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28.7.19

Il Mare Obliquo 24

Klog, Matushka, Plinio e Basso Okme hanno ripreso il loro viaggio e salgono le alte montagne che li separano dalla prossima tappa. Basso Okme ha con sé un libro affidatogli dal Maestro Selestin che molto presto si rivelerà fondamentale per il proseguio del viaggio...
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– Che cos'è quell'oggetto che tieni in mano, Basso Okme? – Chiede Plinio.
L'Uccello-di-Legno, immerso in chissà quali pensieri o fantasticherie, sobbalza. – Un libro magico, me lo ha affidato Maestro Selestin quando siamo partiti. – Spiega. – «Quando sarete molto lontani da qui, quando vi sentirete molto soli e la nostalgia vi sembrerà insopportabile, apritelo.» Mi ha detto. Ed ha aggiunto con un sorriso:«Un libro è sempre la migliore compagnia.»
Klog guarda con sospetto il piccolo volume. – I libri mi ricordano gli istitutori, i sapienti, i bibliotecari, i mercanti di libri: tutta gente pedante e senza fantasia, presuntuosa e chiacchierona. Forse ci avrebbe fatto più comodo una spada magica o qualcos'altro del genere.
Basso Okme scrolla il capo. – E quando ti verrà una gran voglia di tornare indietro cosa farai, Klog? Abbraccerai il tuo pezzo di metallo e te ne sentirai tosto consolato?
– Bisognerà vedere se mai riuscirò a provare la nostalgia che dici. Disarmati o quasi come siamo potremmo non riuscire ad allontanarci abbastanza. Senza contare che mi fido poco delle nostre cavalcature.
– E perché poi? Preferisci proseguire a piedi? – Commenta stizzito Fahgön il cervo che lo trasporta. – Stupido Boldhovin ricordati che ti porto perché me lo ha chiesto la Fata Sibiell e che io avrei preferito di gran lunga rimanere nel mio bosco a pascolare ed a combattere per le femmine.
– A pascolare cosa, Fahgön, l'erba divenuta vetro?– Chiede malignamente Matushka. – Se sei venuto con noi insieme ai tuoi amici un motivo c'è.
– Beh, questo è un altro discorso, sorellina. – Concede l'anziano cervo, scuotendo l'imponenente palco di corna. – Ma comunque non è nostro costume portare gente in groppa come fanno i Denti-Gialli o gli Orecchie-Lunghe, quindi vorremmo perlomeno un po' di considerazione in più.
– Concessa, concessa, per carità. Sapevo bene che i cervi sono permalosi e irascibili ma non credevo… – Inizia a dire Klog, subito interrotto da Bunke, il cervo che porta Plinio:
– Giusti e onorevoli, vorrai dire.
– Giusti ed onorevoli, certo. – Si affretta a dire il gatto. – Come negarlo?
– Infatti, infatti. Mi hai giusto tolto la parola di bocca.– Aggiunge Klog.
La frase del Boldhovin è accolta da un cenno di approvazione di Fahgön che pronuncia una breve frase nella propria lingua allungando il passo.
Nella mezz'ora che segue più nessuno parla. Le loro cavalcature avanzano su uno stretto sentiero scavato nella parete della montagna e solo Bunke di tanto in tanto fa qualche commento acido sulla necessità di trasformarsi in capre o stambecchi per camminare su quel percorso così poco agevole.
A quell'altezza non ci sono più alberi, solo erba giallastra, muschio e pietre. Sotto di loro nella stretta valle i grandi abeti e i castagni fasciati da nebbie impalpabili come ragnatele bagnate di rugiada li osservano immobili, come un gigantesco e scuro esercito pronto a muoversi lento e possente per risalire la parete ripida.
Klog lascia che il suo sguardo vaghi sulla foresta, che la sua fantasia corra lungo il suo confine capriccioso, individuando i comandanti di quella silenziosa armata, i vessilli verdi e grigi che sporgono dalle chiome delle piante più alte, le esili betulle vestite di chiaro che corrono da un gruppo all'altro recando gli ordini dei grandi castagni che li comandano, i piccoli gruppi di faggi che fiancheggiano disordinatamente la grande massa di silenziosi guerrieri, come cavalieri ansiosi di combattere e le grandissime rocce coperte di muschio rossastro, come carri o macchine da guerra. Il sogno ad occhi aperti lo assorbe completamente, tanto che il Boldhovin non si accorge dei profondi strapiombi che si trovano a costeggiare passando su minuscoli sentieri, né vede i massi in bilico che sovrastano il loro cammino.


Al termine della parete una vasta piana limitata dalla corona di picchi li attende, mentre il sentiero si fa più largo e comodo, passando tra grandi rocce cadute disordinatamente sul terreno come scagliate da un Dio rabbioso.
I quattro cervi, Fahgön, Bunke, Dernuf e Og, visibilmente stanchi si scambiano un'occhiata facendo oscillare lentamente i palchi mentre si scambiano frasi nella loro lingua. Al termine della breve consultazione è Og, il più giovane a parlare.
– Abbiamo fame e qui ci sono bacche ed erbe che ci sembrano abbastanza mangiabili, quindi ci fermiamo. Se non vi dispiace vi chiediamo di scendere.
– Certo. – Risponde Matushka scivolando dalla groppa di Dernuf, subito imitata dagli altri tre.
– Mentre i nostri amici si procurano un pasto, che ne direste di fare altrettanto? – Propone Klog intento a compiere una strana danza per sgranchire le gambe irrigidite dalla fatica di tenersi in sella. – Quest'aria così fina mi mette un appetito…
– L'idea non è cattiva. – Concede Plinio ed estrae dalla bisaccia una borsa di cuoio decorata dal complicato disegno di un fiore dai molti petali.
– Che cosa preferite? – Chiede il gatto.
– Per me una trota ai mirtilli rossi con patate al rosmarino ben calde sarebbe ideale. – Risponde Klog.
– Va benissimo anche per me. – Approva Matushka.
– Approvata all'unanimità. Con un buon boccale di sidro. – Conclude Plinio che immerge una mano nella sacca di cuoio traendone una grossa trota fragrante adagiata in un grande piatto ovale in compagnia delle patate novelle.
Mentre tre dei viaggiatori consumano il pasto offerto dalla borsa magica appartenuta a Kerfilluan il quarto, scarsamente interessato a quel tipo di passatempo data l'assenza di stomaco, decide di dare un'occhiata ai dintorni.
Il cielo sopra di loro è di un azzurro tanto lucido e scuro da dare una sensazione inquietante di profondità. «Bello.» Osserva tra sé Basso Okme. «Sarebbe interessante fare di questa sensazione una piccola composizione. Un tre quarti, sicuramente, un valzer lento almeno per le prime misure. Si potrebbe iniziare con un Sol, tenuto per diciamo tre misure, poi un la bemolle, una croma, poi di nuovo Sol, La, Re diesis…» Mentre l'Uccello-di-Legno compone mentalmente la sua piccola sonata procede verso il limite della piccola piana che degrada rapidamente in un canalone che la separa da un'alta parete di roccia. Basso Okme giunge fino al limite del canalone, constata che è profondo diverse e svariate braccia e contempla inorridito per qualche secondo la possibilità di caderci dentro, cosa che che lo induce a fare qualche passo indietro.
Quando distoglie lo sguardo, riportandolo sulla scabra parete di fronte a lui, qualcosa calamita il suo sguardo. La luce solare che nasconde i rilievi della parete procedendo lungo il sentiero, qui cade in modo differente, facendo balzare all'occhio le sporgenze e le irregolarità.
L'Uccello-di-Legno la osserva a lungo con attenzione, inclinando la testa di lato per mettere meglio a fuoco i particolari.
– È una casa, quella. – La voce di Fahgön, giuntogli alle spalle, interrompe l'osservazione di Basso Okme.
– Sì. – Approva l'Uccello-di-Legno inicando le sottili feritoie delle finestre e le torri aguzze, simili a sporgenze stranamente regolari della roccia.
– La rocca di un Notturno, a mio parere. Gli abitanti della casa stanno certamente dormendo.
– Non mi piacciono molto. – Osserva il cervo. – Ma devo ammettere di non averne mai visti. D'altro canto noialtri siamo stanchi e non penso che entro il tramonto saremo riusciti a valicare le montagne. Conseguentemente mi sembra consigliabile passare la notte dietro quei muri piuttosto che affrontarla allo scoperto. 

