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martedì 10 novembre 2020

Le serie bellissime dell'autunno: La regina degli scacchi | We are who we are

Si chiama Beth Harmon, è una bambina prodigio diventata una donna da record. Cresciuta in orfanotrofio dopo il suicidio della madre borderline, conosce gli scacchi – la sua passione, la sua ossessione – grazie alla pazienza del custode. Affidata a una famiglia benestante, coltiva il suo hobby anche al liceo. Porta con sé anche nell'altra casa la sua ambizione e i suoi limiti. Assuefatta agli anestetici sin dalla tenera età, la giovane è genio e sregolatezza: drink, pasticche e relazioni occasionali. Perché dove c'è un grande talento c'è sempre un briciolo di follia. Tra un torneo e l'altro, Beth punta allo scontro definitivo: il campione in carica è un temibile russo. Affiancata per un po' da una mamma manager, costruisce passo passo la sua personalità. Prima bambina, poi adolescente, infine adulta, è sulle copertine e sulla bocca di tutti. Eccellere in una competizione per uomini, ieri come oggi, fa notizia. Di Beth Harmon conosciamo gli appuntamenti, il glamour, le cadute e le risalite. I manuali sprimacciati, le rinunce, i deliri: stesa sul letto, vede scacchiere perfino tra le ombre del soffitto illuminato dalla luna. Viene difficile crederlo, ma questa donna – questa campionessa – non è realmente esistita. Scritta con la credibilità di una biografia, l'ultima serie Netflix è tratta dall'omonimo romanzo di Walter Tevis: è una storia d'invenzione. Nel passaggio dalla carta al piccolo schermo trova un comparto tecnico degno di meraviglia – le simmetrie della regia e i costumi invidiabili vi faranno sentire la nostalgia di The Marvelous Mrs Maisel – e la conferma di una stella splendente. Anya Taylor-Joy, ventiquattro anni, è magnetica in un ruolo che le sembra cucito a pennello. Con la sua bellezza vagamente felina, fatta di occhi grandi e gambe affusolate, l'attrice incarna alla perfezione un personaggio già iconico. Algida, saccente e geniale, la protagonista soffre di una solitudine siderale colmata dagli abiti lussuosi. Senza mai calcare la mano, la serie ci mostra le sue debolezze e i suoi dolori. Il ritratto, equilibrato e incantevole, è quello di un'anticonformista che basta a sé stessa e qualche volta ha bisogno di un buon amico. Continuamente strumentalizzata, rifiuta però di diventare un simbolo nella lotta contro il nemico sovietico o uno stendardo della religione cattolica. Beth è un lupo solitario seduto alla scacchiera. Non importa conoscere l'arte degli scacchi per seguire le sue imprese con il cuore in gola. Dietro ogni mossa c'è sfida, c'è seduzione, e lo scacco matto è tanto prevedibile quanto giusto. Appassionante come si legge dappertutto, La regina degli scacchi porta con sicurezza la corona: alla stagione dei premi, nei listoni di fine anno, si farà valere. (7,5)

Corpi intrecciati. Corpi gaudenti. Corpi colti nel perenne movimento di qualche birbanteria da portare a termine. Ballano, si abbracciano, alzano il gomito, si tuffano. Era l'epoca degli assembramenti. Era l'epoca delle bocche sboccate, senza mascherine. Sembra una vita fa. Ho seguito We are who we are come se fosse una serie di fantascienza. In questa nostra Italia divisa in gialli, arancioni e rossi, ho guardato con invidia e nostalgia all'arcobaleno abbacinante del solito Luca Guadagnino. Anche se a puntate, torna a raccontarci la sessualità, l'estate, l'insostenibile leggerezza dell'avere diciassette anni. Ritornato ai temi e alle ambientazioni di Chiamami col tuo nome, rinuncia agli anni Ottanta – gli stessi della sua giovinezza – per raccontarci il presente, e una generazione lontana tanto da lui quanto da me. Come può un regista cinquantenne raccontare gli adolescenti con tanta sapienza, senza costringerli alle pose plastiche o alla cattività dei copioni? “Siamo quello che siamo” è uno slogan, è un grido di battaglia, è l'autoaffermazione di un gruppo di millennials che in fondo desiderano ciò che desideriamo tutti: un posto nel mondo. Certo, sembrano aver genitori sin troppo permissivi. Certo, appaiono scalmanati e alticci: probabilmente non il migliore esempio da seguire, tra irruzioni notturne, matrimoni lampo e bevute fino al collasso. Ma i protagonisti di Guadagnino, lontani da qualsiasi giudizio morale, sono bestiole libere da vincoli e pregiudizi che formano un gruppo coeso di outsider. Vivono a Chioggia, in una base militare americana. Parlano un po' inglese e un po' italiano, praticano l'amore in un ambiente generalmente votato all'arte della guerra. L'irrequieto Fraser, uno strepitoso Jack Dylan Glazer, è l'ultimo arrivato: l'amicizia con Caitlin, la dirimpettaia, potrebbe diventare qualcosa di più? O lui, efebico e leggiadro, è gay? O lei, amante degli abiti maschili, è transgender? Questi diciassettenni non sono ossessionati dallo specchio. Come da titolo, non vogliono né definirsi né essere definiti. Fluidi, camminano sul bordo vertiginoso dei generi e degli orientamenti sessuali; della friendzone. Fresca, vulcanica e liberatoria, la serie è una boccata d'aria nuova. Di una leggerezza senza peso – al punto che la maggior parte delle scene sembrerebbero improvvisate –, conserva tuttavia un'impronta autoriale infraintendibile. Queste otto puntate, al pari dei personaggi che le popolano, rifuggono le etichette: sarebbe limitante, perciò, definire We are who we are un teen drama. Per i ritmi lenti, per il taglio verista, oltretutto non piacerebbe all'adolescente medio. Di neanche dieci anni più grande dei protagonisti, all'inizio ammetto di aver faticato. Poi è subentrata una curiosità entomologica verso il loro guardaroba, verso i loro discorsi, verso la loro identità sfumata. Sono belli, sono freschi, sono affiatati. Sono diversi. Ma diversi da chi? Appartengono alla cosiddetta generazione Y. Non la conosco, non mi ci riconosco, ma affascina oltre ogni dire, così come affascinano gli alieni e gli angeli. (8,5)

