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20.6.18

Ma cosa perdi tempo a leggere… Vai su un social e maltratta qualcuno


Dopo aver letto il mio post precedente immagino che siano molti (molti in senso del tutto relativo, come dire che 4 è la gran parte di 6) che sospettano che in realtà in questi ultimi mesi abbia letto molto poco. In effetti è abbastanza vero, temo di aver letto da fine gennaio a oggi la miseria di sette libri. O forse sei. Insomma di aver fatto ben poco per erudirmi e, oltretutto, di aver tratto assai poco guadagno dalle mie letture.
In compenso ho – credo – ordinato una trentina di libri che, vista la mia età verranno presumibilmente seppelliti con me, nel caso esistesse una vita dopo la morte. Tra questi il libro di Antoine Volodine, Terminus Radioso, il secondo volume della trilogia dei Tre Corpi, La materia del cosmo, l'ultimo romanzo di Clelia Farris, La consistenza delle idee, il romanzo di Stefano Paparozzi, Madre Nostra, senza contare gli Urania, i saggi e un romanzo inedito di poco più di un centinaio di pagine scritto da un torinese, Giorgio De Maria, Le venti giornate di Torino, pubblicato da Frassinelli proprio in questi giorni… Insomma c'è di che esultare sia per Fronte e Retro che per LN-LibriNuovi, se soltanto avrò il tempo di leggerli. 
Intanto, comunque, parlerò dei libri letti, in qualche caso atroci delusioni, in altri delusioni semplici, senza atrocità.

E comincerò proprio con una delle delusioni, sia pure non così dolorosa: I fratelli Friedland di Daniel Kehlmann, Feltrinelli editore, traduzione di Claudia Groff, pp. 270, € 17,00.
Di questo autore lessi e apprezzai debitamente La misura del mondo, che ricordo come una scatenata e assai poco seria biografia del grande Humboldt, perennemente ai ferri corti con la corte prussiana, fatalmente miope e in qualche caso decisamente illiberale. Questo I fratelli Friedland è la vicenda di «un padre disperso e i suoi tre figli», aperta con la scomparsa del padre dopo essere stato ipnotizzato dal Lindemann, un mago di passaggio in città con il suo circo. 
L'ipnosi di Lindemann, infatti, ha bruscamente risvegliato il padre, fino a quel momento scrittore di pochi racconti e sostanziamente nullafacente, spingendolo a cimentarsi davvero con il mondo editoriale e del cui successo i figli saranno informati unicamente per mezzo dei giornali.
I fratelli Friedland sono in realtà due gemelli monozigoti, Eric e Ivan, e un fratello più grande, Martin. Il libro ne racconta la sorte e le vicende, di Martin divenuto pastore senza essere credente, di Eric, genio matematico e di Ivan, pittore senza genio. Ciascuno dei personaggi racconta se stesso in prima persona in capitoli separati, ciascuno di loro ricorda il padre senza riuscire a comprenderlo, ognuno di loro vive una tragedia personale – il vuoto per la mancanza di fede per Martin, la maledizione della mancanza di talento per Ivan (alla quale reagisce in una maniera del tutto personale) e per Eric il fallimento delle speculazioni finanziarie nelle quali si è gettato. Arthur alla fine ricompare e domina l'ultima parte del libro, fino all'ultima predizione condotta da un cartomante che gli rivelerà l'ultimo segreto.
Un libro che si lascia leggere ma che mostra la freddezza di un perfetto meccanismo a orologeria al quale non è facile affezionarsi. L'uso – indiscutibilmente abile – del presente nella narrazione ha il risultato di comunicare una apparente urgenza che però non è sempre calzante con ciò che si racconta. Se la scena di Martin, sorpreso a insidiare una giovane allieva dall'intera famiglia di lei, cane compreso, risulta tragicomicamente efficace, non sempre le vicende narrate hanno una tale cogenza da suggerire modi tanto diretti – la prima persona e un presente stringente – e il risultato è quello di avere un lettore che, anche involontariamente, finisce per staccarsi dalla narrazione e considerarla in maniera esterna.
In sostanza, nonostante i riveriti pareri di Jeffrey Eugenides (riportata in seconda di copertina) e di Jonathan Franzen (in quarta di copertina) non posso che riporre il libro da una parte, giurando a me stesso che lo rileggerò soltanto se non avessi null'altro da leggere. 
Andiamo sul secondo libro letto, Cosmocopia di Paul Di Filippo, titolo originale Cosmocopia, ed. or. 2008, Urania Mondadori, trad. Marcello Jatosti, pp. 144, € 6,50, seguito dai racconti di Lorenzo Davia (Ascensione negata) e di Silvio Sosio (Ripristino).
Partiamo da un aspetto che potrebbe sembrare secondario ma che ha, in realtà, uno spessore notevole. Parlo di Grucciasentina, la creatura che aiuterà Lazorg, il protagonista, a riprendere la sua scalata verso il successo, l'aliena di umili origini, pronta a condividere il poco che possiede con una creatura esotica e, per lei, vagamente oscena.
Ma adesso cercherò di andare con ordine. Lazorg è un grande pittore e illustratore, ma con una grande carriera dietro le spalle. Un ictus l'ha colpito e ha reso il suo rapporto con l'arte difficile e a tratti intollerabile. La domanda che apre il libro: «Riprenderà mai a dipingere?» fatta da un'intervistatrice, è in realtà il tormentone che riempie la sua esistenza successiva all'ictus in poi. Lazorg non è un uomo piacevole: è presuntuoso, con un esagerato concetto di se stesso, brusco, spesso sbrigativo fino alla brutalità e tragicamente (avverbio che non posso spiegare, pena lo spoiler) geloso di tutti i giovani pittori, illustratori e cartoonist che continuano la loro carriera, prendendo spesso spunto dai suoi lavori.
L'incontro con la sua ex-amante, Velina Malaspina, la conversazione e ciò che avverrà sarà decisivo per il misterioso passaggio per un altro pianeta nel quale dovrà tentare di sopravvivere. 
A questo punto entra in scena Grucciasentina, una semplice raccoglitrice che vive in un locale sotterraneo a fa letteralmente molta fatica a unire il pranzo con la cena. Il suo incontro con Lazorg, misteriosamente ritornato a una condizione fisica accettabile, sarà anche una possibilità per lei di lavorare non più da sola. Ma esiste un problema che si porrà subito e con netta evidenza: le caratteristiche sessuali, sie quelle esterne che quelle interiori. Grucciasentina è temporaneamente una femmina, dopo aver attraversato nella sua esistenza diverse fasi in versione maschile. Un meccanismo endocrino, infatti, stabilisce in base alla dinamica dell'accoppiamento, il sesso che un individuo si troverà ad avere. Un elemento centrale della società in cui si trova a muoversi Lazorg, comunque inchiodato al proprio sesso senza nessuna possibilità di poter mutare. 
Ma il nostro naufrago ritrova ben presto il desiderio di creare, finendo per affermarsi nuovamente anche nel mondo di Grucciasentina e trovando creature, altrettanto femmine a tempo, ma molto disponibili a rimanerlo per un tempo più lungo. 
Senza entrare in particolari, diciamo che le avventure di Lazorg non si fermano qui e ad attenderlo vi è un finale decisamente imprevisto. 
Un buon romanzo, che sfiora – pur senza approfondirli – numerosi temi, primo tra tutti il ruolo attribuiti ai diversi sessi e che il mondo di Alice di Grucciasentina si diverte a rovesciare. Accanto a questo, probabilmente il tema più importante per di Filippo, il tema dell'arte moderna che, nella Terra possibile dove Lazorg sopravvive, ha una natura decisamente particolare, tanto da rappresentare insieme la natura profondamente ambigua dell'arte contemporanea, insieme banale, inafferabile, ovvia e memorabile.
In ogni caso un buon libro che non dovrebbe mancare nella vostra biblioteca di appassionati di sf.
Un altro bidone, adesso, anche se per la mia fretta di accappararmi un buon saggio storico. 
Si tratta di Imprevisti e altre catastrofiPerché la storia è andata come è andata di Glauco Maria Cantarella (badate bene al cognome, è una delle ragioni della delusione), acquistato nuovo e incellofanato presso una bancarella in un mercato al prezzo notevole di € 5 contro i 26 euro del suo prezzo originale. Proveniente dal magazzino Einaudi? Da una libreria fallita? Da una TIR rapinato lungo la via? In ogni caso una buona occasione, anche a rischio di essere incriminato per ricettazione. 
Lo leggo. E scopro che Cantarella non è Cantarella, ovvero che Glauco Maria – storico medievale, tra l'altro autore del notevole I monaci di Cluny – non è Eva Cantarella, autrice di Passato prossimo. Donne romane da Tacita a Sulpicia, I supplizi capitali, L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana e di diversi altri saggi storici. «Beh, pazienza», penso tra me.  Dopodiché mi imbarco nella lettura dell'introduzione al testo, lapalissiamente intitolata: «Per cominciare…» e scopro che il prof. Glauco detesta profondamente la Storia Controfattuale o Ucronia, a là français, per brevità. 

