenza aveva colto invece l'essenza della battaglia di Dunkerque meglio e prima di Cristopher Nolan, non fa eccezione. La guerra è mostrata non in campo ma nelle retrovie. Con il linguaggio tutt'altro che semplice degli addetti ai lavori. All'azione, Darkest Hour preferisce così i fiumi di parole di un oratore bravissimo. Rigoroso e teatrale, il film finisce per annoiare spesso. Soltanto il Churchill uomo – vulnerabile, bizzoso, capace di tenerezza giusto con la moglie Kristin Scott Thomas e la stenografa Lily James – prende, diverte, con quella sua figura tozza e un parlare indescrivibile, biascicato, che si perderà sfortunatamente in fase di doppiaggio. Non possono bastare neanche i virtuosismi di un Gary Oldman da Oscar – più grande del film in sé, qui si dà a un one man show che fa quasi dimenticare gli sbadigli – per illuminarla a giorno però, quest'ora più buia. (6)

Figlia di due intellettuali, Mary cresce curiosa e malinconica, leggendo poesie al cimitero e intrattenendo i fratelli con storie di spettri. Appassionata di scienza e occulto, orgogliosa e romantica come Jane Eyre, cade in contraddizioni a sedici anni: si innamora corrisposta di Percy, impenitente e carismatico dongiovanni, e abbandona tutto – la famiglia, l'horror, soprattutto il rispetto per se stessa – per stargli accanto. Fanno scandalo. Convivono senza essere sposati, vivono ambigui ménage a cui Mary a volte non riesce a opporsi e, senza fissa dimora, sono assillati dai creditori. Lui predica e pratica l'amore libero. Lei lo appoggia in teoria, ma nella pratica vorrebbe trovare una voce e radici sentimentali più salde. Mary Shelley, romanzesco e appassionantissimo, lungo ma leggero come una piuma, è uno di quei rari film in costume che sono riusciti a non annoiarmi nel mentre. Complice una Elle Fanning la cui vista rinfranca ogni volta il cuore e che, per temperamento ed eleganza, ricorda la Kidman dei tempi felici. Con lei il narcisista Douglas Booth, l'indivisibile sorella interpretata dalla Bel Powley delle commedie indie e Tom Sturridge, perfetto Lord Byron dalla sessualità fluida e dagli occhi bistrati. Incalzante, classico, bene attento alle emozioni e ai passi del processo creativo, il dramma biografico di Haifaa Al-Mansour passa dal petto alla testa, dalla desolante morte di un figlio agli avvisi dei creditori, fino ad arrivare a una pubblicazione inizialmente accolta nell'anonimato. In giorni di pioggia, ospite presso il castello di Byron, Mary sfidò se stessa e le aspettative di un marito – e di un mondo – ancora maschilista. Frankenstein nacque per ripicca contro l'ozio di un inverno e l'insoddisfazione di una giovane donna che si atteggiava a femminista ante litteram, per poi struggersi con vergogna per le proprie pene d'amore. Dalla sindrome di abbandono che portò con sé dal giorno della nascita. Dai continui voltafaccia di un amante capriccioso, umorale e già sposato. Nel ritratto semplice ma intenso di un'eroina da film di Victor Fleming, ci sono tutta la grazia di una Fanning che ormai non sbaglia la scelta di un ruolo; il fuoco interiore che ne anima le fughe, i discorsi accesi e le naturali contraddizioni; quell'amore totalizzante, malsicuro, che genera i peggiori mostri e i migliori capolavori. (7)

