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mercoledì 31 ottobre 2018

Recensione: The Outsider, di Stephen King

| The Outsider, di Stephen King. Sperling & Kupfer, € 21,90, pp. 530 |

Il giorno in questione dichiarano di averlo visto, fra gli altri, un'anziana impicciona, un'adolescente iscritta in quella esatta scuola, una tassista con cui era in confidenza quel tanto che bastava a chiamarla per nome, un nerboruto buttafuori dal cuore generoso: insieme a loro, poi, sono da prendere in considerazione la clientela di uno strip club fuori città e un numero imprecisato di telecamere di videosorveglianza. L'uomo sembrava gentile ma sospetto: ricambiava i saluti, scambiava quattro chiacchiere, ma gli spruzzi cremisi sulla camicia – forse epistassi? – e i modi stranamente sfuggenti raccontavano tutt'altro. Una riprovevole storia di cannibalismo e pedofilia che in un parco pubblico, seguendo le fitte orme di sangue, portava direttamente al corpo scempiato di un undicenne: seviziato con un ramo acuminato, ucciso a morsi. Le deposizioni parlano chiaro: l'identità della belva da destinare all'iniezione letale è risaputa prima ancora che la confermino analisi e ispezioni. Ad aiutare il bambino con la catena della bicicletta, a incrociare il cammino dei disparati testimoni, è stato Terry Maitland: insospettabile, se non avesse perfino la scienza contro. Ma l'assassino – padre di famiglia e professore stimato, nel tempo libero anche allenatore di successo – ha un alibi incrollabile che non lo risparmia tuttavia da un arresto plateale durante una partita di football o dalle conseguenze della gogna pubblica a cui è sottoposto troppo presto. Il giorno in questione, in compagnia di altri insegnanti, partecipava infatti a una serie di conferenze didattiche altrove: lo raccontano l'autografo con data del giallista Harlan Coben, altre telecamere, le impronte digitali lasciate su un libro di cui all'ultimo aveva rimandato l'acquisto. Si può essere in due posti contemporaneamente?

Tutto è possibile. Il mondo trabocca di stranezze.

Non badano al paradosso degno della migliore Agatha Christie, al solito, le iene e gli sciacalli di un circo mediatico che vuole nell'occhio del ciclone anche la sfortunata famiglia dell'accusato: si procede nella ricerca di paladini e mostri, di scoop, nell'era in cui a costituire il giornalismo americano sono il passaparola, il presidente Trump e le fake news. Se in un romanzo di uno Stephen King in forma smagliante, efferato e malinconico come non lo si leggeva da un po', tanto gli estimatori quanto i profani immagineranno bene l'esistenza di zone d'ombra in cui la giustizia non osa avventurarsi. Il palesarsi di convergenze misteriosissime che escluso l'ovvio, tolto il probabile, lasciano spazio soltanto all'impossibile. Cosa o chi semina dubbi e paura nella fittizia Flint City? 
In un romanzo ad ampio respiro che parte come un thriller giudiziario sulla falsa riga del caso Simpson e imbocca, infine, sentieri fantastici, a indagare è l'agente Ralph Anderson: il colesterolo alto e qualche chilo di troppo che fanno inferocire l'altrimenti adorabile moglie Jeannie, il primogenito all'università, un abuso di potere che lo rende all'improvviso un uomo giusto macchiatosi di un errore imperdonabile. Come fare pace con la propria coscienza, se non riabilitando l'onore di Maitland? È quando la sua ricerca a tentoni sembra avere raggiunto un vicolo cieco – a metà, dopo un capitolo che è un capolavoro di suspance in cui le fila potrebbero essere già belle che tirate – che il destino, altra presenza immancabile, lo mette in contatto con una nostra carissima conoscenza: cinefila doc, emotivamente chiusa a riccio, se ne va in giro con l'inseparabile Castigamatti e l'ombra di Bill Hodges a cui elevare di tanto in tanto tenerissime preghiere. The Outsider segna non solo il rimarchevole ritorno del Re all'horror, ma altresì quello dell'indimenticabile Holly della trilogia di Mr Mercedes nelle vesti di coprotagonista – a proposito di grandi cambiamenti, invece, va segnalato il passaggio del testimone all'ottimo traduttore Luca Briasco. Ora a capo della Finders Keepers, abituata com'è alla presenza del soprannaturale, è lo spirito guida del personaggio femminile a rendere razionale l'irrazionale e un po' dolce il sapore dell'incubo.

Ma credo nelle stelle, e nell'infinità dell'universo. Il Grande Là Fuori. E qui sulla terra, credo ci 
siano infiniti universi in ogni manciata di sabbia, perché l'infinito è una strada a doppio senso. Credo che nella mia mente ci siano decine di idee dietro quella che di volta in volta riesco a concepire. Credo nella mia coscienza e anche nel mio inconscio, pur non sapendo esattamente in che cosa consistano. E credo in Athur Conan Doyle, che ha fatto dire a Sherlock Holmes: 'Una volta eliminato l'impossibile, ciò che rimane, per quanto improbabile, deve essere la verità'.