[…] La storia sarebbe stata diversa se i due Federico II non fossero mai nati? Se Adolf Hitler fosse stato gasato nelle trincee della Prima Guerra Mondiale […] Se Lenin non fosse riuscito a tornare in Russia? […] Se a Waterloo Napoleone [avesse vinto]? […] Possiamo andare avanti quasi all'infinito e sprecheremmo tempo e parole. Se il blitz che liberò Mussolini riuscì, fu perché c'erano le condizioni […] Tutto qui, molto semplice, molto banale […] La storia controfattuale o del what if, così come la storia per grandi temi sociologici e/o antropologici […] lasciamola a chi non è troppo interessato ad analizzare criticamente né il passato né il presente […]

Ohibò.
Dopo aver fatto una simile intemerata contro la storia controfattuale, in tutto e del tutto simile ai miei vecchi prof di storia al liceo, il buon Glauco si impegna a dimostrare – con uno stile salace e divertito da ospite perfetto – che qualunque elemento storico ha una quota di imponderabile, di natura metereologica, familiare, farmacologica, patologica, temporale o comunicativa – che fa sì che le cose non potevano che andare come sono andate. Oppure, annoto con gusto blasfemo, che potevano andare in millanta altri modi, alla faccia di tutti di gli storici del pianeta. 
La storia fatta per particolari ha un indiscutibile fascino, non c'è dubbio, ma condotta senza cercare di cogliere elementi generali come le forme di produzione, i rapporti tra le classi sociali, le disparità nell'organizzazione sociale e nella tecnologia che ne deriva, manca di un elemento centrale e fondamentale, permettendo, in questo caso, di poter favoleggiare molto di più di quanto abbiano fatto tutti i romanzieri controfattuali dell'orbe terraqueo. E il dubbio che viene è che in realtà il buon Glauco Cantarella faccia come chi si affretta a negare, pur non essendo tirato in causa.
Personalmente, e qui mi trovo a parlare del mio lavoro, penso sia assolutamente logico che Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg siano stati uccisi nel 1919, le condizioni lo imponevano, ma che esistesse una possibilità – minima quanto si vuole – che i due riuscissero a sfuggire e che in seguito (e qui le probabilità diminuiscono ancora) potessero guidare la rivoluzione sovietica in Germania, mi sembra sinceramente troppo interessante per lasciarlo cadere. Ovviamente si tratta di narrativa e non di storia e qui non dovrebbero esserci motivi di polemica o di osservazioni ciniche o pedanti. In ogni caso la mia visione della storia risente, probabilmente, un po' troppo della mia visione della fisica quantistica e degli universi che si sdoppiano ad ogni occasione possibile, oltre che dell'insegnamento del mio professore al liceo di Torino, un marxiano e un marxista convinto.
Particolare non secondario, mia figlia Morgana ha commentato con l'aria di chi ha smesso di scandalizzarsi per motivi di salute, che la storia contemporanea a livello universitario vive sempre di più di minuti e talvolta trascurabili particolari, di lavori condotti su piccolezze che chiunque deciderebbe essere poco influenti sull'insieme della socialità di qualsiasi epoca. Il nostro buon Glauco si candida quindi a essere il portabandiera di una storia residuale, una volta discusse fino alla nausea le grandi battaglie e i grandi complotti. Possibile? Io non penso, ma io non sono uno storico professionista.
Per concludere, il libro di Glauco Maria Cantarella è senz'altro leggibile e in qualche caso persino divertente – se si tollera il suo tono spesso fatuo o i suoi continui, golosi e malmostosi, rimandi ai capitoli successivi – ma giusto se avete l'occasione di pagarlo quattro euro e non ventisei. 