 
Basso Okme non rileva il tono deciso, tipico del suo popolo, del cervo e dopo qualche secondo di riflessione approva.
– Credo anch'io che sarebbe consigliabile. Andiamo a sottoporre agli altri la proposta.
Il cervo scuote il palco di corna perplesso e mentre accompagna Basso Okme fa alcuni commenti a bassa voce sulla necessità che sentono sempre i bipedi di chiacchierare un po' prima di fare ciò che è evidentemente giusto e confacente. "Disciplina, manca loro la disciplina." Osserva tra sé Fahgön."A stare a sentire quello che ha da dire ogni novellino o ogni femmina si perde solo tempo e si fa confusione. Non è tutto più chiaro se a comandare è chi ha più forza e più peso?" Poi il cervo guarda la fronte vuota e le teste nude dei suoi compagni di viaggio ormai vicini e scuote il capo. "Beh, non si può pretendere troppo dai bipedi testa-nuda."
– Avete fatto una bella passeggiata? – Si informa Matushka, sdraiata a digerire sul morbido muschio.
– Soprattutto una passeggiata istruttiva. – Risponde Basso Okme. – Abbiamo trovato un rifugio per la notte.
Le reazioni alla proposta di bussare alla porta dei Notturni sono di un genere tale da gettare nello sconforto qualsiasi cervo.
– Piuttosto dormo con una di quelle rocce come coperta. – Protesta Klog. – I Notturni sono creature bizzarre e crudeli, volano come pipistrelli ed hanno lo sguardo come spettri.
– Io una notte murata viva lì dentro non la passo, piuttosto cammino fino all'alba di domani. – Prosegue Matushka. – I Notturni sanno di morto e di vecchia polvere, dormirei malissimo.
– Ma in fondo… – Inizia Plinio subito interrotto da Klog:
– TU ci andresti?
– Beh…
– Dillo allora, tu ci andresti?
– La finiamo? – La voce bassa e irata di Fahgön interrompe il Boldhovin. – Noi andremo. Se domani mattina sarete morti di freddo noi continueremo da soli.
Klog fissa il cervo con sospetto. – Ma voi siete tutti d'accordo?
Fahgön lo guarda serio. – È ovvio, io sono d'accordo.
Il Boldhovin allarga le braccia. – Ma come si fa a discutere con voi? –
Il cervo inclina la testa di lato, mostrando una punta di perplessità. – E che bisogno c'è di discutere?
Og, Bunke e Dernuf approvano scuotendo i palchi di corna.
Klog li guarda uno per uno aggrottando la fronte ed emette un lungo sospiro. – Nessuno mi aveva avvertito. – Commenta tra sé a mezza voce.
– E va bene, allora muoviamoci. – Matushka si alza in piedi scuotendosi di dosso i frammenti di muschio secco. – Bella democrazia! Vero che ci andrai tu, Plinio a disturbare i morti?
Il gatto la guarda calmo ed indica il sole non troppo lontano dal limite dell'orizzonte. – Guarda che Basso Okme e Fahgön hanno ragione, non abbiamo più di due ore di luce e non possiamo arrivare a valle in così poco tempo.
– Va bene, va bene! Sbrigati allora, vai a chiamarli.
La piccola brigata arriva fino al bordo del crepaccio e qui si ferma.
– Qualcuno ha pensato come fare ad arrivare di là?– Chiede sarcastico Klog.
Plinio annuisce con un lento cenno del capo. – Sicuramente hanno un ponte levatoio. Il problema è quello di farlo abbassare. 

 
– Già. Potremmo suonare una tromba se ne avessimo o mandare un messaggero volante per farci annunciare. – Commenta Matushka. – Oppure possiamo metterci ad urlare come disperati fino a quando gli occupanti del castello non decideranno di prenderci a sassate.
– Trombe… – Dice a mezza voce Basso Okme. – Che io sappia i Notturni sono molto amanti della musica.
– E con questo? Vuoi presentarci tutti, cervi compresi come musici? E gli strumenti? – Klog si porta due dita alla bocca. – Potrei fare un concerto a forza di fischi, volendo, ma dubito che incontrerebbe il favore dei gentili ospiti.
L'Uccello-di-Legno non gli risponde ed estrae dalla capace bisaccia di Plinio il piccolo libro donatogli da Maestro Selestin. Lo apre con cura, lo sfoglia per qualche istante poi con un leggero movimento tira la funicella di seta che funge da segnalibro.
Immediatamente dalle pagine del piccolo volume si levano forti e nitide le note della "Sinfonia del Lago d'Autunno" composta da Bariton'Onodio molti anni prima.
Per qualche minuto non avviene nulla e la struggente melodia dell'oboe echeggia nell'intera valle, lenta ed estenuante come le piccole onde delle acque autunnali finché un'alta sezione della parete si stacca dallo sfondo, scendendo lentamente verso il crepaccio fino a formare un largo ponte sul quale la piccola compagnia si avvia esitante.