lunedì 2 marzo 2020

Teen Netflix: I Am Not Okay with This | Sex Education S02

Prendete il regista di The End of the F***king World. Aggiungete la vena soprannaturale e le infinite playlist di Stranger Things. Setacciate la bibliografia di Stephen King: un tocco di Carrie – con una ragazza che fugge insanguinata dalla presunta notte del ballo – e come se non bastasse, all’appello, ecco due dei volti più apprezzati dell’ultima trasposizione di It. Immergete in abbondante olio di palma. Lo spettatore medio non si lamenterà: fritto piace tutto, compresa l’aria. È questa la ricetta segreta che hanno seguito gli sceneggiatori di I Am Not Okay with This: la serie adolescenziale che tutti attendevano e di cui tutti parlavano, che nel mio caso si è rivelata essere, però, la prima delusione dell’anno. La sempre graziosa Sophia Ellis, destinata qui a farsi amare meno del simpaticissimo vicino di casa Wyatt Oleff, è una diciassettenne problematica che sfoga l’ansia sociale in fenomeni paranormali incontrollabili. Eroina o super-cattiva? Sperando di non risultare autocelebrativo, chiedevo lo stesso del protagonista del mio primo romanzo: un racconto di formazione a tinte violente in cui paranormale e disagio giovanile andavano a braccetto, con tanto di narrazione in forma di diario. Il problema della serie è il suo non sviluppo. Presa com’è a rubacchiare qui e lì, finisce dopo soli sette episodi: prima di rivendicare la sua autonomia, la sua originalità. Darò un’altra occasione a un’eventuale seconda stagione, ma il fastidio resta. Verso l’occasione sprecata senza un briciolo di buona volontà. Verso una protagonista che gioca facile, tra omosessualità, padre suicida ed emarginazione. Verso l’ennesimo omaggio al cult Breakfast Club, già proposto il mese scorso in Sex Education. Verso i soliti look hipster, le solite atmosfere alla moda, la solita colonna sonora – quale adolescente, oggi, ballerebbe sulle note di una canzone di Rick Springfield? Cari anni Ottanta, anche basta. Questo effetto nostalgia a ogni costo può andare a farsi f***ere. (5)

Non si smette mai d’imparare. Soprattutto in fatto di sesso. Soprattutto in fatto di sessi. Strappando consensi generali, a gennaio è tornata la serie Netflix che parla di uomini e donne con una genuinità che conquista. A lezione da Sex Education torniamo tutti sui banchi del liceo; diventiamo tutti più giovani, nonché studenti modello. Come nella prima stagione, si parla fuori dai denti di sesso – e spesso lo si mostra – senza tabù. Di masturbazione, prime volte, omosessualità, asessualità, amori acerbi e amori maturi. Questa volta è stata introdotta anche la tematica tanto scomodata quanto attuale delle molestie: all’inizio liquidata con menefreghismo dalla vittima, in realtà lascia strascichi durante tutte le puntate. E chiama a battagliare un femminismo necessario e per nulla stucchevole, il migliore, che mostra come l’unione faccia la forza; anche su un autobus trasformato, dopo un gesto viscido, in uno scenario da incubo. Nonostante personaggi femminili sempre più autonomi e centrali, non scordiamoci di Otis: il sessuologo in erba con turbe evidenti, diviso tra la scontrosa Maeve e la solare Ola. A proposito di triangoli, poi, come tralasciare mamma Gillian Anderson indecisa tra il focoso idraulico e l'ex che torna a cadenza fissa? O ancora Eric, l’amico che ha il corteggiatore perfetto ma nel frattempo scalpita segretamente per il bullo Adam? C’è qualche evitabile cliché da commedia per ragazzi, ad esempio le dichiarazioni plateali nei momenti di aggregazione scolastica. C’è qualche personale rimostranza, soprattutto se serie più impegnate – vedasi Euphoria o Cercando Alaska – non godono purtroppo della stessa visibilità. Ma son quisquiglie, in un prodotto che cresce assieme ai suoi personaggi; in una stagione ancora più simpatica, emotiva e coinvolgente della precedente. In cui tutti lo fanno, tutti ne chiacchierano in lungo e in largo, ma senza volgarità. Garbati, pulitissimi fino all'ultimo. Chi ha detto che parlare di sesso è parlare sporco? (7,5)

lunedì 18 novembre 2019

I ♥ Telefilm: Looking for Alaska | The End of the F***ing World S02

Avevo sedici anni, John Green era il migliore autore dell’universo ed ero perdutamente innamorato di Alaska Young. Una che accumula libri usati come fossero gioielli. Una che beve, fuma, impreca. Una che la dà a tutti ma non si concede mai a nessuno. Uno di quei personaggi che a una certa età, insomma, segnano l’immaginario: dieci anni dopo non l’ho scordata. Anche se nel frattempo John Green ha scritto altro, superando il successo del suo esordio indie. Anche se non sempre l’ho apprezzato, in salute o in malattia. Ho scoperto una cosa: che la cotta per Alaska è rimasta incorrotta anche sul piccolo schermo. Oggetto di una miniserie Hulu senza una distribuzione italiana, il romanzo di formazione ambientato agli inizi del Duemila funziona alla perfezione anche a episodi con i suoi primi baci, primi strusciamenti, primi dolori. Purtroppo passata sotto silenzio, la trasposizione – un gioiellino di scrittura e recitazione – si è rivelata un impensato terremoto emotivo, capace dal nulla di riaprire vecchie ferite: a volte erano i segni dei dardi di Cupido, infatti, altre traumi insuperati. Pur senza meriti stilistici, Looking for Alaska conquista subito grazie a un’irriverente anima da canaglia, ma con il procedere della visione si rivela infine struggente. Quanti prodotti per ragazzi hanno il coraggio di mettere in scena l’assoluta centralità del dolore? Quanti sanno trattarlo senza l’intromissione del politicamente corretto, ma affrontandolo ora da una prospettiva religiosa, ora da una filosofica? Tutti all’inseguimento di un Grande Forse, i protagonisti fanno a gara di sbronze e sensi di colpa – e se sceneggia il veterano Josh Schwartz, piccole e grandi aggiunte daranno profondità anche ai comprimari: tralasciando un Charlie Plummer non all’altezza del ruolo di protagonista, gli applausi sono per Denny Love (uno straordinario Colonnello), Sofia Vassilieva (la dolcissima Lara), Ron Cephas Jones (il professor Hyde, qui con un amore omosessuale che emoziona). Tra grasse risate e pianti torrenziali, ho ricordato perché all’epoca ne avessi consigliato la lettura in lungo e in largo. E come mai alla protagonista del mio romanzo, più tardi, avrei dato i tratti dello sfuggente sogno erotico di Miles, qui interpretata da Kristine Froseth: bella come Margot Robbie, e per di più già bravissima, farà strada marciando su nuovi cuori infranti mentre il deejay passa Fix You. Lo spettatore, proprio come la matricola protagonista, la osserva e la venera, spaventato da un inquietante conto alla rovescia che avanza. Alaska Young resterà sempre il mistero della mia gioventù. E il giallo dei suoi spericolati anni alla Cobain, tutt’ora, sfavilla fino a farmi lacrimare. (8)