Destinazione finale: un Texas da selvaggio west, fra serpenti a sonagli e lontane credenze, dove le scienze forensi e le leggende oltre confine si scoprono un tutt'uno, le grotte insidiose ricordano le reti fognarie di It e qualcuno racconta di aver interagito nel sogno con un mostro con gli occhi di paglia e un sacco in pugno. Che sia un sadico ladro di identità o un diavolo sputato dalla bocca dell'inferno, metafora o verità tangibile, questo Uomo nero rivisto e corretto ha il modus operandi di un serial killer; si apposta sulle scene del crimine, ghiotto di tristezza e allarmismo; fa zittire grilli e coyote al solo passaggio e controllare la corretta chiusura di porte e finestre ad adoni d'un tratto spaventati dal buio. Severamente vietato parlarne al condizionale: ignorarne l'esistenza non fa sì che smetta di esistere.
L'affascinante tema del doppio proviene dalle suggestioni di un racconto di Allan Poe, la figura dell'Outsider dalle nonne messicane. Stephen King ci mette il resto, pregi e difetti compresi. La seconda metà del romanzo è infatti un salto nel lato oscuro tutt'altro che innovativo che potrebbe scontentare, vero, coloro che alle prese con il realismo iniziale – sbirciamo in prima battuta referti autoptici e trascrizioni di interrogatori, ascoltiamo registrazioni private – si erano auspicati uno svolgimento in linea con il giallo classico. Per il resto, splatter, visioni e deliri appartengono a chi ha ispirato di recente il successo cinematografico di Andy Muschietti, insieme a personaggi di indescrivibile umanità destinati a unirsi benché schierati in principio da una parte e l'altra della barricata. 
Capace di partire da lontanissimo e di rivelare senza fretta le proprie carte, collegando coincidenze apparenti e misfatti distanti nel tempo e nello spazio, l'amato King emoziona a sorpresa con una favola a tinte forti sui confini dell'universo, il potere della condivisione, l'importanza sacrosanta dei brutti sogni.

«I sogni sono il nostro modo per entrare in contatto con il mondo invisibile, o almeno è questo che credo. Sono un dono speciale.» 
«Anche gli incubi?» 
«Sì, anche gli incubi.»

La realtà è uno strato di ghiaccio troppo sottile, almeno per pattinatori inesperti o scettici di natura. La provincia statunitense, al contrario, è la metafora del melone del buon Ralph: un frutto a volte solido fuori ma marcio all'interno. Come ci finisco dentro i vermi brulicanti, ci si domanda, data la buccia all'apparenza perfetta? Lo scriveva già William Shakespeare d'altronde: ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la tua filosofia. Nell'ultimo Stephen King in libreria, prendetemi alla lettera, ce n'è qualcun'altra in più.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Metallica - Enter Sandman 

lunedì 11 settembre 2017

Zapping: Strike, Mr. Mercedes, The Mist, Blood Drive

Cormoran Strike, l'investigatore privato dei romanzi di Robert Galbraith – alias, J.K. Rowling –, arriva in tivù. Stessa Londra uggiosa, stessa penna fiume, stesse trame un po' gialle e un po' rosa. Sulla BBC, non cambiare: stessa spiaggia, stesso mare. Sette episodi da cinquanta minuti ognuno, troppi, per farci stare tutte e cinquecento le pagine del Richiamo del cuculo. Una famosa modella assassinata, e da lì la nascita della collaborazione tra Cormoran – burbero, zoppo, eroe di guerra e figlio illegittimo di una vecchia stella del rock – e Robin, segretaria a un passo dalle nozze. Tom Burke è un filino troppo belloccio, ma va bene così; Holliday Granger, vispa e leziosa, è perfetta e perfettina. Nel pilot della serie Strike, fedelissimo, riconosci a colpo d'occhio i personaggi e le situazioni. Come la miniserie del Seggio Vacante, passata non a torto in sordina, si ha però la sensazione che manchi il guizzo, il desiderio di sperimentare. Gli episodi, intanto, si accumulano. Io conosco il colpevole, conosco il movente, conosco il legame tenero ma indefinibile tra lui e lei. Proseguire, ma quando? Rivederlo, ma a mente fresca? Il piacere di seguire le indagini resta immutato, parliamoci chiaro, ma sul piccolo schermo non se ne sentiva forse il bisogno. Dell'ennesimo giallo inglese, dico, con modi signorili e ironia a sprazzi, che ora la mancanza di uno sguardo personale, ora ricordi troppo vividi, lasciano apprezzare soltanto a metà. (Nì.)


Il detective in pensione che ricordavo: appesantito, malinconico, cupo. Il sociopatico spietato e incestuoso che ricordavo: di giorno impiegato in un negozio di elettrodomestici o alla guida di un candido furgoncino dei gelati, di notte genio del male. Ricordavo le immagini di violenza dell'incipit, con tanto di zoom crudele su una mamma e la sua bambina, in fila alla fiera del lavoro – alto il livello di splatter e alta, come suggerisce l'avviso in apertura, la tentazione di fare associazioni con la strage di Nizza. Dopo il pessimo The Mist e il flop La torre nera, in attesa del ritorno di It sotto Halloween, Stephen King ammazza il tempo con la serie ispirata alla trilogia di Mr. Mercedes. Hard boiled in dieci episodi, Mr. Mercedes – sceneggiato dallo stesso David E. Kelley di Big Little Lies – ha il sangue, l'ossessione, l'umorismo. Si intravedono Jerome, valente aiutante barra giardiniere, e il personaggio di una inedita vicina di casa, che tenta un Brandan Gleeson che più perfetto non si può con le vispe proposte di un Tutto può succedere. Si subodora un adattamento finalmente a fuoco, un King non mutilato nel passaggio in TV. E, da fan, ci si commuove quasi al sol pensiero. (Sì.)

Una cittadina immaginaria della provincia americana. Gli adolescenti e gli adulti, i drammi privati dei padri e dei figli. Una prof licenziata, un'adolescente stuprata dall'atleta popolare alla fine di un festino alcolico, l'immancabile migliore amico gay, un soldato e una donna armata fino ai denti. Qualcosa cala dall'alto e li imprigiona sotto lo stesso tetto. No, non è la cupola di Under The Dome, ma ci andiamo vicino. The Mist, tratto da un racconto di un centinaio di pagine dello stesso King, passa al piccolo schermo dopo un film bellissimo - la rilettura, una delle migliori che siano mai state fatte del Re, ha un finale di una crudeltà clamorosa. Prevedibilmente, amaramente, la serie è più vicina a quella malaugurata cupola venuta dallo spazio che al film, a metà strada tra Carpenter e Romero. Gli effetti speciali sono risibili. Gli intrecci annoiano. Il cast, se non fosse per la presenza della Conroy così cara a Murphy e Lynch, sarebbe dei peggio assortiti. Partiamo male. E la situazione potrebbe peggiorare pefino. La nebbia si è appena depositata. Faccio in tempo a salvarmi? (No.)