Insegnano psicologia. Insieme da una vita, belli e affiatati come il primo giorno, si stimolano intellettualmente. Si piacciono ancora. Non temono, perciò, che un'amante – la studentessa più promettente del corso di lui, che con la sua bellezza da bambola attira sguardi a lezione – possa dividerli. A quella ventiduenne che vorrebbe cambiare il mondo, i coniugi Marston aprono prima la camera da letto, poi la casa. Si innamorano entrambi di lei, con la scusa di voler studiare i meccanismi delle confraternite, le relazioni umane, i misteri della sessualità. William Moulton Marston perfezionerà la macchina della verità, sperimenterà i piaceri del bondage e della vita a tre, inventerà – per amore delle sue donne straordinarie – il personaggio di Wonder Woman. Lontana dall'eroina buonista dello strombazzato film della Jenkins, l'amazzone sfidava il tabù dell'omosessualità, praticava il sadomasochismo e, come il suo ideatore, viveva in un mondo di sole donne. Il costume un po' succinto ispirato al mondo del burlesque, corde e legacci come metafora del rapporto amoroso: dove a volte bisogna sottomettere e altre dominare, se in cerca di equilibri. Un Luke Evans non troppo convincente deve difendersi a spada tratta dalle accuse di immoralità e dal bigottismo di una Connie Britton che lo torchia. Deve farle capire, farci capire, che non era solo per il gusto fine a sé stesso di provocare. Che lui, la candida Bella Heathcote e una straordinaria Rebecca Hall si amavano davvero: alla pari. E mettono così su famiglia, crescono figli senza distinguerli fra è mio o è tuo, vivono un felice ménage à trois – anche se l'intolleranza, le crisi melodrammatiche sono dietro l'angolo – che può funzionare anche lontano dagli appartamenti francesi di The Dreamers. Peccato che Professor Marston & The Wonder Women, sulla falsa riga di Masters of Sex, vorrebbe parlare di un erotismo, di una modernità, che vuoi gli stilemi da fiction, vuoi le briglie tirate da un'impersonale Angela Robinson, non riesce a mettere in pratica. Peccato che un triangolo di belli e bravi sia notevolmente sbilanciato, se la presenza della Hall – per fascino e maturità – offusca quella di compagni non alla sua altezza. Rispettosa e delicata, troppo, televisiva nella scrittura, la biografia dell'uomo che ispirò Wonder Woman e le famiglie non convenzionali interessa ma non solletica certe fantasie. Una vicenda moderna, da conoscere, che rinuncia al sesso ma che di sesso parla – quando c'è, girato con molto impaccio, ha Feeling Good in sottofondo. Marston e le sue orgogliose odalische sarebbero fieri di sapere che, decenni e decenni dopo, nell'anno in cui la loro invincibile Diana è arrivata in sala con successo, il cinema stia parlando finalmente di loro, mostandone serenamente i pensieri sconvenienti e le passioni all'avanguardia. Meno all'idea che, nel raccontare loro che di vergogna non ne avevano affatto, intervengano i toni cauti, le immagini pulite, di un biopic che vorrebbe ma non può. (5,5)

giovedì 21 settembre 2017

Mr. Ciak a reti unificate - Aggiungi un post(o) in sala

Sai che c'è di nuovo, di giovedì? 
Che la rubrica a quattro mani di Pensieri Cannibali e White Russian - uno sguardo sui film in arrivo in sala, settimana dopo settimana - ha voglia di cambiare un po'. Le frecciatine fra il Cannibale e Mr. Ford, così, fanno spazio a un ospite. Per inaugurare post uguali ma diversi, guarda un po', hanno fatto posto proprio a me. Onoratissimo, mi siedo in mezzo ai due litiganti. Adesso arriva il bello, e lì li voglio sentire: ragazzi, che si va a vedere nel weekend?

L'inganno
Cannibal Kid: Quale modo migliore per aprire la rinnovata rubrica sulle uscite settimanali, se non il nuovo film della migliore regista del mondo? Sofia Coppola torna con un nuovo attesissimo lavoro e spero che Mr. Ink mi appoggi dagli attacchi del bruto Mr. Ford, che cercherà di convincere il mondo che la Coppola Jr. dopo Bling Ring sia un'Autrice finita, ma non è vero. Se proprio dobbiamo attaccarla, facciamolo per quella cacchiata natalizia di A Very Murray Christmas. L'inganno dovrebbe comunque segnare un ritorno alle sue origini, quelle del capolavoro assoluto Il giardino delle vergini suicide, nonostante il fatto che si tratti di un remake mi lasci un po' perplesso. Il film originale, La notte brava del soldato Jonathan, ho anche provato a guardarlo, ma devo ammettere di aver abbandonato la visione per noia dopo pochi minuti. Sarà che io già non sono un grande fan del Clint Eastwood regista, ma certo che come attore era (ed è) proprio una cagna maledetta, ahahah! Il film è tratto inoltre da un romanzo, che però manco Mr. Ink ha letto. E se non l'ha fatto lui che legge 3 mila libri al giorno, mi sa che non l'ha fatto nessuno né in questo mondo, né sulla città dei mille pianeti.
Ford: Sofia Coppola è per me un'incognita. È riuscita, negli anni, a tirare fuori film sopravvalutati e radical chic - Lost in translation -, produzioni decisamente interessanti - Marie Antoinette e Il giardino delle vergini suicide - e schifezzine inutili - Bling ring -. La notte brava del soldato Jonathan è un classico totale ed un thriller pazzesco e semisconosciuto, che ovviamente io adoro - la coppiata Siegel/Eastwood garantisce -, dunque un remake potrebbe scavare la pietra tombale per la figlia d'arte qui al Saloon, ma chissà. Quello che è certo è che la presenza di Mr. Ink potrebbe spostare gli equilibri di una rubrica troppo spesso rovinata dagli assurdi commenti di Cannibal Kid.
Mr. Ink: Riaprirò un’antica ferita del Cannibale, e chiedo perdono, ma a me Sofia Coppola non è mai piaciuta. Certo, ci sono Le vergini suicide e i fiumi di parole di Lost in Translation, che somiglia tanto a quelle commedie indie che dico io. Certo, dove lascio il buon gusto dell’irriverente Marie Antoinette? Sulla scia della noia di Somewhere, sotto gli zerbini dello stupidissimo Bling Ring. Vorrei dichiararmi scettico, ma L’inganno e il suo cast ispirano. Non abbastanza da recuperarsi quel romanzo troppo datato né da riscoprire il film con un giovane Eastwood che come attore no, non brillava di certo, ma tanto da fiondarsi al cinema.