Altro bidone, indiscutibilmente. Perlomeno per me. 
John Scalzi, l'autore de Il collasso dell'impero, è un soggetto interessante che, a mio parere, ha spesso scritto qualcosa che ha tutti gli elementi della space opera: imperi galattici, alieni, congiure interstellari, ignote forze colossali che muovono interi sistemi, nobili e plebe, eroici comandanti di astronavi etc. etc. ma senza minimamente volerci credere, un po' come scrivere una perfetta parodia, tanto aggraziata che può essere letta in maniera «ingenua» o in maniera «divertita». Nota a margine, che può agevolmente essere saltata, i commenti di quotidiani e giornalisti riportati in quarta di copertina sono equamente divisi tra un'entusiamo un po' comico e uno scetticismo divertito, quasi a sottolineare l'anima divisa dell'ottimo Scalzi.
La vicenda è, ovviamente, grandiosa.  Protagonista in senso assoluto il Flusso, ovvero il sistema spazio-temporale che ha reso lo spazio intestellare accessibile alla specie umana, permettendogli di raggiungere lontani sistemi. Ma, come tutte le formazioni naturali, anche il Flusso non è stabile ed eterno, ma può variare, abbandonando il suo abituale «letto», spingendosi verso altri settori stellari a abbandonandone altri, destinati all'isolamento e a una catastrofica decadenza. 
Venendo ai personaggi umani la prima che il lettore incontra è Cardenia Wu-Patrick, principessa imperiale e destinata al trono del padre, Batrin, che sta lentamente morendo. Antagonista della principessa – in realtà una donna piuttosto normale e poco abituata ai fasti e alle cerimonie imperiali, anche perché la sua posizione nella scala di successione fino a poco tempo prima era quella di ultima – è Ghreni Nohamapetan, esponente di una grande famiglia che da anni punta a dirigere l'impero. Un individuo in apparenza fatuo, vanesio, vanitoso e frivolo ma che non mancherà di mostrare presto le sue "qualità". A coadiuvarlo – o meglio a guidare le sue decisioni – la sorella Nadashe Nohamapetan e il fratello maggiore Amit. 
Punto di rottura dell'apparente quiete dell'impero è la situazione di Fine, governato dal Duca di Fine, individuo corrotto e poco raccomandabile e le manovre per giungere a detronizzarlo e/o eliminarlo. Tutto ciò mentre il Flusso indica sempre più nettamente la variazione del suo percorso, rendendo Fine (Bello, pregiato in it.) decisamente centrale per il futuro dell'Impero. 
Se volete sapere che cosa succede dovete leggervi il libro, qui non si fanno spoiler, ma resta il dato di fatto che lo script del testo (termine non preso a caso) ricorda in modo allarmante i testi delle sitcom più frequentate, come se a ogni battuta dovesse seguire una risata o un applauso del pubblico. Lo stesso si può dire dei pianeti abitati dagli umani, più o meno copie-carbone della Terra con differenze tanto sottili da essere praticamente inafferrabili…
In sostanza un romanzo assai povero di sense of wonder anche se vivace e animato, una delusione per il sottoscritto che non riesce a prendere sul serio la nobiltà del futuro e i pianeti di cartapesta ma che può essere una discreta lettura per qualcuno appena meno fissato di me. 
...

Passiamo ora a un romanzo del 1960, ripubblicato inUrania Collezione nel  2004, Venere più X. Mille-Novecento-Sessanta… Dio mio, avevo un decimo della mia attuale età, a quel tempo. Ovviamente si tratta di un romanzo delizioso, ricco, sorprendente e unico, come è sempre il caso dei testi di Theodor Sturgeon. 
La vicenda: Charlie Johns, un uomo del tutto normale che vive in pieni anni '50 si addormenta improvvisamente e quando si risveglia si trova in ciò che in breve non può che definire una Terra molto lontana nel futuro, abitata da strane creature, i Ledom, di forma umanoide ma molto più strani, in realtà, di come appaiano al povero Charlie Johns.
In breve tempo l'esponente della nostra specie scopre di essere stato chiamato nel lontano futuro per una strana caratteristica che lui per primo non ha mai apprezzato molto: la capacità di porsi continuamente domande su tutto ciò che lo circonda e anche su se stesso, una vera pulsione a chiedere, come se in lui la curiosità dell'infanzia non sia mai appassita e seccata. 
Il mondo dei Ledom appare per molti versi sorprendente e, ovviamente, tecnologicamente avanzatissimo ma ciò che sorprende davvero Johns è il tipo di rapporto personale e umano che i Ledom hanno tra loro e con il loro ospite. Soprattutto impressionante per lui è il dato di fatto che i Ledom non hanno un sesso, ovvero che sono tutti ermafroditi e qualsiasi separazione – di sesso, di genere e di ruolo – è scomparsa nella loro società. 


«…Dice che la gente ha fatto il suo primo errore quando ha cominciato a dimenticare le somiglianze tra gli uomini e le donne e ha cominciato a badare soltanto alle differenze. Dice che è questo il peccato originale. Dice che è stato questo a spingere gli uomini a odiare gli altri uomini e anche le donne. Dice che questa è la ragione di tutte le guerre e di tutte le persecuzioni. Dice che questa è la ragione per cui abbiamo perduto tutta la capacità di amare, salvo una parte minima.»


E il commento di Silvia Treves su FB a questa frase è stato: «Ciò che mi piace di questa frase è il fatto che sia adattabile a praticamente tutte le discriminazioni, il sessismo, certo, e ogni tipo di discriminazione di genere, ma anche il razzismo, il fanatismo religioso, i nazionalismi ecc. Quando sottolinei le differenze invece delle somiglianze stai fregando qualcuno o ti stai fregando da solo. Probabilmente entrambe le cose.»

Al di là di ciò che apprende e che rende la sua visione della realtà quantomeno problematica – un po' come specchiandosi in un vetro incrinato – è la sorte che attende il suo tempo a creare le maggiori perplessità, tanto da costituire la sua maggiore domanda, tante volte ripetuta.
Un ottimo romanzo, capace di trascorrere senza sussulti o fatiche dai pensieri della vita quotidiana a temi profondi e inafferrabili come la durata e il senso di una civiltà. 
Non posso che consigliarlo e insieme piangere per l'ennesima volta la scomparsa di un tale sommesso e delicato genio della scrittura.