8.7.19

Il Mare Obliquo 20

Nerthurok è il nome di una sconosciuta malattia che lentamente sta colpendo gli alberi e Klog e i suoi amici saranno presto chiamati dai Silvani a battersi per i fratelli immobili
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Quando Plinio ricompare, dopo un'assenza di quasi mezza giornata non ha la consueta espressione placida e pensosa, ma è nervoso e brusco. E questo non è il solo particolare inconsueto della sua apparizione: egli è tornato infatti alle sembianze umane di un boscaiolo dalla fitta barba grigia.
– Finalmente, eccoti qui stupido micio. Dove ti eri cacciato? – Lo apostrofa Matushka, comodamente sdraiata all'ombra fresca di un castagno.
– Ci sono novità. – Ribatte il gatto senza nemmeno preoccuparsi di replicare all'insulto ricevuto.
– Ah. – Commenta Klog. Le novità a Canddermyn in genere vogliono dire guai, questo il Boldhovin l'ha imparato a sue spese cosa che non lo rende particolarmente ansioso di essere informato.
– Ah, sì e che novità sono? – Matushka si è sollevata sulle quattro zampe ed annusa l'aria intorno a sé con le orecchie basse sulla testa.
– Non belle.
– Uffa e la vuoi finire con tutti questi misteri? – Sbotta Klog. – L'esercito di Artamiro sta attraversando il bosco? L'associazione dei maghi sta venendo a vendicarsi per conto di Tiatikenn? Sono tornati gli Antichi Primi affamati di sangue? O cos'altro ancora?
Plinio soprappensiero annuisce e continua a tacere.
– Perchè approvi? Sono forse vere tutte le cose che ha detto Klog?
– Eh? No, nessuna di esse Matushka. Il fatto è che mi sto chiedendo chi…
– Plinio, la vuoi smettere di cincischiare? Parla maledizione. – Strilla il Bodhovin esasperato.
– Le piante di Canddermyn, ne ho trovato alcune morte. – Spiega infine il gatto. – Piante giovani, che non avrebbero avuto nessun motivo di morire. E poi è strano il modo in cui sono morte, sono come pietrificate, cristallizzate, non saprei in quale altro modo spiegarmi. Ho incontrato un Silvano che sostava vicino a loro, ma non ha saputo dirmi che cosa stava accadendo. Nessuno sa riconoscere i moti dell'animo di un Silvano, ma la posa, i modi di quello che ho incontrato lasciavano trasparire una forte angoscia, quasi disperazione
– Ma cosa avevano quelle piante, cerca di spiegarti meglio. – Insiste Matushka.
– Non è facile. Sui loro tronchi la luce del sole fa brillare piccoli cristalli ed il legno è cambiato, è divenuto più chiaro, del colore del granito bagnato. Le foglie, poi, sono bianche, quasi trasparenti come sottili lenti di vetro e la debole brezza che spira nel bosco non riesce più a muoverle. Sono divenuti bellissimi quegli alberi, sono quasi un monumento in pietra e cristallo alla meravigliosa grandezza della vegetazione. Ma sono anche orribili, spaventosi e da loro spira un aria, un sentore, qualcosa che non saprei descrivere nemmeno se disponessi di tutte le parole di tutte le lingue del mondo, qualcosa di profondamente maligno, di soprannaturale. Ho provato ad attraversare lo spazio teso tra quegli alberi ma sono fuggito con il pelo ritto e le orecchie basse: l'aria vicina a loro è più densa, più fredda ed i rumori vi arrivano distorti, remoti, come può udirli uno spettro o un morto senza pace.
– Forse si tratta di qualche malattia della quale non abbiamo mai sentito parlare. – Azzarda la piccola volpe in tono assai poco convinto.
– No. – Il gatto scuote la testa con forza. – Noi possiamo non conoscere molte delle malattie delle piante, ma i Silvani le conoscono tutte. La cosa più grave è che gli alberi vicini sembrano colpiti da una forma incipiente dello stesso morbo, le loro foglie sono sensibilmente più pesanti ed il tronco dà un suono bizzarro a percuoterlo: il rintocco di una campana sommersa. Dalhak, il Silvano che ho incontrato sembrava spaventato ed impotente quanto me ed ha detto solo una parola che non ho mai udito per commentare quell'orrore: Nerthurok.

– Nerthu nella lingua dei Silvani significa la Morte dolorosa data dalle fiamme. – Azzarda Klog.
– E Hurok? Cosa significa Hurok? – Chiede Matushka.
– Non lo so. Hurr significa acqua piovana ed Hurin acqua stagnante, ma Hurok non l'ho mai udito. La lingua dei Silvani non è come quella degli altri popoli. Inventano spesso parole e quando uno di loro ha pensato una parola nuova istantaneamente tutti gli altri la sanno. La lingua che scelgono di parlare con le altre creature cambia continuamente e continuamente si arricchisce di nuove parole. La devono usare per lasciarsi comprendere, ma loro non hanno bisogno di parlare tra loro come tutte le altre creature. Le parole sono un divertimento, forse, per loro, o una fatica: un modo stentato e penoso di raccontare cose che loro sentono con un'intensità che per noi è impensabile…
Klog si interrompe: Plinio e Matushka lo ascoltano con un'attenzione così intensa da farlo sentire a disagio.
– Perché ti fermi, Boldhovin? Era molto interessante. – Dice Matushka.
– E poi forse in quella parola c'è la chiave per comprendere. – Aggiunge Plinio.
Probabilmente avete ragione. Ma l'unica idea che mi viene in mente è quella di chiedere ad una fata. Loro talvolta capiscono le parole dei Silvani anche se non le hanno mai udite prima.
Facciamo così. Andiamo a cercare Sibiell, presto. Ho paura che non ci sia troppo tempo.
Plinio ha fretta e la cosa è ancora più strana e preoccupante della pur spaventosa notizia che il gatto ha portato. Senza aggiungere altro il Boldhovin e la volpe si affrettano a seguirlo.