Valerian e la città dei mille pianeti
Cannibal Kid: Non sono un patito di sci-fi come quel nerd di Ford e Luc Besson mi piace solo a tratti. Questo Valerian che qualcuno (stranamente non io) ha definito uno Star Wars sotto LSD mi attira però parecchio, complice un gran bel cast (Cara Delevingne + Dane DeHaan + Rihanna + Clive Owen + Ethan Hawke) e il fatto che sia una francesata e non un'americanata. Il rischio cacchiata è altissimo, però I want to believe.
Ford: ho sempre detestato Besson. Da prima che iniziassi a detestare Cannibal Kid. Cosa accadrà dopo questa settimana a Mr. Ink? Per scoprirlo non si dovranno girare mille pianeti, ma arrivare a leggere tutta la nuova versione della rubrica.
Mr. Ink: Correva l’anno 1994. Gli estimatori di Forrest Gump e Pulp Fiction guerreggiavano, in tempo di Oscar – scommetto che, almeno per quella volta, il Cannibale e Ford stavano dalla stessa parte della barricata. Da qualche parte, nascevo io. E, crescendo, mi sarei defilato dalla diatriba a modo mio: se penso a quell’annata, infatti, penso a Léon (mio fratello, sapete, non si è chiamato così per un soffio) e poi a tutto il resto del cinema. Ho un occhio di riguardo per Besson, e quanto amo il bianco e nero del suo Angel-A, ma gli effetti speciali a profusione e le due ore e venti di durata di Valerian non mi avranno facilmente. Con buona pace delle sopracciglia di Cara e del lanciatissimo DeHaan, che dal basso del suo metro e un po’ mi colpisce sempre con un carisma non da poco.

Kingsman – Il cerchio d'oro
Cannibal Kid: Il primo Kingsman m'era sembrato un action spionistico decente, una specie di versione più simpatica e teen del vecchio e antipatico James Ford... volevo dire James Bond. Detto ciò, non sentivo per niente il bisogno di un secondo capitolo che si preannuncia guardabile, ma tutt'altro che imperdibile.
Ford: il primo Kingsman mi era parso una robetta uguale a mille altre assurdamente incensata da gente che non capisce nulla di Cinema come Cannibal Kid. Non sentivo affatto il bisogno di un secondo capitolo, ma neppure del mio socio, eppure sono ancora qui a sopportarlo dopo anni.
Mr. Ink: Questa volta scontento entrambi! Quel lato di me che, da bambino, voleva fare l’agente segreto – tra i miei cult di infanzia, accanto a classici grandi e piccoli, ha un posto tutto suo la videocassetta del primo Spy Kids – aveva scalpitato per Kingsman. E se è bene diffidare dai sequel, il villain interpretato dalla Moore, il ritorno a sorpresa di Colin Firth e le prime impressioni diffuse online mi dicono: sta’ un po’ zitto e goditela, ti divertirai da matti. Di nuovo.