Ci sarebbe ancora altro da presentare, oltre al terzo volume del ciclo Canopus in Argos. Una donna armata, esperimenti siriani, ma temo che lo spazio a mia disposizione sia agli sgoccioli. D'altro canto mi dispiace non dedicare nemmeno una riga a un'autrice e a un'opera per me importante, quindi mi limiterò a un breve cenno, rimandando a un altro post un intervento più ricco e motivato. 
La donna armata è Ambien, un alto ufficiale siriano (personalmente preferisco l'aggettivo «siriota», meno carico di tutte le disgrazie e i drammi del povero paese medioorientale), parte del gruppo che per conto di Sirio deve coordinare la colonizzazione di Shikasta – ovvero la Terra – da parte dei sirioti. Ma il pianeta è oggetto della colonizzazione anche da parte dell'Impero di Canopus, con il quale Sirio ha raggiunto un accordo, anche se non facilissimo da rispettare, e soprattutto è vittima degli attacchi di Shammat, un sistema ben deciso a intervenire a proprio vantaggio nella situazione della Terra, nel contempo creando problemi di ogni genere ai colonizzatori. 
Il racconto di Ambien è sostanzialmente la cronaca, raccontata dal punto di vista di un alto ufficiale, del fallimento dei tentativi sirioti – una civiltà che presenta non poche rigidità nell'approccio ai terrestri – di giungere a una colonizzazione efficace e funzionante. Il gioco a tre che Canopus, Sirio e Shammat giocano nell'antichità del nostro disgraziato pianeta crea continuamente disturbi, problemi, arretramenti, guerre, disordini e violente intolleranze, tanto che Ambien ha sempre più la sensazione che la presenza di Sirio sulla Terra sia un ulteriore problema più che una possibile soluzione. 
Ma il generale, la donna armata, non cessa di adoperarsi per tentare di condurre in porto gli esperimenti siriani, pur continuando a pensare tra sé che l'Impero di Canopus abbia metodi e organizzazione migliori di loro. 
Un personaggio curioso e ambiguo, Ambien, una donna risoluta e insieme carica di dubbi, ripensamenti ed esitazioni che il il lettore finisce per conoscere con geometrica precisione e altrettanto sottile sensazione di angoscia. Inevitabile pensare che Doris Lessing, figlia di colonialisti  – sia pure oneste persone – ricostruisca qui la non facile convivenza con gli indigeni africani così come la difficile sopravvivenza delle famiglie inglesi inviate nell'allora Rhodesia del Sud a creare un proprio ipotetico futuro. 
La sf non è una letteratura di metafora? Al contrario: può esserlo in maniera tanto aderente da riprodurre alla perfezione un insieme di tentazioni, errori, orgoglio e fatica. 

[…] Una griglia era stata stampata sull'intero continente. Era una rete di rettangoli perfettamente regolari. Avevo sotto gli occhi una mappa, un grafico di un certo modo di pensare… era un modo pensare, un'impostazione mentale resa visibile. Era la mente dei margini nordoccidentali, la mente dei conquistatori bianchi. Sopra la varietà e i cambiamenti e le differenze del continente, sopra i flussi e i movimenti e i cambiamenti della terra […] c'era un marchio di rigidità. […] Era un marchio di possesso, una moltiplicazione dell'unità elementare del possesso territoriale. 

Bene, a questo punto smetto.
Ci ho messo qualche giorno a scrivere tutta questa zuppona interminabile e vivo nella convinzione che: 
1) scompaia da un momento all'altro e doverla riscrivere da capo.
2) nessuno la legga. 
Mentre la prima delle due funeste previsioni è frutto dell'angolo più medievale di me stesso, la seconda nasce dalla convinzione che in internet nessuno sia capace di leggere per più di dieci righe di seguito. Io compreso. 
Quindi, basta: via!



19.1.18

Cose varie e altri libri

Una parte della mia seconda libreria, dedicata alla sf e alla fisica... Nota bene, i libri sono in doppia fila,

È arrivato il momento a lungo annunciato: finalmente presenterò qui il secondo dei volumi di Canopus in Argos in italiano di Doris Lessing e qualcosina d'altro letto nel frattempo. Temo che ne risulterà un post particolarmente lungo, ma potete anche, nel caso, leggerlo un po' per volta o limitarvi alla prime quattro righe di ogni recensione. Comunque prima di passare ai testi posso annunciare qualcosa d'altro, più che altro per incastrarmi definitivamente. 
1. Un'antologia di testi ambientati nella Corrente, già usciti sugli ALIA più vecchi e che mi sembra appena decente presentare di seguito al Settimo Clone. Praticamente già pronti, usciranno in e-book nel mese di febbraio / marzo, poco dopo l'uscita di ALIA Evo 3.0 in forma cartacea. 
2. Sto scrivendo un racconto incentrato sul tema del «genere», quello proposto da Caterina Mortillaro e Silvia Treves per un'antologia inter-genere. Il racconto procede bene, anche se ha preso una curiosa piega Vance-iana che non mi sarei  aspettato. Ovviamente non ho la minima idea di come finirà il racconto ma intanto continuo a scrivere. Particolare, la cornice è quella della Federazione della Corrente anche se in un mondo semidimenticato. 
3. Sono a pagina 140 del «racconto» nato per ALIA Evo 2.0 che, ovviamente, è divenuto un romanzo. Se non sapete chi sono i Knotenmeister – I Signori dei Nodi – dopo il racconto premiato con il premio Omelas, Il perdono a dio, avrete una buona occasione per rifarvi. Diciamo che sarà pronto entro l'anno.
...
Ed ora le recensioni: 

Del primo volume del Ciclo Canopus in Argos: Archives, Shikasta ne ho già parlato su questo blog e potete trovarlo qui. Quindi riprendiamo dal secondo volume, The Marriages Beetween Zones Three, Four and Five, presentato in Italia da Fanucci nella traduzione di Oriana Palusci e con il titolo Un pacifico matrimonio. Di Oriana Palusci è anche la postfazione, preziosa a condizione che abbiate già letto il libro.
Lo luogo del libro è molto diverso da quello di Shikasta. D'altro canto è vero che Doris Lessing presenta gli «Archivi» di Canopus in Argo ed è quindi normale che i legami tra i vari volumi non siano ferrei, né in termini di luogo né in termini cronologici. Qui il lettore ha a che fare con (almeno) cinque Zone, la Zona 1, la 2 eccetera. Ognuna delle zone gode – o soffre – di un clima particolare, «scendendo» dalla Zona 1, praticamente mai narrata ma soltanto brevemente accennata, fatta di montagne dove si suppone risiedano creature sovrumane, alla Zona 2, altrettanto sublime e di non facile accostamento per gli umani della Zona 3. Piccolo inciso: l'atmosfera muta in maniera più o meno percettibile nel passaggio da una zona all'altra ed è possibile assuefarsi alla zona visitata facendo, per i primi tempi, uso di uno scudo protettivo. La Zona 3, dalla quale proviene la regina At-Ith, è il luogo di una piccola utopia: minuscoli villaggi, una tecnologia di produzione pervasiva ma molto poco evidente, un'ottima programmazione e l'assoluta libertà sia per gli uomini che per le donne. La Zona 4 è acquitrinosa, economicamente depressa e soggetta a un sovrano militarista e guerrafondaio, Ben Ata, bell'uomo, ma selvaggio, primitivo e ignorante e che sarà chiamato a sposare At-Ith come comandano i Tutori, creature di fatto invisibili  (all'interno del romanzo) e che probabilmente – come suppone la stessa Oriana Palusci – sono gli Immortali di Canopo. Il motivo di un matrimonio tanto apparentemente assurdo è il calo di fecondità della specie umana (e non solo) il cui rimedio pare essere per l'Ordine dei Tutori proprio il matrimonio tra i due sovrani. La Zona 5, infine, è torride e desertica, vi abitano umani nomadi impegnati in continue guerre civili e che sopravvivono predando le popolazioni di confine, determinando lo stato di guerra endemica con la Zona 4.