– Nerthurok? No, non ho mai udito questa parola. Nè ho mai udito della strana malattia che coglie le piante. Eppure qualcosa ho sentito, una vibrazione forse, un brivido. Una rottura, come il mondo avesse superato un confine, un limite. Ecco, è stato come per un attimo fossi stata nel Mondo-fra-Molti-Istanti.
– Nulla può vivere nel Mondo-fra-molti-istanti. – Sentenzia Maestro Selestin. – Così sta scritto nei libri di Kerfilluan. Quel luogo non ha leggi né equilibrio, tutto è possibile e insieme tutto è impossibile perché l'albero dei destini di ogni cosa si è confuso fino ad una follia talmente impensabile da non permettere che nulla abbia forma o sostanza… – L'uccello di Legno si interrompe. – Sibiell cosa stai pensando?
– Mastro Selestin la mia natura soffe e si ribella, ma io devo pensare, devo credere che qualcosa o qualcuno abbia chiamato a Canddermyn il Mondo-tra-molti-Istanti. – La fata è pallida come un fantasma mentre pronuncia quelle parole e le sue dita sottili si stringono e si torcono come se un'intollerabile tensione scuotesse la sua mente.
Klog la guarda spaventato e quasi grida. – No, fata Sibiell, non pensare, non preoccuparti, resta fedele al tuo mondo!
La fata ride: una risata affrettata e convulsa. – È proprio quel mondo che rischia di morire, Klog, non lo capisci? Io devo pensare, devo trovare… devo! Jee siluan Thiemenee, Duwaldee, Gadlhi, gadhli… – Sibiell ha nascosto il volto tra le mani mentre dalle sue labbra escono accavallandosi, sovrapponendosi nella fretta e nel dolore le scintillanti, fragili parole della sua lingua che lo sforzo rende dolorose ed acuminate come cristalli o frammenti di vetro.
– Non interrompetela! – Ordina a bassa voce Mastro Selestin. – A questo punto, probabilmente, le fareste più male che bene.
…Jee siluan FIEDUIN! – Urla infine Sibiell, accasciandosi a terra come colpita da un fulmine.
Klog e Plinio si affrettano a raccoglierla ed a deporla sul letto.
– Sibiell, mi senti Sibiell? – La chiama Matushka, tornata anch'ella ad assumere forma umana, cercando di ricacciare le lacrime che le velano la voce.
– Sibiell, fata Sibiell? – La chiama Klog, chino sul suo viso.
– Klog, Matushka, perchè urlate in questo modo? – La voce della fata è debole come un soffio di brezza che fa oscillare le lunghe canne della palude ed il suo volto è del colore della cera, ma un sorriso trionfante la illumina. – Ce l'ho fatta. Devo affidarvi una missione, ora, poi sarò nuovamente libera.
Plinio le si avvicina – Parla, Sibiell. Comandaci quello che vuoi.
– Fieduin la Pietra è la risposta. Non è distante da qui, ma per poterlo chiamare dovete avere una Pietragemella. I Silvani ne posseggono molte, ma ne sono gelosi. Dovete andare da uno di loro e dirgli che Sibiell reclama una Pietragemella per il suo Giardino.
– No, Sibiell. Dovremo farne senza. – Klog scuote la testa con forza. – Fiedin o come diavolo si chiama parlerà anche senza, te lo giuro.
Plinio e Matushka annuiscono con forza ma Sibiell fa un lento cenno di diniego. – No, Fieduin non vi risponderà.
– Ma Sibiell, tu sai che un fata può chiedere una pietragemella solo una volta nella vita. – Continua il Bodhovin. – E dopo che l'ha reclamata…
– Sì, Klog, lo so. Dopo che l'ha reclamata comincerà a morire. Lo so. Ma non posso comunque vivere… in quel mondo. In fondo altre fate sono morte dopo aver reclamato la loro pietragemella e i loro ultimi giorni sono trascorsi felici e lievi come nuvole dell'alba. Nessuno può dire quanto sarà vicina la mia morte dal momento che riceverete la mia pietragemella e questo è ciò che accade anche alle altre creature. In genere le fate la chiedono quando sono stanche dei loro giorni e chissà, forse anch'io in fondo sono stanca. Andate ora, non perdete un solo istante.
– Sibiell. – A parlare ora è Mastro Selestin, e la sua voce è cupa e solenne come una nota d'organo. – C'è una parola che io possa dirti per fermarti?
– No. – Risponde la fata.



– Noi siamo qui per… reclamare la Pietragemella della fata Sibiell. Per il suo Giardino.
Il Silvano annuisce lentamente e chiude gli occhi.
– Dovresti consegnarla a noi. Dobbiamo recarla alla presenza di Fieduin. – Continua Matushka con voce incerta. – Per salvare Canddermyn.
– Io-Noi sappiamo, piccola Edrin. – Il Silvano esita per un attimo, come se si sforzasse di sorridere. – La custodisce Quedhe e ora la porterà.
Il Silvano tace. Dietro di lui ve ne sono altri, quanti nessuno di loro ha mai veduto insieme. I loro volti non esprimono né timore né altre emozioni, ma il fatto stesso di trovarli riuniti, come se temessero di perdersi, è una cosa singolare, inquietante.
Un silvano che si muove molto lentamente, con il volto coperto da una lunga lanugine verde si fa largo tra i suoi fratelli, portando in mano un piccolo oggetto. Klog lo osserva affascinato, ormai per Quedhe non deve essere troppo lontano il tempo delle Radici ed il suo incedere bizzarro, fatto di passi brevi e di lunghe pause, quasi cercasse di ascoltare la terra scura che lo attende, ne è un eloquente prova.
– Questa è la Pietragemella di Sibiell. – La voce del Silvano è tanto profonda e bassa da essere quasi inaudibile. – Io-noi l'abbiamo custodita per lei.
– Grazie. – Dice Klog, ma il Silvano si è già voltato per allontanarsi, come se parlare per lui fosse inutile.
– Grazie ancora e arrivederci. – Saluta Matushka.
I Silvani immobili non rispondono. Il cielo è del colore del peltro e l'aria stessa sembra vibrare debolmente come un tamburo percosso da un demone.