Lo abbiamo visto sia con The Handmaid’s Tale, sia con Big Little Lies. Pessima idea cavalcare l’onda del successo, se significa superare a piè pari l’intento originario dell’autore. Entrambe tratte da bestseller, le due serie TV hanno guadagnato stagioni aggiunte e perso infinita credibilità. Quando un romanzo viene annacquato per allungare il proverbiale brodo, infatti, difficile confidare in buoni risultati. Il pregiudizio è toccato anche alla seconda stagione di The End of the F***ing World: ispirata a un fumetto destinato a chiudersi con una scioccante tragedia finale, la fuga dei due sociopatici più amati di Netflix poteva forse avere un degno prosieguo? Al di sopra delle aspettative – pensati senza grandi forzature, ma assolutamente pretestuosi nello svolgimento – i nuovi otto episodi risultano sì superflui, ma hanno il merito di non snaturare la personalità dei personaggi e di allinearsi allo stile della prima stagione. I trascorsi di Alyssa e James, infatti, li hanno resi più buoni, più umani, più cresciuti. Purtroppo, anche meno spassosi. Lei, vestita di bianco, è una sposa in fuga il giorno delle nozze. Lui, impettito dentro un brutto abito elegante, porta un’urna sottobraccio di cui non svelerò il contenuto. Bravissimi e subito iconici, Jessica Barden e Alex Lawther sono diventati tutt’uno con i loro ruoli: tanto algida lei quanto adorabile lui, costituiscono una coppia tenera e mal assortita come poche. Per questo gli si vuol bene. Soprattutto in una stagione a corto di svolte, che gira in tondo e poi torna sui luoghi della prima, retta soltanto dall’innegabile alchimia del duo. Insieme, così, superano le incertezze e le lungaggini di una scrittura che vorrebbe stare al passo ma non può: non abbastanza caustica, non abbastanza memorabile. Brava altrettanto, qui, è colei che vorrebbe farli scoppiare: pazza d’amore, Naomi Ackie viaggia sul sedile posteriore e semina pallottole con incise promesse di morte. Poteva andare meglio. Poteva andare peggio. La decorosa via di mezzo accontenterà comunque i fan, sempre attratti dalla ricercata colonna sonora rètro, dalla regia hipster e dalla promessa di uno spasimatissimo lieto fine. Quest’ultimo non scontenterà nessuno, giuro. Neanche chi, vagamente deluso, non vorrà perdonare alla serie di non essere stata di nuovo la fine del mondo. (7)

lunedì 23 settembre 2019

I ♥ Telefilm: Undone | Marianne | Élite S02

Nel primo autunno a corto di BoJack Horseman – a quando, Netflix, la sesta stagione? –, gli sceneggiatori Kate Purdy e Raphael Bob-Waksberg hanno unito le forze per una nuova serie animata. Lontani dai retroscena di Holliwoo, con Amazon a produrre, passano al tema fin troppo abusato dei viaggi nel tempo; dall’animazione tradizionale alla tecnica del rotoscope, già sdoganata da Richard Linklater. Inutile dire, non ci si aspettava semplicemente un bell’esordio: carico di aspettative, alla luce dell’entusiasmo letto in rete, confidavo in una delle serie dell’anno. Così non è stato, senza grandi rimpianti, e spiego subito il perché. Undone racconta del tracollo psicologico di Alma all’indomani di un incidente stradale: risvegliatasi dal coma, la maestra d’asilo scopre di poter parlare con il padre – scienziato morto in circostanze misteriose – e di essere in grado di cambiare il corso degli eventi. Ma la protagonista, interpretata dall’ottima Rosa Salazar, ha una nonna schizofrenica, cicatrici sui polsi, medicinali che a un certo punto sceglie di non prendere. La sua è una missione degna di un supereroe, o un’avvisaglia della malattia mentale? Nel frattempo la sorella sta per convolare a nozze, la mamma iperprotettiva per scoperchiare un vaso di Pandora colmo di rancore verso il compagno defunto – un insopportabile Bob Odenkirk – e il dolcissimo fidanzato Sam, come lei reduce da un’infanzia difficile, tenta di assecondarla nonostante il dubbio che stia delirando.  Vicina all’estetica della coppia Kaufman-Gondry, ma anche al romanticismo del nostro Valerio Mieli, la prima stagione di Undone è tanto brillante dal punto di vista umano quanto derivativa sotto l’aspetto fantascientifico. Le si riconoscono un’animazione all’avanguardia, la solita grande scrittura – qui non lineare –, quei personaggi adorabili e dolenti che funzionano soprattutto nelle situazioni di tutti i giorni, lontani dallo sperimentalismo della trama. Paradossalmente, è proprio la componente sci-fi – per quanto vicina al cinema che piace a me, quello minimalista del Sundance – a non far gridare al miracolo davanti a questa ricerca proustiana a metà fra l’irrestistibile Fleabag e il dimenticato Maniac. Per alcuni imperdibile, dal poco che si è visto appare sicuramente una visione stimolante. Ma, per il momento, con lo stesso senso d’irrisolto del titolo. (7)