Particolare tutt'altro che secondario tutte le vicende che riguardano le Zone e i loro rapporti sono narrate da anonimi «cronisti» che fungono più che da narratore onnisciente da veri e propri «osservatori» in grado di riferire attimo per attimo, emozione dopo emozione ciò che accade, dai rapporti intimi di At-Ith, regina della Zona 3 con Bel Ata, re della Zona 4, agli scontri e alle incomprensioni tra i due.
Secondo la volontà dei tutori il matrimonio avviene e viene faticosamente consumato. I rapporti tra At-Ith, profondamente civile, donna liberata, pacifista, figlia di una società «utopica», così evidentemente simile ai mondi narrati da Ursula K.LeGuin, e suo marito, un uomo abituato alla brutalità, i cui rapporti con le donne sono violenti per necessità, dal momento che parlare con una donna è per lui faticoso e frustrante, è quantomeno complesso. Per Ben Ata lei è una sorta di pericolosa strega dalla quale può aspettarsi qualsiasi trucco, tranello e menzogna e a lei lo sposo ricorda un bambino: capriccioso e indeciso, violento e malinconico. Ma At-Ith, senza cadere nella trappola del semplice rancore verso Ben Ata, gli diventa poco alla volta familiare, desiderabile in senso proprio – la sua mente di «strega», come il suo corpo – tanto da giungere a trascorrere interi giorni a parlare e ad accoppiarsi, facendo in modo che lui si senta più umano, meno vanamente violento e ascolti i suoi consigli sulla politica interna, sull'economia, sul graduale disarmo del suo inutile grande esercito che finora ha avuto come risultato quello di tenere lontano gli uomini della Zona 3 dai campi e dai lavori in città. 
Ben Ata le ubbidisce ma il motivo essenziale del suo vivere si appanna, diviene silenzioso, spesso pensieroso e immalinconisce ed entrambi finiscono per sentirsi estranei alla propria terra madre. At-Ith partorisce un figlio nato dalla loro unione ma uomini e animali non recuperano la loro fertilità e alla fine i Tutori decidono che Ben Ata dovrà sposare Vahshi, principessa della Zona 5. At-Ith deve rientrare nella sua Zona ma il suo posto di regina è stato preso dalla sorella Murti. Ben Ata, rimasto solo con il loro figlio, lo affida a Dabeeb, moglie del suo miglior generale, ma non è più se stesso. 

Qual era la differenza tra il Ben Ata di prima, il giovane soldato barbaro e lussurioso – era così che si descriveva adesso – che catturava qualche povera ragazza, la possedeva e poi non pensava più a lei, e il nuovo Ben Ata sposato con Al-Ith? 

At-Ith in realtà non riesce più ad abituarsi alla propria terra, sogna la Zona 2 che non può raggiungere e incontra ancora una volta Ben Ata nelle ultime pagine del libro. 

Rimasero seduti una nelle braccia dell'altro, guancia e guancia, e guardarono il passo avvolto nella nebbia blu, pensando che erano ancora sposati, anche se erano rimasti separati a lungo. 

Il cronista incaricato non sa nulla di più di Al-Ith, scomparsa nella Zona 3 e sa che Ben Ata è rientrato nella propria zona. I canti, i miti, le leggende si diffondono in tutte e tre le Zone e le genti si spostano, mutando le caratteristiche dei tre popoli.

C'era luce, freschezza, e voglia di sapere e rinnovarsi, un'ispirazione continua dove una volta c'era stata solo stasi. E frontiere chiuse. 

Due particolari non centrali ma che aiutano a comprendere il senso profondo del romanzo sono l'andamento Dantesco delle diverse Zone, dal Paradiso della Zona 1 fino all'inferno della Zona 5 e oltre e il curioso rapporto che esiste tra gli umani e i cavalli, che riprende un tema tipico del fantasy, a dimostrare come Lessing potesse fare uso indifferentemente – e con esiti comunque notevoli – di riferimenti alla cultura «alta» che a temi tratti dal testo popolare. 

 
Un pacifico matrimonio è un romanzo ricco di livelli e di possibili interpretazioni. L'impronta della personalità della Lessing, nata in Africa ed emigrata in Gran Bretagna, si coglie ad ogni passaggio della narrazione, nella personalità complessa e talvolta enigmatica di At-Ith come in tutte le donne che appaiono nella vicenda. Il rapporto tra maschile e femminile non è mai facile né tantomeno scontato, ma l'autrice fa in modo che il rapporto tra i generi possa divenire comunque fertile. E dalla fecondità del rapporto faticosamente nato tra maschile e femminile a sua volta nasce la fecondità delle terre e delle idee. Una società multiculturale può essere libera e felice. Una lezione che non dev'essere dimenticata, soprattutto in questi tempi. 
...

E arriviamo a I ragazzi di Barrow, titolo originale Barrow's Boys, A Stirring Story of Daring, Fortitude and Outright Lunacy (1999), scritto da Fergus Fleming e tradotto da Matteo Codignola. 
Un libro magistrale, una cronaca puntuale, grandiosa, a tratti eroica e in altri sordida e meschina, spassosa e folle dei numerosi tentativi compiuti dai sudditi di sua maestà la Regina Vittoria per riuscire a tracciare la rotta a Nord-Ovest e per scoprire le il corso del Niger.

Nel 1804, quando John Barrow ascende al soglio di secondo segretario dell'Ammiragliato britannico, sulle carte […] spicca ancora un numero allarmante di zone bianche […] [tra queste] il vero corso del Niger e l'esistenza o meno di un Passaggio a nordovest. Su entrambi Barrow aveva idee spesso sbagliate , ma comunque chiare, e soprattutto la possibilità di realizzarle. […] Trascorse i quarant'anni del suo regno a montare un impressionante numero di spedizioni verso il Polo o l'Equatore. Difficilmente quelle avventure scampavano al disastro, al grottesco, o a una miscela variabile di entrambi.