Gli anni Novanta, ma in chiave distopica. Gli Stati Uniti sono terra bruciata e i sopravvissuti, sporchi, brutti e cattivi, sono pedine in una gara automobilista clandestina. Ovunque è l'anarchia. Il prezzo della benzina è alle stelle. Le macchine sono alimentate da sangue umano. Nel pilot del tamarissimo Blood Drive, ultima creazione di Syfy che ricalca lo stile rétro di A prova di morte e Planet Terror, i radiatori hanno i denti e il sesso ad alta velocità, in combutta con l'adrenalina, disinnesca gli ordigni. Abbondano lo splatter, i nudi maschili e femminili, la polvere. Uno sbirro (il mitico Alan Richson di Blue Mountain State) è costretto a guidare, con una sensuale e spietata compagna di viaggio per non morire. Certo, è trucido (meglio ancora il secondo episodio, con un piccolo rest stop gestito da uno chef cannibale) ma ha anche dei difetti. Divertirà su lungo tratto? Sarà tutto un correre e ammazzare, o questa distopia offrirà anche qualche spunto intelligente? Sarò ancora divertito all'ultimo episodio, d'autunno, a motori spenti? (Sì.)

lunedì 31 ottobre 2016

Recensione: Fine Turno, di Stephen King

La vendetta è un piatto da servire freddo. E il cuoco è tornato.

Titolo: Fine turno
Autore: Stephen King
Editore: Sperling & Kupfer
Numero di pagine: 478
Prezzo: € 19,90
Sinossi: In un gelido lunedì di gennaio, Bill Hodges si è alzato presto per andare dal medico. Il dolore lo assilla da un po' e ha deciso di sapere da dove viene. Ma evidentemente non è ancora arrivato il momento: mentre aspetta pazientemente il suo turno, infatti, Bill riceve la telefonata di un vecchio collega che chiede il suo aiuto, e quello della socia Holly Gibney. Ha pensato a loro perché l'apparente caso di omicidio-suicidio che si è trovato per le mani ha qualcosa di sconvolgente: le due vittime sono Martine Stover e sua madre. Martine era rimasta completamente paralizzata nel massacro della Mercedes del 2009. Il killer, Brady Hartsfield, sembra voler finire il lavoro iniziato sette anni prima dalla camera 217 dell'ospedale dove tutti pensavano che sopravvivesse in stato vegetativo. Mentre invece la diabolica mente dell'Assassino della Mercedes non solo è vigile, ma ha acquisito poteri inimmaginabili, tanto distruttivi da mettere in pericolo l'intera città. Ancora una volta, Bill Hodges e Holly Gibney devono trovare un modo per fermare il mostro dotato di forza sovrannaturale. E a Hodges non basteranno l'intelligenza e il cuore. In gioco, c'è la sua anima. Dopo "Mr. Mercedes" e "Chi perde paga", King ha scritto il capitolo conclusivo della sua trilogia poliziesca, nella quale l'autore, come ci ha ormai abituato, combina il suo senso della suspense con uno sguardo lucidissimo sulla fragilità umana. Dalla trilogia di Bill Hodges sarà tratta una miniserie TV diretta da Jack Bender.