Benvenuti a Elden, sinistra ma bellissima città portuale sulle coste francesi. L’unica attrazione turistica, all’inizio, era il vecchio faro. Ma dopo la fama raggiunta da una delle sue abitanti, l’attenzione si è spostata al mondo dei libri: quegli scenari sono stati d’ispirazione alle creazioni dell’amata-odiata Emma, scrittrice horror di fama mondiale di ritorno all’ovile in seguito a un evento preoccupante: l’antagonista della sua storia, una strega in cerca di vendetta, sembra essere sbucata fuori dalle pagine per ricattarla tirando in ballo la famiglia, gli ex compagni di scuola, un lutto passato. La colpa di Emma: aver messo un punto fermo alla saga di Lizzie Lark, quando il mostro – Marianne, sposa di Satana condannata ai tempi dell’Inquisizione – non voleva ancora essere dimenticata. In un villaggio in cui male e mare fanno rima, quattro amici d’infanzia si danno appuntamento per riabbracciare la ragazza e aiutarla. Ma lei, tipino sarcastico e scontroso dotata della bellezza rockettara di Victoire DuBois, è un buco nero che porta con sé sfortune e tragedie. Fra vecchi amori e nuovi incubi, la serie d’oltralpe non si lascia sfuggire elementi di sicuro raccapriccio: voci mostruose o cantilenanti, figure nell’ombra, risate di bambini spettrali, cani rabbiosi e denti strappati, anche se a ispirare l’inquietudine maggiore è la performance di una strepitosa Mireille Herbstmeyer. Non mancano gli inserti ironici, garantiti da un detective un po’ sopra le righe, né l’effetto nostalgia quando si entra in territori kinghiani: lo spunto è quello di un Misery in chiave soprannaturale, infatti, ma la rimpatriata ricorda proprio quella dei Perdenti di It. Tanto l’ultimo film di Muschietti è fallimentare nella componente orrorifica, però, quanto questo Marianne è riuscito. La serie, cosa rara, fa genuinamente paura. Una paura generata dagli innumerevoli jumpscare alla James Wan, ma anche dal fascino macabro delle tematiche e delle ambientazioni. Di grande atmosfera, piena di citazioni letterarie e sobbalzi, è consigliata a chi come me ha apprezzato l’ultimo Laugier. Un carrozzone del terrore sì ammiccante e già visto, ma comunque invidiabile per cura e gestione della suspance: perfetto per entrare nel mood di Halloween. (7+)

Erano giovani, carini e bugiardi. Erano, a mani basse, il guilty pleasure dello scorso anno. Sfacciatamente trash, un po’ Gossip Girl e un po’ Le regole del delitto perfetto, Elite mi aveva divertito da morire con il suo vortice di intrighi adolescenziali, sangue e sesso spinto. Chi aveva ucciso Marina? Era il grande dubbio della prima stagione. Quest’anno l’interrogativo cambia: cos’è successo al povero Samuel, l’outsider sulla bocca di tutti per via della sua borsa di studio e della parentela con l’accusato? Le variazioni sul tema sono minime: i nuovi ingressi sono un’arrampicatrice sociale, con una mamma pagata per fare le pulizie fra i corridoi della scuola privata; una presunta vincitrice della lotteria, in realtà coinvolta in un traffico di stupefacenti; il fratellastro della subdola Lola, ovviamente legato a lei da un’attrazione incestuosa alla Cruel Intentions. Scompaiono i volti più noti – Jaime Lorente e Miguel Herràn, forse impegnati sul set della Casa di carta – e la sorpresa è tutta per l’evoluzione del personaggio di Guzmàn, il fratello della ragazza assassinata, al centro di un cammino di vendetta e redenzione. Per fortuna sempre incensurati e recidivi, i giovani spagnoli sono meno divertenti e coinvolgenti che in passato, ma più maturi. La seconda stagione ha un andamento maggiormente lineare e conserva, per far presa garantita sui buoni amanti del trash, la sua natura di mancata soap opera. Innumerevoli le relazioni proibite, le coppie che ora scoppiano o si consolidano, le amicizie storiche messe in pericolo dal sospetto. Le tinte torbide, eppure, in teoria sono quelle di una moderna tragedia shakespeariana. Si parla nemmeno troppo fra le righe di quanto logorino la corruzione, il senso di colpa, il potere. Ma ci si distrae, se in un prodotto leggerissimo, alla maniera dei ricchi: fste grandi e rumorose, alcol a fiumi, cocaina sniffata nei bagni di lusso. Il non detto li rende tutti spensierati, ma anche complici e assassini. Il non detto ci renderà tutti curiosi, davanti all'idea di un rinnovo già annunciato. (6,5)

mercoledì 28 agosto 2019

I ♥ Telefilm: Euphoria | The Handmaid's Tale S03 | Come vendere droga online (in fretta)

Brutta bestia, l’adolescenza. Un’età sospesa nell’incertezza, che terrorizza tanto i genitori quanto i ragazzini alle prese con le avvisaglie della pubertà. A volte si ha la fortuna di attraversarla senza accorgersene. Altre, invece, si ha il dramma di vedersela brutta: di berla d’un fiato, con il rischio che vada di traverso. Auguro a ogni famiglia la felicità di una crescita senza scossoni. Ma nei miei sogni segreti, dalla visione di Euphoria in poi, sono vittima del fascino di questi ragazzi allo sbando: belli e dannatissimi, i protagonisti sono di quelli che forse non sopravvivranno al peggio dei migliori anni. Sesso, pornografia, alcol, droghe, ricatti. Stessa storia, stesso degrado: cosa rende, allora, la serie prodotta da HBO e A24 – insomma, un tripudio di indie – la folgorazione di questo 2019? Se le giovinezze rose e fiori ispirano la TV mainstream, quelle infernali gareggiano con il cinema di Boyle e Korine; con gli eccessi della serie cult Skins, la cui formula sembrava non funzionare fuori dai confini inglesi. Il cantore di quest'ondata di adolescenti problematici è Sam Levinson, già stilosissimo nell’horror Assassination Nation. Sul piccolo schermo, per fortuna, sa mettere meglio a fuoco la sua regia da videoclip, la bravura di un cast ben assortito, toni angosciosi senza mai strafare. Immancabile per gli spettatori più smaliziati, fondamentale per chiunque voglia assistere a uno spettacolo spettacolare struggente e scandaloso, Euphoria non può contare su una trama innovativa. Fra ragazze che si svendono, campioni dalla sessualità in dubbio e famiglie disfunzionali, potremmo pensare di conoscere già la noia esistenziale di questi Millennial. Eppure, a livello narrativo, le trovate memorabili non mancano. Ogni episodio si apre con un prologo dedicato a un comprimario diverso e narratrice onnisciente è una sorprendente Zendaya: bella e fragile, torna a scuola dopo il coma seguito a un’overdose. Bisognosa e bipolare, vorrebbe una casa tranquilla – ma la sorella minore frequenta un brutto giro –, il vero amore – ma l’attrazione verso Jules, l’amica transgender, sembra impossibile –, scappare dalla provincia. La distraggono ora le perversioni di padri di famiglia con una passione segreta per i minorenni; ora gelosie e voltafaccia; ora la paura di ricascarci, quanto troppo triste o troppo felice. Come non innamorarsi del suo broncio, del suo fisico allampanato, della sua intensità? La gioia provata per la sua conoscenza è una percezione sbagliata: la scambiamo con l’euforia del titolo. Una vivacità irrefrenabile, isterica, che contiene già le ombre di un malessere nascosto. Ne subiremo le amare conseguenze soltanto poi. Nel mentre eccoci qui: incuranti e felici, davanti ai nostri diciassette anni ribelli e a una cotta sul ciglio del burrone. (8)