Ciò che ha di impagabile questo libro – che raccomando praticamente a chiunque mi capita di incontrare – sono i modi acutamente ironici utilizzati dall'autore, un amante dei viaggi e dell'avventura, nel narrare una serie di avventure mal congegnate e peggio condotte, che generalmente terminano in maniera drammatica. Ma il tono sardonico ostentato da Fleming – che episodicamente dà la sensazione di assumere toni fin troppo caricati – non nasconde comunque la reale tragedia dell'essersi perduti nel deserto o restare a bordo di una nave stritolata dai ghiacci. Si potrebbe affermare senza timore di essere smentiti che si tratta di un libro concepito da Emilio Salgàri ma scritto da Alan Bennett, che pur nell'infuriare della tempesta o tra i titanici iceberg del Polo Nord non dimentica gli errori marchiani o le testarde convinzioni di Barrow, dell'Ammiragliato britannico e dei comandanti.
A completare e arricchire il testo una trentina di pagine in calce che narrano le vicende dei protagonisti dopo le imprese – o i fiaschi – raccontati nel libro e il loro essere divenuti, nella maggior parte dei casi, elementi di spicco della marineria inglese. Se le vicende di John Ross, John Richardson, Hugh Chapperton, Dixon Denham, George Lyon, James Clark Ross, Richard Collinson, Robert McClure, di Sir John Franklin e di sua moglie Lady Jane Franklin e degli altri presentati nel testo assumono a tratti i modi di una vicenda «troppo tragica per essere seria», Ferguson trova anche le parole per presentare il coraggio – o talvolta l'assoluta incoscienza e temerarietà – di molti di loro, che affrontarono gli inverni polari in tempi nei quali la tecnologia era soltanto una promessa e non una realtà, tenendo conto che, in ogni caso, chi è venuto dopo di loro e anche i nostri contemporanei non sottovalutarono e non sottovalutano gli effetti del clima polare.
In chi legge rimane la sensazione, probabilmente cercata dall'autore, di aver letto le storie di un pugno di pazzi – la «completa follia» del titolo dell'edizione originale – ma in qualche modo animati da un sogno violento e irrazionale, una fame di conoscenza che andava molto oltre quanto previsto dall'Ammiragliato e da Barrow. Si può ridere, con questo libro, ma rimane una sensazione di ammirazione che non è facile cancellare.
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Ultimo libro di questo giro, Il problema dei tre corpi di Cixin Liu, ed. orig. 2008 ed edizione americana – dalla quale è ottenuta la traduzione di Benedetta Tavani, oltre che la copertina – dal titolo The Three-Body Problem, curata da Ken Liu. 
Il romanzo di Cixin Liu ottenne il Premio Hugo nel 2015, per la prima volta vinto da un autore asiatico, e venne tradotto in giapponese, inglese, tedesco, francese, spagnolo, polacco, olandese e in numerose altre lingue. In italiano giunse ben nove anni dopo, un record, a suo modo.  
Il romanzo costituisce il primo volume di una trilogia che continua con The Dark Forest [2015], uscito in edizione originale cinese nel 2008, e The Death's End [2016], ed. orig. 2010. Possiamo sperare che tra il 2018 e il 2019 usciranno anche le edizioni in italiano, ovviamente tradotte dalla lingua inglese…
La minimo di storia, ora, cercando di evitare spoiler
Il primo dei protagonisti ad apparire è Ye Wenjie, figlia di una fisico brutalmente ucciso nel corso di una seduta di autocritica durante la Rivoluzione Culturale – un racconto a suo modo agghiacciante –  e lei stessa astrofisica. Ye Wenjie dopo un periodo di lavoro coatto presso un Corpo di Costruzione e Produzione relegato in un'area di confine della Cina e dopo aver avuto grane a non finire e una possibile condanna per aver letto La Primavera Silenziosa di Rachel Carson, viene reclutata nella Costa Rossa, un progetto segretissimo del governo. Il secondo protagonista ad apparire, trentotto anni dopo, è Wang Miao, un fisico specializzato in nanotecnologie che viene «invitato» a una riunione di militari e scienziati alla quale, con sua grande sorpresa, partecipano anche un militare inglese, un ufficiale americano e due agenti della CIA in qualità di osservatori. 
Wang Miao e Ye Wenjie si incontreranno presto, Wang Miao viene coinvolto in un videogioco dallo strano andamento e dagli esiti imprevedibili, mentre di Ye Wenjie sapremo poco alla volta i motivi profondi della sua assurda e apparentemente biasimevole scelta. Il romanzo si chiude con la frase: «Ye sussurrò: "È il tramonto dell'umanità"», frase che non lascia troppe speranze per il nostro futuro, più o meno come il surriscaldamento globale, la plastica negli oceani e tutto ciò che minaccia la sopravvivenza della nostra specie.
Cixin Liu è riuscito a scrivere un libro per molti versi esemplare, narrando quarant'anni di vita e di storia cinese, a testimonianza di quanto il passato conti nella vita quotidiana di ogni cinese, e nel contempo raccontando dei progressi della fisica moderna e delle inevitabili perplessità che essa sta vivendo, il tutto partendo da un enigma matematico irresolubile, il problema dei tre corpi. Personalmente ho trovato meglio riuscita la prima parte del romanzo, così densa di ricordi e agghiacciante nel racconto del videogioco condotto da Wang Miao, questo senza nulla togliere alla seconda parte, comunque appassionante e che termina in maniera enigmatica. A parte un'inaspettata somiglianza con Murakami Haruki, il cui rapporto con il fantastico emerge a tratti nella prosa di Cixin Liu, il romanzo riesce ad apparire terribilmente realistico e il suo «messaggio», per usare un termine desueto, è quello di spingerci a difendere il nostro pianeta, così evidentemente fragile. Diciamo che se quest'anno avete deciso a limitare le vostre letture di fantascienza a un solo romanzo, farete bene a comprare e leggere questo. Non vi lascerà più. 
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Questo post termina qui. Spaventosamente lungo e che mi è costato dieci o undici ore di lavoro disposte nel corso di una settimana, ma che spero sia gradito dai mie sedici lettori. 
No, non sono Alessandro Manzoni, semplicemente ho controllato il numero di lettori del blog di ieri… Ma non importa, il blog non vive solo di passaggi ma soprattutto di che cosa vi si scrive. Arrivederci a presto!




15.12.17

Cose che passano


È un po' che manco da qui, vero? 
Sempre ammesso che qualcuno se ne sia accorto. 
Niente da fare, il mio rapporto con il blog sembra essersi appannato senza, al momento, speranza di riprendere. 
Ma ho anche un motivo che in parte può spiegare questa situazione. Infatti sto scrivendo un romanzo...
«Sai che novità.»
Beh, è vero. Non è un fatto nuovo. Mi è già successo più volte di scrivere qualcosa, per ALIA o per il re di Prussia, senza scomparire dai radar. 
Probabilmente è qualcos'altro a bloccarmi. 
La sensazione di scrivere inutilmente? Ovvero di affermare male cose che altri affermano con sicumera e indiscutibile assenso generale? O generale riprovazione, che poi, come insegna Vespasiano Gonzaga «Sive bonum, sive malum, fama est». Temo di sì. 
È un problema che ho la sensazione di cogliere, scorrendo i blog dei quali tengo memoria nella colonna a dx del mio blog. Pochi quelli che sono aggiornati, molti quelli che accumulano polvere virtuale, con da «4 settimane fa» fino a «un anno fa». Ma, d'altro canto, chi ha voglia di parlare di attualità o di politica, di questi tempi. E voi, pochi o tanti che siate, avete già deciso se votare? E per chi votare? Lasciamo perdere, via. Tanto temo che sull'argomento ritornerò prima del 4 marzo. 
Parliamo d'altro. 