                                                 La recensione
Dieci giorni fa, sulla via del ritorno dopo l'ultimo esame della triennale, miravo e rimiravo il mio libretto universitario ormai pieno e la copia nuova di pacca dell'ultimo Stephen King arrivato in libreria. Mi sono regalato sempre un suo romanzo, quasi tre anni fa, all'indomani del primo esame: quando conservavo gelosamente il mio unico cedolino compilato, chiamavo a casa per dirmi sopravvissuto all'ansia e, alla Mondadori accanto alla stazione, mi coccolavo a modo mio acquistando l'attesissimo Doctor Sleep. Tutto torna: il Re di sicuro. Allora c'erano un Danny cresciuto, l'indimenticato Overlook Hotel, nuove insidie per chi ha il dono raro della “luccicanza”. Ora, benché si parli di conoscenze assai più recenti, il tempestivo rientro e l'inevitabile congedo di Bill Hodges e della sua straordinaria squadra di collaboratori: puntualmente, arrivato Halloween, la trilogia iniziata con Mr. Mercedes giunge a conclusione. Degna?, mi domandavo, leggendo Fine Turno con la stesura della tesi in corso d'opera e l'acqua alla gola. I presupposti facevano pensare di sì.
Il romanzo precedente seminava nel finale dubbi, mine vaganti e speranze di vendetta. Il subdolo Brady Hartsfield, ridotto a un vegetale, non era un guscio vuoto: le infermiere giuravano che fosse in grado di muovere gli oggetti col pensiero. La verità, o il giovane ma famigerato Brady era già leggenda metropolitana? Le battute finali di Chi perde paga, paragonabili allo sguardo in camera del mostro in un film dell'orrore, assicuravano che c'era vita nella camera 217. Fine Turno, da patti, segna la svolta paranormale all'interno di un hard boiled vecchio stile: al ritmo secco e incalzante, al linguaggio da sbirri a tempo indeterminato, si affiancano quindi le doti telecinetiche di Carrie e le tecnologie infernali di un Cell. Hartsfield, dalla sua camera d'ospedale linda e pinta, muove come burattini i suoi tirapiedi e mette a punto, non visto, ennesime carneficine. I sopravvissuti alla strage della fiera del lavoro stanno morendo uno ad uno: gli apparenti suicidi, giustificati da una salute precaria e da traumi incancellabili. C'è qualcosa che stona però: una “Z” tracciata sui luoghi del crimine e la misteriosa presenza di console portatili: quegli Zappit ritirati d'urgenza dal mercato per i loro effetti collaterali. Alla Finders Keepers si indaga, e non si crede alle coincidenze di cui parla chi di dovere: Bill Hodges, con i settant'anni a un passo e un corpo che dà le definitive avvisaglie di cedimento, è convinto ci sia lo zampino del genio del male che, sette anni prima, lo stuzzicò fino a portarlo sull'orlo del baratro. Come accettare l'evenienza di possessioni, poteri e occultismo? Come far sì che la Polizia realizzi che ci sia lo stesso ispiratore dietro una catena di suicidi a distanza, e per di più vincolato nel reparto di neurologia? Come credere all'esistenza del soprannaturale, se ne hai viste di cotte e di crude, non hai più l'età per allargare i tuoi orizzonti e, da fruitore di gialli in versione tascabile, poco ti convincono le contaminazioni di genere? Ampliando un po' il contesto, durante la lettura, mi ronzavano in testa le stesse esatte domande che tormentano l'ispettore in pensione. 
Se i miei occhi brillavano di eccitazione all'idea di imminenti risvolti fantastici, riposto il secondo capitolo, l'entusiasmo è andato scemando a metà di questo Fine Turno. Emotivamente e stilisticamente perfetto, ma il più debole dei tre nell'ordito. E io, che leggo King con gli occhi dell'amore, sofferente al pensiero di fargli le pulci, questa volta so cogliere anche le cause della mia parziale frustrazione. Tutta colpa del redivivo Brady Hartsfield che, infame e irresistibile, era forse il personaggio che maggiormente aspettavo di incrociare ancora: nell'affermazione, tocca includere i suoi metodi discutibili e i suoi tirapiedi incoscienti; la vendetta trasverzale, invece, è sempre un movente convincente. Nei favolosi capitoli dedicati al suo progressivo risveglio, capiamo che quel paziente temuto e trascurato si è prestato suo malgrado come cavia: il medico curante l'ha imbottito di pillole all'avanguardia, poco interessato alle sue sorti, e forse gli effetti collaterali, forse la sua naturale malvagità, hanno predisposto la sua mente all'imponderabile. Uscendo fuori di sé, fa il suo molesto ingresso in corpi ospiti da manovrare alla stregua di burattini senza volontà. Il mio ma: l'autore non si limita a suggerirci di prendere così com'è la virata oltre i “confini della realtà”, ma si dà a spiegazioni meticolose e approfondite su suggestioni, messaggi subliminali, ipnosi, che saranno sì documentate, ma ai fini dell'intreccio suonano macchinose e ridondanti. 
La copertina, bellissima, allude ai pesci guizzanti e sfuggenti che compaiono sulla videata iniziale degli Zappit: gli emissari dell'antagonista, ubbidienti, hanno distribuito a un vasto campionario di adolescenti le console e, da lì, ammaliarli con suggerimenti melliflui e seducenti spie luminose. Stephen King vuole dare fondamento e credibilità alle soluzioni di Brady, qui personaggio assai sottotono. Vuole dirci, brillante affabulatore qual è, che non siamo nell'ambito di competenza dell'irreale, bensì di scienze tecnologiche che hanno risaputi pro e inquietanti contro. I giovani ingobbiti su smartphone e portatili, incantati dalle promesse illusorie dello schermo luminoso; menti elastiche ma fragili, spinte al punto di rottura. Su di me, inconvincibile scettico, la argomentazioni per dimostrare quanto di vero e quanto di inventato ci fosse, purtroppo, non hanno fatto presa; mi sarei fatto andare a genio il paranormale, che in King è una presenza tutt'altro che inconsueta, senza le speculazioni di sorta – e situazioni, e personaggi, nello stile di Uomini che odiano le donne. Di conseguenza, ho detto addio a questo Brady vagante e incorporeo, per cui eppure ho sempre avuto parole lusinghiere e superlativi assoluti, senza tanto entusiasmo; al contrario, infinita simpatia e affetto per una vecchia volpe che compensa con l'emozione a un ultimo caso che lascia, dunque, a desiderare. Fine Turno ha al comando un King divertito, schietto, agile quanto mai, che scivola talora nel già visto e in spiegoni non necessari. Troppo irrequieto ed esuberante per essere inflessibile giallista, rimanda purtroppo l'anello debole della sua trilogia alla fine, ma ci lascia in pegno protagonisti al loro meglio: una adorabile Holly, che ha vinto la sua pazza misantropia; un Jerome, con sorella infortunata a casa, passato da giardiniere su commissione a erudito, aitante benefattore; Bill e Pete, colleghi divisi dal pensionamento anticipato del primo, finalmente sullo stesso piano per anni di servizio, acciacchi grandi e piccoli, curiosità sempiterna.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Dire Straits – Private Investigations

lunedì 26 settembre 2016

Aspettando 'Fine Turno', di Stephen King: Brady

Amici lettori, buongiorno e buon lunedì. Come state?
Oggi post un po' atipico, per me che non sono un amante dei Blog Tour, ma potevo forse fare orecchie da mercante al richiamo di Stephen King? Giocando d'anticipo, io e qualche collega blogger vi parliamo, perciò, del ritorno di Bill Hodges in Fine turno, puntuale conclusione della trilogia iniziata tre autunni fa. La mia tappa è finalmente arrivata, e vi parlo di quello che forse è il personaggio più controverso e irresistibile della serie: Brady, l'insospettabile maniaco omicida della porta accanto. Il prossimo appuntamento è il 3 ottobre, su Everpop, alla scoperta di Pete Saubers. Un abbraccio. M. 