Tre anni fa, al suo debutto, era la serie delle serie. Una distopia urgente, spietata, che descriveva un futuro non troppo lontano e nel frattempo parlava di noi. Di un presente costellato di avvisaglie preoccupanti e sconvolgimenti politici, dove razzismo, omofobia e sessismo sono di moda; dettano legge. Tre anni dopo, davanti all’ennesima stagione senza nerbo, The Handmaid’s Tale ha subito un’involuzione impensata. È diventata, infatti, una di quelle serie da seguire facendo altro. Da guardare magari doppiate, in italiano, perché non si ha più l’ansia di stare al passo con la programmazione americana né di badare all’intensità ormai assodata degli interpreti originali. Delle evidenti battute d’arresto, nonostante tutto, sembriamo accorgerci in pochi. I più, invece, si lasciano confondere dall’importanza delle tematiche e dalla performance della protagonista. Confidano in un’altra stagione, nel nuovo romanzo di Margaret Atwood ormai in dirittura d’arrivo. Io, controcorrente, ho invece paura per quel seguito letterario fuori tempo massimo. Ho paura che la serie continuerà a trascinarsi per molto tempo, dal momento che tocca battere il ferro finché è caldo: e questi argomenti, cosa nota, scottano giacché attualissimi. Cos’è successo a Gilead in questi episodi? Qualcuno la fa franca.  Qualcuno punta al Canada, pretendendo diritti su una bambina rapita. Qualcuno, deliberatamente rimasto al proprio posto, pianifica colpi di stato con la complicità delle vendicative donne in rosso. Yvonne Strahovsky, messa da parte, è una Serena Joy confusa e incoerente: una banderuola che non sa bene dove schierarsi, e più per l’indecisione degli sceneggiatori che per la fragilità del suo stesso carattere. L’autista Max Minguella e la fuggitiva Alexis Bledel, invece, sono ufficialmente scomparsi. Resta allora una Elisabeth Moss in divenire: diabolica ed eversiva, questa volta pensa meno alla propria famiglia e più al cambiamento sociale, trasformandosi in una Che Guevara al femminile misteriosamente capace di cadere sempre in piedi. Possibile che la scampi ogni volta? Possibile che nessuno a parte me si sia stancato degli incarogniti sguardi in camera che oggi la rendono la parodia di sé stessa? Definitivamente un simbolo, l’attrice esagera e calca la mano, quando il messaggio – ormai semplificato – si fa ridondante. Non basta la vaga ripresa degli ultimi episodi. Non basta il ricordo della passata verosimiglianza, qui tradita per svolte surreali e forzate. Sia benedetto il frutto. Che il Signore possa schiudere. E se, dopo la bella stagione, il suddetto frutto si rivelasse più che maturo: stracotto dal sole? (6)

Viene dalla Germania e ha un titolo che è tutto un programma. Giovanile e inattesa, tra me e me, ero già pronto a eleggerla all'istante serie dell'estate. Come vendere droga online (in fretta) aveva tutto: un adolescente piantato in asso, un migliore amico dai giorni contati e un piano – spacciare pasticche, rubando clienti alla nuova fiamma della storica ex – per conquistare di pari passo popolarità e denaro. L'attività, più redditizia del previsto, approda presto su internet. Sognandosi novelli Steve Jobs, i protagonisti daranno vita alla classica collaborazione criminosa: con il classico papà poliziotto e inconsapevole, la classica adolescente che finisce in overdose per insegnarci che gli stupefacenti talora possono uccidere, il classico boss mafioso che fa davvero male a non prendere sul serio la strana coppia di narcotrafficanti. Un grammo di Breaking Bad, un po' di Smetto quando voglio e, ancora una volta, pronta all'uso, ecco una lezione pensata a tavolino sui lati oscuri dei social e le fragilità dei giovanissimi. Citazionista e scoppiettante per quanto riguarda il lato tecnico, con chat a vista, foglietti illustrativi letti a voce alta e coloratissime sequenze psichedeliche, la serie europea ha un approccio fresco ma una trama – che sia una storia vera o inventata, non mi importa granché – alquanto stantia. Vittima del già visto, conserva orgogliosamente la lingua tedesca ma si rifà al chiasso delle commedie americane: ahimè, smarrisce così la sua scarsa personalità strada facendo. Non diventando mai un autentico oggetto di dipendenza. (5,5)