Salvate i Fratelli Immobili, Salvate ogni cosa

Quel pensiero si forma per un attimo nella mente di Klog, di Plinio e di Matushka, accompagnato dalla visione di una terra spoglia, coperta di vapori velenosi, dove, in mezzo a rocce calcinate e fessurate, giacciono i cadaveri secchi e fragili di milioni e milioni di alberi.
Klog chiude gli occhi per cancellare quell'immagine, pur sapendo che non potrà mai più dimenticarla. Si volta ancora una volta per guardare i Silvani ma inutilmente, dietro di loro c'è soltanto una radura vuota.
– Odio la pioggia. Credo che non ci sia null'altro al mondo che odio di più. – Borbotta Plinio, ma nessuno si prende la briga di rispondergli.
– Manca ancora molto? – Gli chiede Klog.
– Spero di no. Ce l'hai sempre la pietragemella?
– Certo. – Replica offeso il Boldhovin. Già, la pietra: il Boldhovin apre un poco la borsa per assicurarsi che non si sia mossa di lì e al tatto la riconosce. È stranamente tiepida ed arrotondata, come il profilo di un volto o di un seno e sembra impossibile arrivare a toccare la sua superficie scabra e secca: un debole fluido la circonda confondendo i sensi di chi la sfiora.
– Ma chi sarà mai questo Fieduin? – Chiede Matushka.
– Una creatura talmente vecchia da far sembrare cosa di ieri anche gli Antichi Primi. – Spiega Plinio. – Dicono leggende antichissime che prima di ogni altra razza l'Orlo del Mondo era popolato da Giganti di Cristallo, uccisi dal Gran Dio degli Antichi Primi perché il loro cuore era freddo ed immobile come roccia.
– Splendido. – Osserva Klog. – Ed è ad una di quelle creature che noi andiamo a chiedere aiuto?
– Temo di sì.
– Ma che ne è stato dei loro corpi? Perché non vi sono più tracce di loro? – Chiede Matushka.
– Tracce ve ne sono quante ne vuoi, Matushka. – Il gatto indica la corona di alte montagne avvolte nelle nuvole che chiudono il loro passaggio. – Ecco lì i corpi dei giganti di cristallo, coperti di buona terra e di boschi perchè noi avessimo cibo e aria da respirare.
La piccola volpe starnutisce. – E io dovrei credere ad una simile storia? Montagne che camminano, parlano e combattono?
– Sei libera di credervi o di non credervi, Matushka, ma se ti metterai a scavare sotto la terra e la roccia troverai le loro ossa di cristallo e le loro unghie divenute gioielli. – Plinio ride. – O almeno così si dice. –
– Lo vedi, stupido gatto che stai cercando di imbrogliarmi? Montagne che camminano, bah!
Klog non partecipa al battibecco. Qualcosa in fondo alla sua mente palpita lentamente, come se il legame che ha sentito per un attimo con i Silvani in lui non si fosse del tutto spezzato. «In fondo qualcosa di loro in me esiste da quando sono un pelosetto.» Sta pensando il Boldhovin. «Uno di loro, anzi tutti loro sono i miei padri. Padri assai poco solleciti, per la verità.» Cerca di scherzare tra sé Klog, ma i suoi pensieri sembrano incapaci di abbandonare l'immagine che essi gli hanno regalato. È la prima volta che accade e quella sensazione non è facile nemmeno da riconoscere per lui, ma Klog ora sente di fare finalmente parte di qualcosa, di non essere solo un cucciolo rissoso e giocherellone.
– Hanno fiducia, ecco cos'è. – Conclude ad alta voce.
Matushka lo guarda aggrottando le sopracciglia. – Begli incoscienti. 

 

16.6.19

Il Mare Obliquo 16

Dopo la faticosa lotta, Klog il boldhovin e i suoi amici si riposano in una locanda poco frequentata ma che gli abitanti del bosco di Canddermyn conoscono molto bene. È il momento per conoscere le gwellyniun e per ascoltare una storia dimenticata.
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 – Ma come sono le fate? Intendo dire nella loro vita di tutti i giorni, cosa pensano, sognano, desiderano?
Il boccone che pacificamente stava compiendo il suo tragitto diretto alla bocca del boldhovin si ferma a mezz'aria ed il proprietario della mano che lo sorregge insieme alla forchetta sgrana gli occhi verso il suo interlocutore. – Sul mio onore questa è una ben strana domanda, Basso Okme. Non conosci forse Sibiell ed i suoi amici seduti qui alla nostra tavola?
L'Uccello-di-Legno si stringe nelle spalle con un buffo movimento a singhiozzo. – Non posso dire di conoscere bene Sibiell. Nessuno può mai vedere una fata se non quando è ella stessa a decidere di mostrarsi e nulla si sa di loro se non quanto sono loro stesse a dire. Una fata è una creatura volubile e bizzarra come la brezza vespertina e nessuno riesce mai ad indurla a discorrere dello stesso argomento per più di pochi minuti.
– È vero. – Conferma Matushka nella sua veste originale, seduta sul tavolo davanti ad una scodella di zuppa. – Sibiell è matta come tutte le sue simili, anche se è molto gentile con noi due che chiama i suoi familiari. Io sinceramente non credo che faccia altro che cantare, danzare, intrecciare amori con i Silvani, raccontare storie meravigliose, comporre ghirlande ed altri oggetti fragili ed inutili e bere tisane parlando delle doti dei suoi amanti con altre fate.
– Matushka! – Insorge Plinio, acciambellato su una vecchia poltrona davanti al caminetto. – Le fate come Sibiell hanno una quantità di compiti che noi ignoriamo, doveri, responsabilità, tristi pensieri…
– Quali per esempio? – Lo interrompe Basso Okme.
– Beh, ecco… Ora di preciso non saprei dire, ma senza dubbio… Insomma avranno qualcosa di cui preoccuparsi anche loro come tutti no?
– Risposta insufficiente. Per quanto ne so la parola «preoccupazione» non esiste tra le fate, proprio nel suo senso di «occuparsi prima» o ha un significato molto diverso.
– Hai ragione Basso Okme. – Interviene Matushka – Non ho mai visto Sibiell affannata o nervosa o appunto, «preoccupata». Ma perché non lasciate parlare Klog, che è l'unico di noi ad avere una conoscenza approfondita delle fate?
Klog che nel frattempo sta ricevendo dalle mani dell'oste la seconda scodella di patate arrostite nel fuoco del caminetto e profumate con ginepro, erba cipollina, scalogno e rosmarino, sussulta come uno scolaro pizzicato dal maestro e guarda accorato le sue adorate patate.
– Non voglio essere scortese, miei cari amici, ma si tratta di una ben lunga chiacchierata e temo che di essa avrebbero a soffrirne queste meravigliose patate. Non potremmo rimandare al termine della cena?
– Vergogna, Klog. La metà della bellezza di una cena in compagnia sta nel conversare e l'altra metà sta nell'ascoltare la piacevole conversazione. Se ne deduce che le tue patate non esistono. Quindi puoi parlare senza remore.
Il boldhovin guarda con dispetto l'uccello di legno ed annusa la scodella. – Non esistono, eh, vecchio uccellaccio? Magari per te che al posto dello stomaco hai ragnatele e polvere, ma per me che ho sconfitto i temibili Syerdwin… Va bene la smetto. Allora, come tutti sapete le Gwellyniuin sono creature di aria, nate dal vento, dai fiori e dalla rugiada o almeno così si racconta. Mia madre Armelinda non mi ha mai fornito schiarimenti su questo né io ne ho mai chiesti. In realtà devo ammettere che mia madre non ha mai dedicato alla mia educazione neppure un pensiero. Se volevo potevo seguirla altrimenti ero libero di andare dove desideravo. Una condizione ben graziosa per chiunque soffra per una madre troppo apprensiva e soffocante, ma alla fin fine ben strana. È sconcertante chiedere alla propria madre. «Posso arrampicarmi su quell'albero altissimo e penzolarmi giù come una scimmia?» sentendosi rispondere: «Certo», oppure «Posso attraversare a cavalcioni su un tronco quel corso d'acqua impetuoso?» ed avere per risposta:«Ti prego, Klog, non annoiarmi con queste piccole faccende. Fai ciò che vuoi.»
Allora, quando le gwellyniuin e le altre creature del bosco mi chiamavano «pelosino» mi sono spesso sentito molto solo ed abbandonato, tanto che mi era passato il desiderio di fare tutte le sciocchezze che fa qualunque cucciolo. Stavo seduto su un vecchio albero, imbronciato, a tirare pigne in testa a tutti quelli che passavano ed a fare domande ad un vecchio tasso che abitava in un buco nella corteccia… 