Titolo: Fine Turno
Autore: Stephen King
Editore: Sperling & Kupfer – Pandora
Numero di pagine: 496
Prezzo: € 19,90
Data di pubblicazione: 11 ottobre 2016
Sinossi: In un gelido lunedì di gennaio, Bill Hodges si è alzato presto per andare dal medico. Il dolore lo assilla da un po' e ha deciso di sapere da dove viene. Ma evidentemente non è ancora arrivato il momento: mentre aspetta pazientemente il suo turno, infatti, Bill riceve la telefonata di un vecchio collega che chiede il suo aiuto, e quello della socia Holly Gibney. Ha pensato a loro perché l'apparente caso di omicidio-suicidio che si è trovato per le mani ha qualcosa di sconvolgente: le due vittime sono Martine Stover e sua madre. Martine era rimasta completamente paralizzata nel massacro della Mercedes del 2009. Il killer, Brady Hartsfield, sembra voler finire il lavoro iniziato sette anni prima dalla camera 217 dell'ospedale dove tutti pensavano che sopravvivesse in stato vegetativo. Mentre invece la diabolica mente dell'Assassino della Mercedes non solo è vigile, ma ha acquisito poteri inimmaginabili, tanto distruttivi da mettere in pericolo l'intera città. Ancora una volta, Bill Hodges e Holly Gibney devono trovare un modo per fermare il mostro dotato di forza sovrannaturale. E a Hodges non basteranno l'intelligenza e il cuore. In gioco, c'è la sua anima.  Dopo "Mr. Mercedes" e "Chi perde paga", King ha scritto il capitolo conclusivo della sua trilogia poliziesca, nella quale l'autore, come ci ha ormai abituato, combina il suo senso della suspense con uno sguardo lucidissimo sulla fragilità umana. Dalla trilogia di Bill Hodges sarà tratta una miniserie TV diretta da Jack Bender. 
                            Conosciamo meglio... Brady
Sono lì, al freddo, di notte, che elemosinano un impiego al di là delle transenne.
Con l'arrivo dell'alba, pian piano, si solleva la nebbia.
Le vittime della recessione, gente onesta e volenterosa, aspettano pazienti che la Fiera del Lavoro apra i battenti e li accolga, dando loro una seconda chance. L'impiego non ha importanza, basta lo stipendio. Della folla di disperati ricordo una ragazza madre che aveva portato con sé il suo bambino – un neonato da proteggere dalle intemperie, per quanto possibile, e dal mondo. Ma il mondo è cattivo e sanguinario, ha fari abbaglianti e pesa quintali di lamiere; si riversava su loro tutti, sotto forma di una rombante e infallibile Mercedes. L'uomo al volante indossava la maschera di un clown. 
A testimonianza del suo passaggio, una montagna di corpi – neanche il bambino l'aveva avuta vinta, la lotta contro le ruote – e un adesivo giallo; uno smile beffardo. Quanto impiegheremo per conoscere il vero nome dell'omicida, per odiarlo viso a viso, per vederlo finalmente alle corde? Si aspetterà il finale, per scoprire chi ha premuto senza pietà l'acceleratore?
Nel primo romanzo di una trilogia gialla che, proprio in questi giorni, giunge a termine, Stephen King giocava a carte scoperte. E sin dall'inizio dava un'identità, un indirizzo, connotati precisi al suo spregevole killer – alla luce della recente strage di Nizza, sotto i fuochi d'artificio del 14 luglio, il suo modus operandi ripugnerà e addolorerà perfino di più. Mr. Mercedes si chiama Brady, è sulla ventina: nerd mosso da un inquietante spirito di onnipotenza e da un complesso di Edipo latente. Smilzo, pallidiccio, dinoccolato, non spicca nella folla: una faccia che si dimentica, poche relazioni col prossimo e, nell'anonimato del suo quieto vivere, pensieri cattivi. Somiglia un po' a Chuck Bartowski, con tanto di riccioli, e un po' all'inquietante portinaio dello spagnolo Bed Time. Nella serie tivù di prossima uscita, sarebbe stato quell'Anton Yelchin, attore indie per eccellenza, di cui piango ancora la scomparsa. Gli occhi azzurri, il viso spigoloso, la schiena curva.
L'unica presenza in casa, la madre: una donna fragile e viziosa, meschina nel profondo, sopravvissuta a un marito scomparso prematuramente e a un figlio cerebroleso, morto in circostanze poco chiare ma piuttosto prevedibili. Sbarcano il lunario con gli stralci dell'assicurazione sulla vita dei loro cari estinti. 
Le mamme e gli scantinati, si sa, traviano gli Psycho di ogni era. Ma se l'altrettanto mite Norman Bates, nel sottoscala del suo motel, si dava alla tassidermia, Brady smanetta davanti a infinite schermate e, chino sulla tastiera, cracca il codice del caos. I capitoli alternati, che fanno di Mr. Mercedes anche un riuscitissimo e divertente caleidoscopio di intenzioni belle e brutte, ci raccontano dell'antagonista tanto quanto fanno di Bill Hodges, detective in pensione e con sporadiche tendenze suicide, che si muove seguendo i pochi indizi. Eppure sapete che, in un modo tutto suo, il soggiorno nella mente matta di Brady suscita compassione, interesse e una strana specie di simpatia? Affascina, scrivevo qualche anno fa, alla stregua di una belva rara allo zoo: vorresti sfiorarla, ma temi ci rimetteresti la mano o il senno.
Nel primo capitolo, sembrava lo avessero messo fuori gioco.
Nel secondo, era una comparsa marginale.
Nel terzo ritorna, atteso con la curiosità alle stelle. Presente, ma indebolito.
Fine turno ha nuove sfumature, su carta; un male infido, che assume altre forme.
Sarà saggio, adesso, allungare la mano oltre le sbarre; svegliare il can che dorme?


mercoledì 4 novembre 2015

Recensione: Chi perde paga, di Stephen King

Questa vicenda non è iniziata con il ritrovamento del baule, ma con l'uomo che l'ha sepolto. E quando sarai tentato di incolparti per quanto successo, ricordati del tormentone di Jimmy Gold: sono tutte stronzate