lunedì 11 febbraio 2019

I ♥ Telefilm: Sex Education | La compagnia del cigno | The Kominsky Method

Ai miei tempi c'era la serie di American Pie in videoteca o Melissa P. sfogliata di soppiatto al supermercato. Alle scuole medie un po' di sesso lo si vedeva o leggeva così: con la pudicizia verso il tabù. Molto più fortunati possono dirsi gli adolescenti di oggi: seduti al primo banco, attentissimi, prendono appunti e sollevano dubbi esistenziali a lezione da Sex Education. La versione live action di Big Mouth, essenzialmente, che attinge a tratti a Skins, a tratti al recente The End of the F***ng World. Siamo nel solito liceo di provincia e il solito sedicenne imbranato – Asa Butterfield, cresciuto bene dopo la benedizione artistica di Martin Scorsese – fa i conti con l'imbarazzo della mamma sessuologa e la cotta per una ragazza con la fama da bulla. Perché non mettere a frutto un'infanzia passata a sentir parlare di sesso per racimolare qualche soldo, tagliare il cordone ombelicale che lo lega alla sempre fascinosa Gillian Anderson e, se tutto va bene, conquistare l'erede lampo di Margot Robbie? A scuola c'è chi apre troppo le gambe e chi non le apre abbastanza. Chi sogna in segreto un'esperienza omosessuale, chi simula l'orgasmo, chi non si prende cura a sufficienza delle proprie zone erogene. Chi ce l'ha piccolo, chi ce l'ha grande, chi non ce l'ha depilata alla brasiliana. Otis, sotto lauto compenso, ha una risposta per tutto, ma non per il suo cuore misterioso. Né per l'inibizione verso la masturbazione, suo grande cruccio, che gli rende di conseguenza difficile anche il contatto fisico. Scorretta, boccaccesca, nuda e cruda, Sex Education non si fa mancare davvero nulla. Dà quello che promette, fra amplessi sbirciati e grasse risate, ma il risultato sorprende per buon gusto e misura. Modernissima ma con un accurato stile anni Ottanta, l'ultima commedia Netflix gioca con furbizia e impensata grazia le proprie carte vincenti. E fa bene, perché la semplicità, il prendi di qua e il prendi di là dai teen drama di ogni dove, si sposa bene con un cast dalla faccia pulita e una scrittura che, lasciati a sbollire i bassi istinti, a sorpresa scalda il cuore. Con le cliniche per l'aborto dagli Smiths in sottofondo. Con gli amici gay che non disdegnano i travestimenti e, per solidarietà, ti spingono a vestirti come Hedwig oppure a ballare un lento in pista. Con la revisione in chiave politicamente scorretta di un femminismo meno banale al suon di: «È la mia vagina!». C'è del vero nel luogo comune: non esiste sesso senza amore. (7+)

Alle medie adoravo High School Musical: conoscevo tutta la colonna sonora, inutile nascondersi, e l'altro giorno meditavo l'idea di un rewatch in nome della nostalgia canaglia. Alle superiori è stata la volta di Glee: serie subito cult, sfortunatamente in caduta libera dopo la collezione iniziale di plausi e premi in patria. Quest'anno, invece, scartato Rise, contro tutti i pronostici gli ho preferito La compagnia del cigno: una scusa per far fruttare il chiacchierato canone Rai e una bella occasione per portare la musica classica in prima serata, realizzando una serie per gli adolescenti di oggi e di ieri. Ivan Cotroneo, già con Un bacio autore di grande sensibilità, conferma di possedere un tocco delicato e nel suo piccolo fa magie con un cast di reali studenti del conservatorio chiamati per la prima volta a suonare, cantare e recitare. Qualcuno, per altro, con ottimi risultati: benché il protagonista sia Leonardo Mazzarotto, studente sopravvissuto al terremoto di Amatrice in fuga dal disturbo post-traumatico, spicca per spigliatezza il personaggio irresistibile di Hildegard De Stefano, un'ipovedente che spezza cuori a destra e a manca e si fa beffe del politicamente corretto. Il titolo: il nome di un gruppo WhatsApp che ha radunato gli emarginati e i talenti incompresi dell'orchestra di un Alessio Boni non meno spietato di J.K. Simmons. Di giorno direttore d'orchestra con i modi da canaglia, di notte giustiziere accanto ad Anna Valle per vendicare una figlia vittima d'omicidio stradale, Boni divide la scena con valenti addetti ai lavoro (Giovanna Mezzogiorno, mamma saggia ed evanescente morta nei crolli; Alessandro Roja, spumeggiante zio gay una spanna sugli altri), partecipazioni trash (i cameo di Mika e Michele Bravi; Marco Bocci che scimmiotta con ironia il Bernal di Mozart in the Jungle) e giovani leve. Peccato che la lunghezza degli episodi, gli inserti musical mal realizzati e la fotografia di un irriconoscibile Luca Bigazzi intrappolino la serie in stilemi televisivi che, a tratti, vedasi la stucchevole gita ad Amatrice del finale, cancellano i pregi diffusi al suon di nasi da storcere. Si apprezzano comunque le buonissime intenzioni, le ambientazioni milanesi, il tentativo di opporsi con la controprogrammazione al pessimo Adrian, e tanto basta per dirsi contenti. In attesa di un ritorno con gli stessi drammi vincenti, ma meno auto-tune nei ritornelli, più cura alla regia e altrettante armonizzazioni. (6,5)

Si conoscono da metà delle loro vite, e sono vite lunghe. Uno attore di scarso successo a capo di un'accademia di recitazione, l'altro suo fedelissimo manager. Il mondo del cinema, però, fra strizzate d'occhio e grandi nomi fatti tanto per vanteria, resta sullo sfondo. Si sceglie di parlare d'altro: delle gioie e dei dolori condivisi, della salute che va e che viene, dei segreti della terza età. Non si smette di fare sesso a settant'anni, lo sa bene il sempre affascinante Michael Douglas, che nelle sfilate sui Red Carpet continua a non stonare con Catherine Zeta-Jones accanto. Non si smette di considerare i propri figli alieni, lo ribadisce uno struggente Alan Arkin alle prese con il vuoto della vedovanza – ogni tanto, eppure, eccolo confidarsi con lo spettro della moglie in camera da letto – e con le bizze della figlia, alcolizzata da scortare in rehab. Aggiungete qualche vecchio problema familiare e nuove fiamme, la prostata che fa i capricci sotto le mani indelicate dell'urologo De Vito, l'amore altalenante ra due irresistibili brontoloni che nonostante tutto non si stancano mai della reciproca compagnia. Otterrete, così, The Kominsky Method: ultima fatica di un Chuck Lorre che gioca pedine fortunate e agli scorsi Golden Globe, complici due straordinari mattatori per fiore all'occhiello, sbaraglia una concorrenza agguerrita. Imprevedibilmente e, se lo chiedete a me, non troppo meritatamente. Vista agli inizi di dicembre durante i pasti, la serie è stata una compagnia rapida e indolore di cui parlare soltanto a vittoria avvenuta. Prima, infatti, non mi aveva tentato il bisogno di abbinare i soliti aggettivi, di raccontarvi la solita comedy agrodolce, per la quale a torto non vedevo un futuro. La seconda stagione è già stata confermata ai piani alti e questa strana coppia non smette di mietere consensi in rete (chiedetelo a Lisa, ad esempio, gerontofila doc). Affezionato all'umorismo nero di Vicious non meno che alla galanteria di The Old Man and the Gun, invece, io mi sono scoperto lontano dall'ironia più godereccia di Lorre; da una serie sulla settima arte a cui il cinema manca, strano ma vero, che nel giorno giusto potrebbe forse strapparvi più lacrime che risate. (6,5)