 
– Un tasso! Io odio i tassi, sono così stupidi, pedestri, invadenti, goffi e incivili! – Si intromette Matushka. – Parlano solo per dire cose banali come «passami il sale», «fatti in là» oppure «oggi pioverà». Io non perderei nemmeno un minuto per parlare con un tasso. Sì, lo so, nessuno ha chiesto il mio parere, ma ci tenevo che sapeste quanto valgono i tassi, ecco.
– Grazie, Matushka. Puoi riprendere ora Klog? – Commenta Plinio con un lungo sospiro.
Il boldhovin che ha approfittato dell'interruzione per riempirsi la bocca di patate, beve un lungo sorso di birra e guarda tristemente la sua scodella.
– Beh, era molto interessante ciò che diceva Matushka. Io comunque non ho detto che il tasso mi rispondesse volentieri, ho solo detto che gli parlavo. Il più delle volte Grial, questo era il suo nome, mi ignorava o sbuffava come una teiera e solo di tanto in tanto mi rispondeva con strane frasi che mi obbligavano a ponzare per delle ore. Una volta gli ho chiesto «Ma è giusto che le Gwellyniuin ignorino così la sorte di noi pelosini?» Ed egli mi ha risposto: «Solo chi non è contento di se stesso fa continuamente domande stupide.» In quell'occasione ho pensato per tre giorni di seguito senza più parlare né con Grial né con nessun altro. Credo che questo fosse il suo scopo, tutto sommato, ma i suoi indovinelli mi hanno fatto bene. In capo a tre giorni avevo trovato la risposta alla mia stessa domanda ed era una ben strana risposta… Scusate.
Il Boldhovin si china sulla sua scodella mentre Edalan l'oste versa birra e latte nelle scodelle di tutti, fatta eccezione per Basso Okme, Bariton'Onodio e Maestro Selestin che non vivono di cibo materiale ma di musica e riflessioni profonde.
– Dicevo: la risposta era ben strana un po' perché credo fosse la prima riflessione vera che facevo un po' perché riguardava la natura stessa delle Gwellyniuin. Molte volte avevo avuto prove del fatto che la Fata Armelinda mi amava, un po' per i suoi baci, un po' perchè mi stringeva al suo petto che sapeva di fiori, d'erba e di vento e giocava con me come una bimba, un po', infine, perché non mancava di farmi raccomandazioni o raccontarmi delle strane cose che vivevano e soffrivano nel grande arco del mondo. Ecco il fatto è che le fate sono creature del Vento e come il loro padre non hanno casa né confini, qualcosa da conquistare o qualcosa da perdere. Esse passano, come ogni cosa di questo mondo senza preoccuparsi di lasciare un segno, un ricordo, senza costruire né distruggere, senza fare del male e senza fare del bene. La loro mente non si ingombra di progetti né di ricordi: esse sono il Presente e anche quando fingono di parlare del Futuro o del Passato lo fanno solo per assaporare il momento nel quale parlano o ascoltano. I loro discorsi non hanno inizio né fine e non vanno in nessuna direzione, sono fatti per incantare e divertire, per stupire e per giocare. Nella loro lingua non esistono parole come «dovere» o «obbligo», ma nemmeno «dubbio» o «rimorso». Quando ho capito questo, ed ero un pelosino non più tanto piccolo, ho provato un grande affetto per mia madre Armelinda che non ha mai cercato di rendermi diverso da come sono, non ha mai cercato di guidare le mie emozioni né i miei pensieri, lasciandomi libero come nessun'altra madre avrebbe saputo fare. 