Titolo: Chi perde paga
Autore: Stephen King
Editore: Sperling Kupfer
Prezzo: 19,90
Numero di pagine: 470
Sinossi: “Svegliati, genio.” Il genio è John Rothstein, scrittore osannato dalla critica e amato dal pubblico - reso immortale dal suo personaggio feticcio Jimmy Gold - che però non pubblica più da vent'anni. L'uomo che lo apostrofa è Morris Bellamy, il suo fan più accanito, piombato a casa sua nel cuore della notte, furibondo non solo perché Rothstein ha smesso di scrivere, ma perché ha fatto finire malissimo il suo adorato Jimmy. Bellamy è venuto a rapinarlo, ma soprattutto a vendicarsi. E così, una volta estorta la combinazione della cassaforte al vecchio autore, si libera di lui facendogli saltare l'illustre cervello. Non sa ancora che oltre ai soldi (tantissimi soldi), John Rothstein nasconde un tesoro ben più prezioso: decine di taccuini con gli appunti per un nuovo romanzo. E non sa che passeranno trent'anni prima che possa recuperarli. A quel punto, però, dovrà fare i conti con Bill Hodges, il detective in pensione eroe melanconico di "Mr. Mercedes", e i suoi inseparabili aiutanti Holly Gibney e Jerome Robinson. Come in "Misery non deve morire", King mette in scena l'ossessione di un lettore per il suo scrittore, un'ossessione spinta fino al limite della follia e raccontata con ritmo serratissimo. "Chi perde paga" è il secondo romanzo della trilogia iniziata con "Mr. Mercedes", nel quale l'autore tocca un tema a lui caro, quello del potere della letteratura sulla vita di ogni giorno, nel bene e nel male.
                                                  La recensione
Quelle lacrime, si accorge Pete, confermano il potere profondo della fantasia. Ecco come mai migliaia di persone sono scoppiate in singhiozzi dopo aver appreso che Charles Dickens era morto di ictus. Ecco come mai uno sconosciuto per decenni ha messo una rosa sulla tomba di Edgar Allan Poe ogni 19 gennaio. Ecco come mai Pete odierebbe il suo avversario anche se non stesse puntando un'arma contro il petto tremante della sorelline inerme. Ha ucciso un grande scrittore, e perché? Si è macchiato di quel gesto sulla base di una ferma convinzione: che un'opera letteraria sia più importante del suo creatore.” 
A volte, con i libri si parla. A volte, con i libri ci si arrabbia. Cosa non è possibile, con un romanzo tra le mani, nel momento giusto o in quello sbagliato? Ci sono giorni, infatti, in cui sei in vena del lieto fine – e così personaggi ribelli si accasano, perché è giunta l'ora di crescere – e giorni in cui i puntini sulle i e le conclusioni felici, per te che hai il fuoco dentro, non fanno al caso tuo. E così si sbraita, si impreca e si prende a schiaffi quel tomo – qualcosa di immobile, inanimato, anche se sotto la superficie ingannevole gorgogliano le idee e le ispirazioni, in segreto – che ci dà risposte che non vorremmo sentire. A volte, per i libri si ruba. Spesso, si uccide. Trovarsi davanti l'autore che ci ha deluso – dunque un autore diverso da zio Steve, sempre in forma smagliante e prezioso custode della nostra fiducia – e fargli saltare la testa, durante una rapina finita in tragedia. In ballo, poche migliaia di dollari e soprattutto pile e pile di taccuini autografi. John Rothstein, autore di una trilogia che ha fatto la storia della letteratura americana, sgarbato e misantropo, finisce ammazzato per mano del suo fan numero uno. Morris Bellamy – appena uscito dal riformatorio e presto di nuovo dietro le sbarre, per una violenta notte di misfatti – non ha perdonato a Rothstein il fatto che Jimmy Gold, personaggio iconico, emblema di gioventù e ribellione, si sia poi arreso, nell'ultimo capitolo, al dio denaro. L'eroe che ha salvato Bellamy dalla solitudine, ma che già una volta è stato causa della sua sfortuna, si è piegato alla logica borghese; ma Morris, senza scrupoli, al contrario, non si piega e non si spezza. Resterà in carcere per quasi quarant'anni. A supportarlo, il chiodo fisso di recuperare i taccuini – sepolti in un baule, nei pressi di Sycamore Street – e di scoprire finalmente cosa sia stato di Jimmy Gold, in manoscritti inediti tenuti sotto chiave. Ma, nel frattempo, qualcuno ha scoperto il suo tesoro sepolto in un forziere pirata, all'ombra degli alberi: Peter Saubers, un adolescente con il pallino dei romanzi d'avventura e una famiglia in difficoltà, che ha altri piani per quella fortuna ritrovata. 