mercoledì 16 gennaio 2019

Mr. Ciak - And the Golden Globe goes to: Eighth Grade, The Old Man and the Gun, Crazy Rich Asians

Non ci sono fotografie dei miei problematici tredici anni. Odiavo le scuole medie, la superficialità dei miei compagni di classe, i brufoli e i capelli grassi che mi mortificavano allo specchio. Meglio il liceo, di cui conservo tracce e ricordi. Dei tre anni precedenti giusto una rabbia indistinta, solo l'oblio, almeno fino alla visione di Eighth Grade. Commedia indie con un posto d'eccezione nella stagione dei premi che, a sorpresa, fra autocritica e riflessione, è stata la mia capsula del tempo. E dire che mi aspettavo un'altra delusione dopo Lady Bird, sopravvalutato raccontato adolescenziale che purtroppo mi aveva suscitato lì per lì irritazione e dèjà vu: gli stessi, infatti, sono i toni agrodolci e altalenanti; ugualmente scostante potrebbe apparire la protagonista, una mitica Elsie Fisher. A un passo dal liceo vorrebbe soltanto una migliore amica e un fidanzato: a torto, spererebbe di conquistare l'una con i regali giusti, l'altro con i pompini perfetti spiegati dai tutorial su YouTube. Come qualsiasi adolescente ha un rapporto simbiotico con le cuffiette e i social, colleziona risposte sgarbate per l'adorabile papà single e davanti a una telecamera registra video motivazionali: peccato che né lei né i suoi (pochi) follower ci credano. Eccola a mensa, seduta in disparte, o con un sorriso neutro nel bel mezzo delle conversazioni altrui: una ragazza da parete che, giunta a un bivio, vorrebbe sentirsi disperatamente parte di qualcosa. Le ho voluto un bene grande e, nonostante i dieci anni e più di differenza, ho rivisto tanto di me in lei. Con un po' di paura, tanta frustrazione e, soprattutto, infinita tenerezza. Benché di generazioni lontane, ci accomunano quel sentirsi fuori posto che non conosce età; una percezione impietosa e onesta che non aiuta, no, a scorgere la bellezza dei nostri lineamenti sotto l'acne cistica o la scarsa popolarità. Cara Elsie, credimi, è presto per l'amarezza. Ma non abbastanza per imparare che l'esteriorità non è tutto, che ogni tanto sarebbe meglio giudicarsi con maggiore benevolenza, che alcuni genitori sbagliano eppure ti restano comunque accanto. Ci si sente a metà, durante la terza media. Né grandi né piccoli: dei pesci fuor d'acqua. Aiutano i ritmi di un'irresistibile colonna sonora elettro-pop. Aiutano giovani registi come il ventottenne Bo Burnham, capaci di rendere belli – da rivalutare dal nuovo – anche gli anni peggiori. E di restituirti all'acqua, all'abbraccio dei papà mentre bruciano per sempre i sogni e le speranze, all'amore per te stessa. (7,5)

Mentre su Netflix ho ceduto ai piani criminali della Casa di carta, al cinema ho trovato una storia vera che di rapine ben diverse parla. Siamo nei primi anni Ottanta e tre nonni eleganti, garbati e sorridenti tengono in scacco banche su banche senza né ostaggi né sangue sulle mani. La banda sul viale del tramonto, la chiamano, ma nessuno riesce ad acciuffarla: nemmeno Casey Affleck, detective in crisi per l'arrivo dei famigerati quaranta. Gli anziani, nonostante le gambe lente e l'apparecchio acustico, sono sempre un passo avanti. Li guida il sempre fascinosissimo Robert Redford, galantuomo in fuga dal pensionamento anticipato, che perde il pelo ma non il vizio: nonostante qualche oggettivo problema di ritmo si alternano con garbo i punti di vista di inseguitore e inseguito e, in questa godibilissima partita a guardie e ladri, saltano fuori nuove voci da spuntare sulla bucket list, gli appuntamenti nelle tavole calde con una radiosa Sissy Spacek, dialoghi da manuale. Com'è che si dice? Chi si ferma è perduto. Non si ferma di certo il buon Robert, capace di fare ancora ridere, sognare e innamorare. Di far colpo sicuro grazie alla regia rétro del poliedrico David Lowery, senza bisogno di intimarti obbedienza con una pistola puntata al cuore. The Old Man and the Gun, addio di una stella dalle scene cinematografiche, è un commiato nostalgico e sornione con dalla sua un trio di bravissimi e le arie da canaglia. Abito di buona foggia tagliato alla perfezione sul fisico sempre solido dell'ottantaduenne, si rivela una biografia picaresca e romantica: la leggenda di un'esistenza consacrata alla fuga, al sentimento e alla finzione. Come succede nel delinquere. Come succede nella settima arte. (7)