 
– Scusatemi ma è un ben strano modo di amare, questo, messer Klog. – L'oste Edalan sedutosi al loro tavolo, l'unico occupato nella «Locanda della Felce d'Argento», ride e solleva la caraffa per versargli altra birra. – Mia madre, Donna Leonora di Ranvessel, era più prodiga di sberle che di parole con me, eppure non credo di essere venuto su particolarmente male ed ora ringrazio e benedico la sua mano ossuta e legnosa che mi ha insegnato i doveri, gli obblighi e quanto serve a fare di un ragazzo un uomo. Scusatemi, ma penso che se voi siete una creatura di cuore nobile e di mente agile questo si debba alla vostra indole e non al luogo dove siete nato e cresciuto.
L'oste è un uomo grande come un lupo-drago, dai capelli color del miele e dalla barba folta di una sfumatura di un colore leggermente più scuro. Ha occhi grigi come una mattino nebbioso e qualcosa nel suo passo, nel suo modo di muoversi e di sorridere sprigiona un'istintiva simpatia e fiducia, evoca la quiete di una serata trascorsa a chiacchierare davanti al caminetto mentre fuori il vento e la neve scuotono la terra. Klog annuisce educatamente alle sue frasi, cercando di capire se il dubbio che l'ha colto dal momento in cui ha visto per la prima volta l'oste corrisponda alla realtà oppure no.
– Non posso negare che vi sia del giusto nel vostro discorso Mastro Edalan, ma non è detto che si debbano percorrere le stesse strade per giungere nello stesso luogo. La natura di mia madre era quella che ho appena descritto, simile a quella di tutte le altre fate che ho conosciuto. Se esse nascano così o lo diventino stando con le altre gwellyniuin non saprei dirlo. So di fate che finiscono con l'invecchiare vivendo con le altre creature, che divengono amare e maligne e dimenticano la loro lingua, imparando a pensare con quella dei Syerdwin o degli Uomini. Questo dimostrerebbe che la loro natura non è così definitiva come sembra, cosa in fondo vera per noi tutti. Io ho quasi dimenticato la loro lingua, che ahimè non serve nel mondo dei re e dei mendicanti. A che pro dire «Le tue parole disegnano un lungo, tiepido momento, simile al colore del tuo diadema di petali e di profumo.» Così non parlano neppure gli artisti, tra la gente.
– Disegnare, «durwaldee». – Interviene Maestro Selestin. – È uno dei pochi verbi delle Gwellyniun, ho sentito dire. Esse non hanno quasi verbi, non vogliono mai, ma assistono, guardano e giocano. Se solo potessi trasformare in musica la loro lingua sarei il musicista più felice del mondo e tutti verrebbero ai nostri concerti per provare la felice singolarità di ogni momento, che adesso ingoiamo di fretta, senza appetito e senza piacere.
– Tu sei un vero saggio, Maestro Selestin, e la tua musica possiede già questo dono. – Edalan solleva la coppa ed indica l'anziano uccello-di-legno. – Io bevo al migliore dei musicisti ed al più saggio degli uccelli. Chi è d'accordo con me beva, altrimenti affoghi.
Come un sol uomo tutta la numerosa compagnia alza la coppa o tuffa il muso in una ciotola per festeggiare a gran voce Selestin e persino gli altri due uccelli-di-legno presenti fingono di bere per onorare il loro maestro
– Bene! E adesso che abbiamo giustamente festeggiato il così degno Selestin vorrei chiedere agli altri se il racconto di Klog ha esaurito l'argomento o no. – Continua l'oste. – Se qualcun altro ha qualcosa da aggiungere lo faccia subito: la notte è ancora giovane.
– Io mi ritengo soddisfatto. – Dice Basso Okme. – Sibiell e le altre fate non avrebbero potuto essere meglio descritte di come il boldhovin ha fatto parlando di sua madre Armelinda. Le gwellyniuin hanno il dono della felice inconsapevolezza che è comune al pazzo come al saggio. Se il mondo dovesse perderle sarebbe una ben grave perdita.
– È vero. Le fate amano senza chiedere in cambio nulla, senza pretendere nulla, senza gelosia e senza dolore e insieme non sono di nessuno, nessuno le possiede. Un po' come noi gatti.
Chiunque conosca un poco i gatti sa quando stanno sorridendo ed in quel momento Plinio sta proprio sorridendo, la pancia piena e la groppa riscaldata dal fuoco.
Klog approva e si volta verso Edalan, aspettandosi di incontrare il suo sguardo pieno di calore e di simpatia. Ma l'oste si è rabbuiato, i suoi occhi si sono fatti remoti e inespressivi, come se cercassero di celare violente emozioni.  


– È assolutamente vero, Plinio, e rendo omaggio al tuo acume ed alla tua sfacciataggine. Ma le tue parole mi hanno ricordato una storia così antica che dubito che qualcuno qui abbia mai sentito…
Anche se voce di Edalan suona allegra e potente come sempre Klog avverte in essa un'incrinatura sottile, come un cristallo che abbia perduto la sua leggerezza.
– Racconta, racconta! – Lo scongiura Matushka. – Le tue storie sono sempre così affascinanti.
– In questo caso mi duole di non ricordare una storia più allegra, ma anche di queste storie è fatta la vita. Un tempo, non lontano da qui, viveva un potente mago. Il suo nome era Holmen il Luminoso ed egli era giovane allegro e tanto abile dall'essere divenuto mago ad un'età nella quale la maggior parte degli apprendisti stanno ancora faticando tra provette, alambicchi ed antichi volumi. Il suo maestro era un mago anziano, poco noto, di nome Lanneberd. In quel tempo il seme dei Notturni non si era ancora indebolito ed egli era un Neek, cioè il figlio di un Notturno e di una donna umana. La magia dei Notturni è la più potente e la più segreta del mondo, ma il suo maestro la conosceva in buona parte, come era costume per i Neek che, seppure già molto meno numerosi che nei tempi antichi, erano ancora forti e possedevano terre e castelli. Holmen, addestrato di nascosto alla potente magia dei Notturni, era ben presto divenuto uno dei maghi più richiesti e più amati nel vasto arco del mondo. I Syerdwin, i Gu'Hijirr, gli Uomini, i Lupi-Drago lo conoscevano e lo stimavano ed i loro Re e Signori lo chiamavano nei quattro angoli del mondo per salvare raccolti, catturare rari animali, togliere fatture di maleficio, curare i mali della mente e del corpo, conquistare il cuore di fanciulle o liberarsi di amanti divenuti sciocchi e noiosi. Non aveva mai il tempo neppure di riposare Holmen e soprattutto non aveva più il tempo per riflettere, meditare. Giovane, potente, ricco, sicuro di sé, egli era l'incarnazione della buona sorte, della fortuna e tanto aveva udito ringraziamenti e benedizioni che la sua stessa non comune intelligenza non riusciva più a tener dietro alla vanità ed alla sicumera. Poi un giorno, al culmine della potenza e della fama, mentre si allontanava dalla Foresta Sacra di Anndhuil, dove era stato eletto dagli altri maghi nel Settimo Segreto della loro Gilda, una carica che mai nessuno della sua età aveva ricoperto a memoria del Mondo, incontrò una povera creatura, un bimbo d'uomo che piangeva desolato appoggiato ad un albero.
«Che hai, bimbo?» Egli chiese, ma il piccolo non rispondeva. Poi, con infinita pazienza lo indusse a confidarsi ed il bimbo gli disse che sua madre adottiva, una Gwellyniuin, stava morendo. La sofferenza delle fate era un fenomeno bizzarro e singolare, talmente unico che Holmen sentì che quell'incontro era una sorta di sfida che il destino metteva sulla sua strada, un sigillo alla sua grandezza che credeva senza limiti.
Seguendo il bimbo giunse alla casa della fata e la trovò adagiata su un letto di petali di fiori e di teneri germogli, con gli occhi chiusi, pallida come la morte stessa. Non era la prima volta che incontrava una fata, ma quella era di una bellezza talmente abbagliante e perfetta che Holmen cadde innamorato di lei senza speranza e senza memoria di altre donna conosciute prima. La fata si svegliò dopo pochi attimi, avvertendo la sua presenza e gli sorrise. «Buongiorno, mago Holmen.» Disse e quelle parole, pronunciate dalla labbra esangui della fata, simili a petali di rosa bianca, furono il lucchetto che chiuse per sempre la serratura del cuore del Mago. Holmen non avrebbe mai più potuto innamorarsi di un'altra creatura in questa o in un'altra vita. Senza perdere tempo egli estrasse dalla sua borsa magica tutti i suoi strumenti e le sue pozioni, anzi, fece di più: fece divenire la sua borsa una porta che si apriva sul suo laboratorio in modo da poter disporre di quanto gli serviva e si mise al lavoro. Il bimbo, orfano di due boscaioli che vivevano ai bordi della foresta si mise immediatamente al suo servizio e Holmen non ci mise molto a capire cosa avesse fatto ammalare Loredil la Gwellyniun. Ella era preoccupata, semplicemente preoccupata per la sorte di quel povero bimbo ed il pensiero del suo futuro in un mondo che non aveva pietà dei bambini. Ella aveva fatto violenza alla sua natura per prenderlo con sé ed ancor più ne faceva preoccupandosi del suo destino. D'altro canto il bimbo, di nome Eld, non aveva mai avuto una madre così bella, allegra, fantasiosa, capace di raccontare fiabe così meravigliose e rispondeva con tutto il suo affetto a tanta attenzione. Il problema non era facile, come si vede. Holmen avrebbe potuto ridare la salute alla fata solo allontanando da lei il bimbo, ma così facendo avrebbe spezzato il cuore di entrambi e non avrebbe mai potuto ricevere l'amore della fata. 