Banconote fruscianti con cui aiutare papà – uno dei feriti del City Center – e le memorie di un autore che, pian piano, imparerà a stimare. Quando il pericolo diventerà strisciante, tra librai bugiardi e assassini a piede libero, qualcuno – magari il caso, incarnatosi in una premurosa e preoccupatissima sorella minore – porterà il giovane Peter a incrociare la strada del nostro caro Bill Hodges, detective in pensione che – affiancato da Holly, disfunzionale ma dalle mille risorse, e da un Jerome a casa per le vacanze – ha perso tanti chili, si è finalmente abituato all'ingombro del pacemaker e ha fondato, complice il successo dell'indagine passata, la prestigiosa Finders Keepers. Chi perde paga – titolo italiano insensato, a onore del vero – è il secondo volume di una trilogia iniziata lo scorso anno, in questo stesso periodo, e subito pronta a fare un salto sul piccolo schermo, da quel che si dice. Un nuovo e puntuale capitolo, prevedibilmente all'altezza delle aspettative e per nulla inferiore a quel Mr. Mercedes che l'ha preceduto e che ricompare, sottoforma di echi e rimandi, tra le pagine di una storia tutta nuova ma non troppo: come la precedente, è firmata infatti da un King leggerissimo, citazionista e, al solito, un po' nostalgico. Immenso narratore, anche nell'ambito di un giallo essenziale nello snodo e abbastanza articolato nell'intreccio: veloce e giovanile, fresco, se non fosse per la classica attenzione ai dettagli – non c'è un personaggio senza sfumature – e per capitoli brevi e scattanti, in cui il narratore, esterno ed onnisciente, si diverte un mondo con l'ironia tragica e i rimandi, cosicché i pezzi del puzzle, di pari passo, s'incastrino per magia. 
Chi perde paga, infatti, racconta una storia di ossessione e criminalità dilatata in quasi mezzo secolo. E, nonostante le cinquecento pagine, fila liscio come l'olio, pur essendo ampiamente diffusa, ormai, la leggenda metropolitana che vuole King prolisso e stanco. Ma quando mai. A mancare, forse, un po' di cuore in più. Quel brivido non di terrore, ma di emozione, così presente anche nell'eppure deludente Revival: lento e lungo come ogni tanto gli si rimprovera, ma profondo nei sentimenti. In Chi perde paga non ci sono spazi bianchi da riempire o tempo da perdere: cinematografica caccia al tesoro, in cui scorgiamo ancora una volta un King divertito, al passo coi tempi, che prende fiato tra un capolavoro e l'altro dei suoi, pensando alla frenesia dei thriller motori che mancavano nella ricca sua biografia, al rapporto con i suoi affezionati lettori e al fascino indiscreto dei libri che parlano di libri. Se lo svolgimento è semplice – nonostante esempi di inaudita violenza, si sa sin da subito che i buoni vinceranno e che i cattivi pagheranno il fio delle loro colpe – a essere ingarbugliata è la rete narrativa: i personaggi, nuovi e vecchi che siano, sono come le parentesi della solita equazione che tiro in ballo quando parlo di thriller – prima le graffe, poi le quadre e, in fine, le tonde – e Hodges, annunciato protagonista, paradossalmente compare dopo qualcosa come duecento pagine. C'è tanto tempo per legarsi al guastafeste Peter – come se, nel mio caso, fosse necessario: quel giovane lettore, curioso e di belle speranze, vi ricorderà qualcuno, chissà – e, soprattutto, al pirata Bellamy. Più che antagonista da temere, anti eroe dalla fedina penale sporca, fan iracondo che non accetta un no come risposta, che – come il passato Mr. Mercedes, sbadato e ironico – fa una specie di simpatia con le tante sfortune che colleziona – vittima per eccellenza, nelle docce del carcere, al gioco della saponetta e dotato di un imprevedibile talento nella stesura di lettere su commissione – e le smodate passioni che rappresenta. Più inquietante, invece, il cattivo che ormai conosciamo – messo fuori gioco dal Castigamatti di Holly – che, immobile, con lo sguardo perso nel vuoto, siede sulla poltroncina a fiori di un ospedale psichiatrico in cui, da quando c'è quel famigerato ospite, succedono strane cose... In Mr. Mercedes c'erano macchine infernali e autisti che indossavano maschere da clown; in Chi perde paga, invece, personaggi di fantasia che non dovrebbero morire, lupi cattivi che non smettono di mordere, bambini in cerca di avventure – sui binari delle ferrovie, sulle sponde dei fiumi. Dèja vu. Personaggi che sono quel che leggono o che leggono quel che sono. Colpa di certi libri; colpe che King, giovane dentro, e Chi perde paga, disimpegnato, senz'altro non hanno sulla coscienza. Perché saranno sì tutte stronzate, come ripete a ogni piè sospinto Jimmy Gold, ma ci sono eccezioni.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: The Black Keys – Lonely Boy