Sto leggendo il quarto volume della serie di Canopus di Doris Lessing, «Un luogo senza tempo». Ho letteralmente divorato  i precedenti due volumi, «Un pacifico matrimonio» e «Una donna armata». Avete idea di che cosa significa leggere della buona fantascienza – lo so, la Lessing la definiva Space Fiction, ma si tratta di buona, vecchia sf – senza dover subire un pessimo italiano e storie vecchie anche quando si svolgono in un futuro più o vicino? La mia benamata Lessing scrive bene, cribbio, ed è riuscita a creare un universo credibile con personaggi spessi e vitali. Dio mio, come mi mancava un autore come lei… Piccolo dolore, l'edizione del quinto volume non è mai uscita in italiano, il che comporterebbe la necessità di leggerlo in lingua originale. Leggere in inglese è possibile, certo, ma con un cambio di velocità netto rispetto all'italiano… ma ci penserò a suo tempo.
Ovviamente una volta digerito il grosso boccone ne parlerò diffusamente qui e/o su http://librinuovi.net/.
Altri libri altrettanto succulenti non ne ho letti, a essere sincero, se si esclude «Specchi neri» di Arno Schmidt che sto centellinando per la paura di consumarlo troppo presto. Ho tentato di leggere l'ultimo Greg Egan pubblicato, «Un razzo a orologeria» ma ho gettato la spugna prima di arrivare alla parola «fine». Orrendo? No, sinceramente non posso dirlo, ma se ho voglia di fare un veloce ripasso della fisica studiata in quinto liceo prendo il mio vecchio manuale di fisica e me lo ristudio da capo. Indubbiamente la possibilità di studiare una fisica diversa, nella quale la luce non abbia una velocità costante ma presenti diversa velocità in rapporto allo spettro cromatico, è molto suggestivo ma il problema è quello di renderlo efficacemente attraverso lo strumento narrativo e non attraverso un addendum alla fisica studiata a scuola. D'altro canto se Egan riuscisse a scrivere insieme una relazione su una fisica di un universo parallelo e contemporaneamente i moti dell'animo di alieni abitanti di quell'universo sarebbe – come dire – troppo bravo per il metro umano e incarnerebbe alla perfezione un'Intelligenza Artificiale prossima a conquistare il mondo.
Sono abituato agli alti e bassi della narrativa di Egan e non mancherò di acquistare anche il prossimo libro, nonostante tutto. E non è detto che prima o poi non riprenda mano il manuale di fisica e lo rilegga, in compagnia del libro di Egan.  


Ho anche altri libri che mi ronzano dalle parti della scrivania, tra cui i due testi scritti da Davide Mana – grazie Davide! – e sei o sette testi che mi aspettano per una lettura non casuale ma in vista di eventuali recensioni o per un'eventuale pubblicazione in ALIA Arcipelago. Temo che se ne riparlerà nel periodo di ferie (ferie?!?) in montagna. Senza contare che sto accarezzando l'idea di far uscire in e-book cinque racconti appartenenti al ciclo della Corrente, a suo tempo usciti sui vecchi ALIA o su Fata Morgana e dovrei fare qualcosa di più che sbatterli tutti in una cartella informatica e episodicamente guardarli. 
La vera novità è che mia moglie, Silvia Treves, ha presentato la domanda per la pensione e se non sorgono problemi con l'autunno del 2018 dovrebbe smettere di lavorare. A scuola. Ciò che la fanciulla non ignora è che da quel momento sarà mio ostaggio per tutto ciò che riguarda il lavoro per ALIA e per LN.
Altra novità è che con l'anno nuovo partirà il lavoro per ALIA Evo 3.0 in forma stampata. Ma di questo penso riparleremo presto. Intanto posso mostrare al pubblico la bozza (è una bozza… non cercate di capire che cosa c'è scritto).


Per il momento comincio a fare i miei migliori auguri di buone feste e di un 2018 almeno un po' migliore dell'anno in corso. In fondo non ci vorrebbe molto.
Ovviamente se riappaio qui vi ribeccherete gli auguri un'altra volta.

11.3.17

Ultime letture, seconda parte


Come è inevitabile e fatale, alla prima parte segue inevitabilmente una seconda. E non è escluso ne segua una terza. 
Questa volta non presenterò i libri letti in un modo in qualche modo unitario – per editore, ad esempio – ma esattamente come li ho letti: disordinatamente.  
Ad aprire l'elenco uno strano libro, Shikasta, scritto da Doris Lessing nel 1979, il primo di una pentalogia, Canopus in Argos. Fantascienza? Non proprio, non esattamente. Doris Lessing lo definì una Space Fiction, categoria da lei coniata per raccontare in forma di mito le origini e lo sviluppo della specie umana. Ovviamente questa parte della sua produzione non incontrò un particolare favore da una parte della critica, tanto che si sussurrò che fu proprio per i suoi romanzi di "fantascienza" che dovette attendere fino al 2007 per aggiudicarsi il Premio Nobel per la Letteratura.  
In Italia sono a suo tempo usciti per Fanucci i primi quattro dei cinque romanzi del ciclo, ma con esiti non del tutto soddisfacenti. Presumibilmente poco graditi alla maggioranza delle lettrici, non hanno intercettato il pubblico più "classico" della sf.   
Ma com'è Shikasta?
Beh, si tratta di un volume di 488 pagine, diviso in... oddio, non esiste indice... vabbè, ci saranno dei motivi. Andremo in ordine. Il libro si apre con gli Archivi di Canopus in Argos, ovvero dell'Impero di Canopo. Shikasta, all'epoca dei primi archivi tenuti da Johor nel «Periodo degli ultimi giorni», è ovviamente la Terra – all'epoca denominata dai canopiani come Rohanda (la Fruttifera) , dove la specie dominante – nei documenti i Nativiè accompagnata verso la civiltà da una stirpe di giganti (statura intorno ai cinque-sei metri). 
Ma il maligno influsso di Shammat, un impero interstellare nemico sia di Canopo che di Sirio – entità politica che condivide il possesso della Terra con i canopiani – riesce infine a colpire Rohanda facendone regredire il grado di civiltà, rendendola definitivamente un pianeta perduto, rendendola, in una parola, Shikasta.
Il testo del romanzo è in sostanza fatto dalle relazioni di Johor il canopiano, testimone e in qualche momento agente attivo – nei panni di George Sherbanper riportare la Terra a una rinascita morale, etica e civile. Altri elementi che lo compongono sono sezioni di diari personali – particolarmente struggente quello di Rachel Sherban –, relazioni, rapporti, lettere, selezioni storiche che raccontano buona parte della nostra storia del XX secolo visto da una specie semiimmortale e profondamente civile. 
Così lo descrive una sua ammiratrice, che ha pubblicato un breve articolo sulla pentalogia di Doris Lessing: 

The first novel, Re: Colonised Planet 5, Shikasta, encompasses millions of years of Earth's evolution and uses several contrasting styles and manners to do it, from the manic stupidities of "the Devil," to the lofty ruminations of "the Gods," but Lessing is also able to write the simple and sorrowful story of a single teen-age girl, whirled out of her little limitations by the world's cataclysms.