 
– Bel problema, non c'è dubbio. – Osserva Bariton'Onodio. – Perlomeno all'altezza della sua abilità.
– Infatti. Ma per quanto si scervellasse Holmen non riusciva a trovare soluzioni ed il bimbo, vedendolo tanto prodigarsi aveva preso ad amarlo come un padre, rendendogli impossibile allontanarlo da lì per salvare la vita di Loredil. La sua amata tuttavia, forse per le sue cure o meglio per i motivi che fra poco vi dirò, sembrava migliorare, sia pure debolmente. Lentamente i suoi occhi riprendevano lucentezza, il suo incarnato colore, le sue membra forza. Nel vedere che i suoi rimedi avevano qualche effetto Holmen prese a prodigarsi anche più di prima e Loredil ogni giorno sembrava stare meglio del giorno precedente. L'unico neo della cosa era che ella ora trattava con distrazione e senza attenzione il piccolo Eld, che sempre più spesso trascorreva il suo tempo con Holmen. D'altro canto anche verso il mago il suo atteggiamento era cambiato. Ora ella rideva spesso della sua serietà, lo canzonava quando egli parlava d'amore, raccoglieva fiori e sorrideva senza rispondere quando lui le apriva il suo cuore per descrivere i suoi sentimenti. Holmen continuava, perplesso a somministrare alla fata le sue pozioni, ma qualcosa in lui si era come spezzato: il sorriso con cui lei l'aveva accolto non era mai più tornato sul suo volto ed ora gli tornava alla mente ogni istante, egli lo paragonava ai sorrisi distratti o buffi che ora lei gli indirizzava ed ogni volta era come se una freccia si piantasse nel suo cuore. I suoi sonni si fecero agitati, dolorosi e i risvegli rabbiosi e cupi. Giunse ad odiare la sua levità, le sue piccole vanità, il suo infantile ridere di ogni piccola cosa ed egli divenne geloso di ogni momento che ella viveva da sola. A tratti sul volto di lei si accendeva nuovamente quel sorriso e quello sguardo ed in quei momenti Holmen ridiventava l'uomo più felice del mondo, ma quei momenti duravano poco perché egli non si saziava mai di quei pochi istanti e cercava disperatamente nuove conferme del suo amore che la fata, distratta e immemore, non poteva dargli.
– Ma come poteva ignorare così la natura delle fate? Tutti gli uomini sanno che innamorarsi di una gwellyniuin è una follia.
– È vero, Klog. Ma Holmen pensava di essere il migliore degli uomini. Ma la sua superbia fu anche la punizione di se stessa, come vedrete. Un giorno che era nel suo laboratorio in compagnia del piccolo Eld, divenuto suo allievo, Holmen decise di andare a trovare la fata di sorpresa per portarle una pietra di opale che gli era costata molto lavoro e molta fatica. Prese per la porta magica che univa il suo laboratorio alla casa della fata e, emozionato al pensiero di quanto lei avrebbe gradito quel regalo, la oltrepassò senza annunciarsi. Oltre la porta magica la bella Loredil giaceva tra le braccia di un Erbano, ridendo ed accarezzandone il volto legnoso. Quando vide il mago ella lo salutò con il consueto sorriso e pronunciò il nome del Silvano. In quel momento tutto il mondo di Holmen si spezzò come si spezza uno specchio. Egli prese a urlare ed a minacciare, gettò la pietra di opale contro il muro, spezzandola in mille frammenti di ogni colore, mentre la sua mente lavorava furiosamente cercando una formula che gli desse la vendetta più crudele e orribile. Ma le altre fate percepite le sue emozioni intervennero e cancellarono parte della sua memoria con un antico sortilegio. Egli, stupito, imbarazzato, si trovò improvvisamente al cospetto di una coppia innamorata nella più imbarazzante e inopportuna delle situazioni. Si scusò con i due, prese con sé Eld, che aveva assistito alla scena in silenzio, oltrepassò la porta magica e la chiuse per sempre. Da quel momento, senza nemmeno sapere il perché egli cessò di frequentare il mondo, scomparve con la sua magia nascondendosi in un'antica foresta e solo nei sogni, confuso e strano, egli vide ancora il sorriso della fata che aveva voluto possedere e a quella vista nei sogni seguiva sempre una sensazione di vergogna e di dolore. 

 
– Una ben triste storia, Mastro Edalan, però perfettamente adeguata alla nostra conversazione precedente. Sapete se ora quell'uomo vive ancora, sapete se è felice, se ha trovato pace?
– Pace… Beh in un certo senso sì, Messer Klog. La sua magia ora serve a rendere la gente amica, a rendere più felice il soggiorno nella sua locanda, talmente nascosta ed appartata che ben pochi la frequentano.
– Capisco, Mastro Edalan. Certo una leggera magia in certi luoghi o in certi volti non si può ignorare. Sapete anche quale fu la sorte del giovane Eld?
– Il suo nome adesso è Sealghan, il grande evocatore al servizio di Re Barstodesch.– Sorride l'oste. – Una bella riuscita per un'orfano.
– Permettetemi di bere alla vostra salute, allora, per festeggiare una così degna fine della vostra storia.
– Alla vostra, Messer Klog ed a tutti coloro che hanno udito questa storia così istruttiva, dovunque essi siano.