giovedì 6 novembre 2014

Recensione: Mr. Mercedes, di Stephen King

Persino le stelle sono un miraggio. L’unica verità è il buio. E conta solo entrarci dopo avere fatto qualcosa di importante. Dopo avere ferito il mondo, lasciando il segno. In fondo, la Storia è nient’altro che una grande, profonda cicatrice.

Titolo: Mr. Mercedes
Autore: Stephen King
Editore: Sperling & Kupfer
Numero di pagine: 470
Prezzo: € 19,90
Sinossi: All’alba di un giorno qualsiasi, davanti alla Fiera del Lavoro di una cittadina americana colpita dalla crisi economica, centinaia di giovani, donne, uomini sono in attesa nella speranza di trovare un impiego. Invece, emergendo all’improvviso dalla nebbia, piomba su di loro una rombante Mercedes grigia, che spazza via decine di persone per poi sparire alle prime luci del giorno. Il killer non sarà mai trovato. Un anno dopo William Hodges, un poliziotto da poco in pensione, riceve il beffardo messaggio di Mr. Mercedes, che lo sfida a trovarlo prima che compia la prossima strage. Nella disperata corsa contro il tempo e contro il killer, il vecchio Hodges può contare solo sull’intelligenza e l’esperienza per fermare il suo sadico nemico. Inizia quindi un’incalzante caccia all’uomo, una partita a scacchi tra bene e male, costruita da uno Stephen King maestro della suspense.
                                   La recensione
Stephen King ci vizia, pubblicando così tanti romanzi nell'arco di un anno solo che, ormai, è inutile fare conti della rovescia, aspettandoli. Noi lettori, noi kinghiani convinti, abbiamo una certezza: la puntualità di Trenitalia è dubbia, ma non quella di questo magnifico autore che viene dal Maine e da un passato infestato da spettri alcolici. Diciamola così: mentre aspettiamo un treno che proprio non arriva, potrebbe essere già uscito un nuovo romanzo del Re in libreria. Sullo scaffale attende noi, mentre una voce da automa, senz'anima, annuncia che dovrai startene ad aspettare ancora per un po', su quel binario umido e isolato, il fischio del capotreno. Con Stephen King, lo sapete, non esistono attese o tentennamenti. Io, da qualche anno a questa parte, non mi informo più sulle trame dei suoi lavori. Vado, pago, porto a casa. Leggo e mi innamoro. E, puntualmente, come fai quando c'è una persona che ti piace da impazzire e non sai come dirlo, le parole – anche per te che le vivi e le respiri da una vita – giocano a nascondino. Perciò lo dico così, dai. A me Mr. Mercedes è piaciutissimo. Col superlativo assoluto. E sapete che non ne ero sicuro? Per una volta, King aveva dovuto aspettare i comodi miei – e di Libraccio. Con l'età mi vado facendo più o meno saggio, e il grillo parlante mi diceva che era giusto aspettare un'occasione speciale, destinata ad arrivare un mese dopo l'uscita. Quel grillo è poltiglia, ora, sotto le ruote di una macchina assassina. Il destino, col suo macabro senzo dell'umorismo, mi ha fatto iniziare il romanzo ad Halloween. Ma sapete che leggerlo allora è stata la più grande trasgressione che mi sia concesso? Il mio trentuno di ottobre aveva pantofole e pigiama felpato, altro che feste in maschera nel cuore della notte, ma lo stringere tra le mani un libro di genere – un libro del genere – trovavo mi rendesse un po' meno fuori dal mondo. Ma sotto l'ombrello blu, sotto la scrosciante pioggia di sangue umano, trovava riparo dal caos cosmico un individuo con la maschera da clown che, scostato quel secondo volto di plastica dipinta, di mostruoso aveva poco. Nessuna deformità, nessun passaporto di un'altra galassia, ma i tratti anonimi dietro cui la banalità del male, secolare, ama celarsi. Mr. Mercedes, con quella trama che si annunciava cupa e seriosa, aveva poco in comune. Lui è un dettaglio in copertina sul quale non ti concentri: uno smile con i dentini aguzzi e gli occhiali da sole che si prende gioco di te. Moderno, sardonico: Giallo. Conclusione inconsueta, per un'ingessata email di morte. Simbolo assoluto di un gustoso e tradizionale poliziesco inglese, se non fosse per l'umorismo nero di fondo: così spiazzante, così poco british. Se non fosse, soprattutto, per il personaggio più memorabile accanto al protagonista e ai suoi improvvisati collaboratori: l'assassino in persona, il cui nome è annunciato già nei primi capitoli. Un copilota inaffidabile, un vice diabolico, un altro te a cui l'autore, con la profondità di cui soltanto lui conosce il segreto, dà spessore e risalto. 
Brady è un sanguinario nerd che, nel suo scantinato pieno di computer e flashback violenti, vorrebbe guardare vecchi film, magari, fino alla fine dei tempi. Ma, con lui nei paraggi, e i suoi ordigni diabolici, e i suoi scatti di rabbia imprevedibili, il tempo è lì lì per finire. Basta un click. Per rendersi vicino il mondo, o per distruggene gran parte. Il complesso di Edipo, i pacifici hobby tanto inconsueti per un genio del male, la capacità di sedurti con le parole giuste per lasciarti lanciare in un dirupo senza fondo fanno di lui un individuo strano, visto di rado. Una bestia rara che vorresti sfiorare, dall'altra parte delle sbarre, anche se il rischio di rimetterci una mano è alto. Brady ha i riccioli e gli impieghi di Chuck Bartowski, le turbe psichiche e la mamma di Psycho, lo spirito di onnipotenza del grandioso e cattivissimo protagonista di Bed Time. Se il male ha quel volto, un volto nuovo, il bene è in pensione, ma resta decisamente arzillo: come Bill Hodges. Arguto, dissacrante, divertente. Non a proprio agio coi computer, i cellulari e le bilance elettroniche. Odia la tecnologia, le diete e quei programmi trash di cui tutti – lui compreso – guardano puntate su puntate per sparlarne a tutto spiano. Solo, triste e alticcio, lo conosciamo in preda alla noia e a pensieri suicidi. 
Il distintivo abbandonato in un cassetto, ma la vecchia pistola d'ordinanza che luccica, sfavilla, ti chiama al sacrosanto dovere della morte. Che sia quella degli altri, che sia la tua. Importa davvero? Una buona forchetta, che dice un mare di parolacce – anche quando non parla – e che conquista, del tutto inaspettatamente, donne di vent'anni al di fuori dei suoi stagionati standard. Quarantenni! Delle bambine, santo cielo! Lui, arrugginito Sherlock Holmes con ricca e affascinante Bond Girl al seguito, in una caccia all'uomo con le pallottole a salve e il mouse sempre pronto a cliccare e a carpire indizi vitali, ha due aiutanti che, guardate, vi raccomando spassionatamente. Un Watson che non si chiama Watson – bensì Jerome - all'ultimo anno di liceo: un ragazzetto di colore, bello e sicuro di sé, che tosa prati a torso nudo e dà lezioni di informatica a detective in età avanzata, con la speranza di rimorchiare e di farsi un nome. Meglio della M di James Bond, Holly Gibney: una quarantina d'anni, qualche rotella fuori posto, tic e nevrosi, inaspettati assi nella manica. Un pericolo per se stessa, quand'è sola e le voci le pulsano nelle tempie, ma un aiuto miracoloso per gli altri. Mr. Mercedes si legge in un soffio, ed è fresco come una rosa. Sembra scritto da un ragazzo agli esordi. Perché è firmato da un King vagamente diverso, quasi inedito. Con il vecchio e con il nuovo che sono in conflitto sì e no. L'autore cita perfino se stesso, in questo scorrevole thriller post undici settembre, pensato alle soglie di una crisi economica tremenda che, in combutta con un assassino spietato, fa ricche stragi. Una macchina infernale dal nome di donna che animava misteri e morti; un assassino di bambini col volto di pagliaccio, sbucato dalle fogne o da un altro pianeta. Avete presente, no? Insomma. Stephen King è fighissimo. Una rock star, tipo. Una di quelle, ancora intonatissime, che fanno il pienone agli stadi. Muove e sempre muoverà i fianchi come Mick Jagger, anche se qui – descrivendo l'ascesa di una fantomatica boy band amata dalle fanciulle, i cui brani disgustosamente pop hanno solleticato le orecchie di una mela marcia – mi parla di plausibili cloni dei One Direction dalle ore contate. Perché la fama è un soffio, e perché, nel bel mezzo della loro canzone più famosa, una bomba potrebbe metterli a tacere per sempre. Da leggere, ma sapendo che Stephen King è questo e di più. E, ragazzi, ve lo dice un Mr. che parla di un altro Mr. 
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: The Beatles – Drive My Car