Il primo romanzo, Shikasta, comprende milioni di anni dell'evoluzione della Terra e utilizza molti stili contrastanti e diverse maniere per farlo, dalla frenetica stupidità del "Diavolo" all'altezzosa ruminazione degli "Dei", ma Lessing è anche in grado di scrivere la semplice e dolorosa storia di un'adolescente, catapultata oltre i suoi limiti dai cataclismi che colpiscono il mondo. 

Dire molto di più sulla trama non è facile, anche perché la Lessing intende dipingere un vasto quadro della vita umana nel XX secolo e, letteralmente, qualunque strumento scritto si rivela adatto a questo compito. 
Un romanzo non facile proprio per il materiale spezzato, contraddittorio, personale o impersonale che rende complesso seguire le vicende raccontate. In ultima analisi non posso dire di aver particolarmente compreso la convinzione dell'autrice di poter raccontare il punto di vista di un membro di una razza superiore, anche se le concedo abbondantemente e molto volentieri la fantasia inesauribile, la sensibilità e l'attenzione di un grande scrittore nel raccontare dozzine di storie diverse utilizzando diversi stili e diversi strumenti. Ed è stato propria questa capacità a spingermi a leggere l'intero volume e, suppongo, a ordinare i volumi restanti.
Quanto al rapporto di Doris Lessing con la sf, diciamo che si tratta di un falso problema, nel senso che l'autrice dà un valore praticamente nullo alla scienza e alla tecnologia e, in realtà, ci racconta una Storia dell'Umanità dal lontano passato fino al futuro, con osservazioni desunte dalla sua esperienza personale, dal suo passato non facile, dalla sue speranze e paure. In realtà molto più simile a un conte philosophique che a una space opera, Shikasta si lascia apprezzare proprio per la sua intrinseca, profonda singolarità, per il suo essere un romanzo curiosamente quasi ottocentesco, un I Viaggi di Gulliver più personale, amaro e drammatico. 


I commenti all'opera sono stati diversi e tra questi merita ricordare quello di Gore Vidal che, pur apprezzando la talentuosa immaginazione dell'autrice, la accusò di aver drasticamente ridotto il libero arbitrio umano nel suo testo, giungendo a paragonare la sua visione dell'umanità a quella di Scientology. Un commento più moderato si può trovare in questo testo di George Stade, giornalista del New York Times:


But the new unearthly perspective reduces the size of her earthlings. Their fates too often seem beneath our concern. And that is sufficient reason in itself to regret that reality has grown soft for Doris Lessing, whose other main characters seldom failed to move us, one way or the other. In describing the outlook of decent humans during the Penultimate Time, she finds words, I believe, for her own: "Nothing they handle or see has substance, and so they repose in their imaginations on chaos, making strength from the possibilities of a creative destruction."



Ma la nuova prospettiva extraterrestre riduce la dimensione della sua visione dell'umanità. Il destino umano risulta troppo spesso inferiore al nostro interesse. E questa è una ragione sufficiente di per sé per rammaricarsi che la realtà si presenti così tenue per Doris Lessing, i cui personaggi maggiori raramente falliscono nel commuoverci, in un modo o nell'altro. Nel descrivere la dignitosa decadenza degli esseri umani durante il Penultimo Tempo, trova parole, io credo, degne di lei: «Nessuna materia che essi manipolano o vedono ha sostanza, e così essi sacrificano la loro immaginazione nel caos, prendendo forza dalla possibilità di una distruzione creativa.»

Resta soltanto da aggiungere che Doris Lessing alla domanda su quale fosse il suo testo più amato rispose: «Canopus in Argos».
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Visto lo spazio preso da Shikasta, temo che riuscirò al massimo a parlare solo di un altro libro. La scelta – non facile – è tra due libri: Terrore dagli abissi di William Hodgson (Hypnos, 2015) e La tormenta di Vladimir Sorokin (Bompiani, 2016). Diciamo che scegliendo Sorokin non sono obbligato a raccontare almeno in parte la biografia di Hodgson, un autore non abbastanza noto in Italia, e a narrare il periodo in cui nacquero le sue storie. 
Vladimir Sorokin è l'autore di due romanzi pubblicati in Italia, La Coda e Ghiaccio, (i link sono alle recensioni dei due libri su LN-LibriNuovi) è nato nel 1955 (come me) ed è considerato uno dei maggiori scrittori russi di oggi (io no). 
La vicenda si svolge in una Russia iperletteraria, su uno sfondo che si suppone pre-rivoluzionario, con un medico – il dottor Palton Il'ic Garin – chiamato a consegnare un vaccino nel villaggio di Dolgoe per fermare un'epidemia mortale. Il problema è che una tormenta di dimensioni drammatiche lo appieda e lo obbliga ad assoldare un trasportapane, Raspino, con la sua propulsoslitta da cinquanta cavallini, ovvero un genere di veicolo piuttosto particolare.
Raspino e Garin partono nell'infuriare della tormenta, ma dopo poco perdono la strada; la propulsoslitta si rovina un pattino e devono fare non poca fatica per ripararlo; fanno incontri singolari, si ubriacano e Garin riesce persino ad avere un'avventura galante, sia pure dai tratti perlomeno curiosi. Dolgoe è sempre «appena dopo il ponte» o «subito dietro la montagna» ma intanto i giorni e le sere si susseguono, fino a giungere ad una conclusione indubbiamente sorprendente.
Un romanzo fresco, brillante, vivace e nel contempo onusto di antiche glorie letterarie e che riesce a suscitare l'illusione di leggere Puskin, Cechov o Tolstoi, sia pure non del tutto sobri. L'apporto di fantastico alla vicenda è sempre tenuto a freno ma è comunque costante e soprattutto crescente, come se l'essersi abbandonati alla tormenta trasportasse Raspino e Garin in una mondo sempre meno simile al nostro, anche se stranamente familiare e profondamente russo
Un romanzo che non posso che consigliare a chi ama la narrativa russa e a chi ama un fantastico sornione, quotidiano, quasi – ma solo quasi normale. 


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A questo punto è evidente che seguirà una terza parte alle due finora scritte. Dovrei perdere l'abitudine a leggere, lo so, ma è peggio del vizio del fumo...