Noi siamo tutto
Cannibal Kid: Mr. Ink è un patito di young adult, sia romanzi che film, persino più di quanto lo sia io. Incredibile, ma vero. Ciò nonostante, non ha apprezzato un granché questo Noi siamo tutto. Perché, Mr. Ink, peeerché? Non è che ti stai trasformando in Mr. Ford? La romantica storia di una tipa reclusa in casa che si innamora del suo vicino ha davvero tutto per essere detestato con tutto il suo cuore dal perfido blogger di Lodi. Come Colpa delle stelle, persino più di Colpa delle stelle! Io l'ho già visto e a breve ne parlerò. Domanda retorica: secondo voi riuscirò a criticarlo?
Ford: lo young adult è un genere che ancora fatico a capire, a meno che non si tratti di uno young adult nello stile di Hank Moody. Lascio quindi al finto giovane di questa rubrica Cannibal Kid ed al giovane vero Mr. Ink il compito di dipanare la matassa a proposito di questo film.
Mr. Ink: Ammiccava a Noi siamo infinito, ma sperava di essere il nuovo Colpa delle stelle (in modo diverso, inutile dire, la mia anima teen aveva adorato entrambi). Purtroppo somiglia più a uno di quei filmini leggerissimi, estivi, che arrivano in sala col tempismo sbagliato. Male non gli si vuole, per carità, ma la fuga di Amandla Stenberg – Cannibale, le sue magliette attillate ti ispireranno forse il titolo “Noi siamo tette?” – non convince, neanche chi, in certi giorni, si fa rabbonire come me. Fatto sta, ho lasciato sfitti i miei dotti lacrimali per This is us.

Glory – Non c'è tempo per gli onesti
Cannibal Kid: Per la serie “pellicola autoriale della settimana che solo il Ford de 'na vorta si sarebbe sorbito e ora manco più lui”, ecco Glory, una produzione bulgaro-greca che racconta di un uomo che trova un sacco di soldi su un binario del treno e invece di tenerseli decide di consegnargli alla polizia. Eroe o pirla?
Ford: pellicola che ai tempi avrei scovato in qualche sala deserta di Milano per darmi un certo tono da critico e cinefilo radical. Per fortuna questi tempi sono finiti, ed ora prendo le cose come vengono, in pieno Lebowski style. E spero prenderà non troppo male questa collaborazione anche Mr. Ink.
Mr. Ink: Sono uno spettatore semplice. Mi sono fermato a “produzione bulgaro-greca”.

L'equilibrio
Cannibal Kid: L'equilibrio, il nuovo film di Vincenzo Marra. Chi è Vincenzo Marra?
E io che ne so?
Meglio chiederlo a Mr. Ink, che lui se ne intende di cinema italiano, al contrario di Ford che negli ultimi tempi se ne intende soltanto di vacanze.
Ford: l'arrivo di Ink a commentare le uscite in sala accanto al sottoscritto e a Cannibal darà equilibrio a questa rubrica? Non saprei davvero. Quello che è certo, è che questa rubrica potrebbe risultare più interessante del film.
Mr. Ink: Come può parlarvi di un film che si chiama L’equilibrio uno come me, che cade anche da seduto? Se Marra non vi attira, e chi vi dà torto, confidate di vedermi capitombolare dal vivo, un giorno di questi. Di sicuro vi divertite di più.

2 biglietti della lotteria
Cannibal Kid: Una commedia on the road che così, a un primo sguardo, sembra una versione rom di Tre uomini e una gamba e Così è la vita. Potrebbe anche essere simpatico, ma ho le stesse probabilità di guardarlo di quelle che ho di vincere alla lotteria. Soprattutto considerando che io non gioco mai alla lotteria.
Ford: non sono un patito di lotterie e gioco d'azzardo, dunque difficilmente punterò su questo film. Un po' come su Cannibal. Per quanto riguarda Ink, staremo a vedere.
Mr. Ink: A proposito di gioco, ragazzi, punto su altro. Magari sulla conta delle mattonelle del bagno: cose così.

Tiro libero
Cannibal Kid: Una pellicola italiana sul basket, che affronta anche il tema della disabilità?
Pareva un film interessante e coraggioso. Poi ho visto il trailer, che trasuda amatorialità e retorica da tutti i pori. E ho visto che nel cast c'è Biagio Izzo, uno che sta al cinema come Ford sta al... cinema. Ho così capito che questo, più che un tiro libero, è un colpo basso.
Ford: produzione molto casereccia italiana legata ad un tema sociale. Se l'avessero chiamato autogol avrebbe avuto più senso.
Mr. Ink: Ne so poco di sport, figuriamoci di basket. Le mie lacune, sospetto, non le colmerà Alessandro Valori, con Izzo e Conticini in squadra. Non esattamente l’NBA del nostro cinema.