Sono una coppia di insegnanti attraenti e affiatati a New York. I loro tratti, la loro pelle, mostra però che, per quanto ben integrati, vengono da molto lontano. Tornare alle proprie origini, a Singapore, per un matrimonio orientale con tutti i crismi. E all'ombra dei fiori d'arancio, per forza di cose, conoscere la famiglia di lui – e le prime crisi. A che prezzo infatti hanno costruito quell'impero patrimoniale? Gli uomini di casa sono sempre assenti, i tradimenti e il bisogno di apparire non si quantificano, le nuore sono sottomesse alle mamme e le mamme sono sottomesse alle nonne. La rivoluzione per l'arrivo della straniera, ovviamente, prevederà sontuosi cambi d'abito e intensi faccia a faccia durante le partite a majong; un doveroso lieto fine, con tanto di intrecci da sciogliere in un sequel già annunciato, in cui ci si accorge di come l'usurpatrice ne abbia cambiato le percezioni battendoli al loro gioco. Ispirato al primo romanzo della trilogia di Kevin Kwan, Crazy Rich Asians ha spopolato al botteghino e si è fatto valere perfino ai Golden Globe. Qual è l'ingrediente segreto di una classica commedia di fine estate, con il pregio di due insoliti occhi a mandorla? Un cast di belli e bellissime, in cui è agguerrito il testa a tesa fra l'irresistibile Constance Wu e Michelle Yeoh, perfida ma con classe; la commistione tutta grattacieli e luccicori fra Il mio grosso grasso matrimonio greco e Orgoglio e pregiudizio. Il risultato? Una fiaba opulenta, dai risvolti finali non così scontati, che corrompe anche gli insospettabili con la leggerezza di cui c'è sempre bisogno e scorci di un Oriente che è un piacere per gli occhi. Se le due ore scorrono senza intoppi, tra compratori compulsivi pronti ad accaparrarsi già a fine visione accessori e oggetti d'arredo e cinici che pensano che la commedia non sia il mezzo adatto per parlare di disuguaglianze razziali, comunque poco male: viva la superficialità a fin di bene, viva le ventate di buonumore. Dopo Searching, riecco la rivincita di una minoranza che conquista il centro della scena affatto in punta di piedi. Rendendoci tutti pazzi, ma di loro. (6,5)

venerdì 7 dicembre 2018

I ♥ Telefilm: Le terrificanti avventure di Sabrina | American Vandal

Da bambino mi teneva compagnia due volte al giorno. La mattina a cartoni, il pomeriggio con le risate registrate delle sitcom. Me la ricordavo diversa: frizzante e pasticciona, con l'aiuto del petulante gatto nero di cui cantava la sigla e una casa coloratatissima da spartire con le zie. Sabrina Spellman è tornata a Greendale. Se anagraficamente non sembra essere cresciuta – sta per compiere sedici anni, l'età in cui scegliere da che parte schierarsi –, hanno subito una rivoluzione drastica il suo armadio e il senso dell'umorismo. A metà tra l'ingenuo e il seducente, complice il candore di una Kiernan Shipka perfetta per il ruolo, popola una serie Netflix dalle marcate tinte fosche ed esplora in profondità una doppia natura che la espone a scelte fatali. Nata da un mago e da un'umana, vive sempre sotto la stretta sorveglianza delle zie paterne – una delle due, Zelda, è una splendida Miranda Otto –, ha sempre l'ignaro Harvey per eterno fidanzato, ma prima dei pasti eleva una preghiera al Signore Oscuro e per il suo compleanno gli venderà l'anima in una foresta infernale. Qualche nostalgico ha storto il naso davanti alla violenza inaspettata, agli spruzzi di sangue, all'ironia macabra: gli amanti dell'horror lo hanno trovato un po' troppo teen, gli amanti del teen un po' troppo horror. Qualcun altro, invece, ne ha sottolineato le imprecisioni e le incongruenze: ebbene sì, ci sono chiese sataniste di tutto rispetto là fuori, e gli adepti non perdonano le libertà creative del team di Roberto Aguirre-Sacasa. Delle Terrificanti avventure di Sabrina si è parlato e sparlato sotto Halloween: lo speciale natalizio è già alle porte e la seconda stagione, confermata a scatola chiusa, è attesa per il prossimo aprile. In pochi però, nelle chiacchiere generali, mi hanno detto come fosse. Spalmato in un mese di visione, senza la minima esigenza di darmi al binge watching, il ritorno di questa Sabrina non ha creato dipendenza ma mi ha stupito per il coraggio di osare. Nonostante la trama non riservi niente di nuovo – un po' di Streghe, un po' di Buffy, con tanto di accademia magica che ricorda una Hogwarts gotica –, ne ho apprezzato l'ottima fattura rétro, la mancanza di cerimonie nel parlare di sesso e morti violente, piccoli brividi comunque preferibili a quelli dell'ultimo American Horror Story. Sabrina si spoglia, taglia gole, pratica esorcismi, assiste ad orrendi rituali cannibali, sfida la paura del cappio in riti d'iniziazione che vorrebbero farne una martire. Nel quinto episodio, un autentico gioiellino del filone, un demone del sonno alla Freddy Krueger gioca con le fobie e le fragilità dei membri della famiglia. Negli ultimi, invece, gli spettri delle vittime dell'Inquisizione minacciano vendette trasversali e non sono al sicuro neppure i coetanei della protagonista – oltre al fidanzato, hanno ruoli chiave una medium affetta da cecità progressiva e un'aspirante transgender nelle mire dei bulli. A scuola si consigliano vecchi film e romanzi proibiti, si fondano club per sole studentesse dove celebrare il potere della diversità. In poltrona si accolgono volentieri ammiccamenti, omaggi splatter e suggestioni, con il solo appunto verso un Salem in sordina e la mancanta leggerezza. Più spaventosa che magica, la Sabrina per bambini cresciuti non incanta all'istante, ma l'efficacia del suo filtro d'amore – che vuole fidelizzarci, stregarci – potrebbe sortire a breve il suo effetto. (7)

È il giallo meglio costruito in cui vi imbatterete quest'anno. Originale nella struttura, pieno di suspance e depistaggi, imprevedibile fino all'ultimo. Ma una serie come American Vandal – tanto sperimentale da meritarsi purtroppo due stagioni e basta prima della cancellazione ufficiale – lì per lì può non chiamare. È presentata infatti come un falso documentario, ha interpreti sconosciuti che potrebbero lasciare a torto intendere troppa amatorialità, presenta spunti assurdi pronti però a farti ricredere. L'ambiente è quello dei licei americani. L'indagine, che parte dai confini scolastici e strada facendo arriva lontanissimo, è svolta dai membri di un club audiovisivo con una telecamera in spalla e la presunzione di diventare virali durante la ricerca della verità. Ci illuminano le loro ricostruzioni a tavolino, le lavagne riassuntive, le congetture a fantasia di chi guarda tanto cinema d'inchiesta. Ci parlano i testimoni, le vittime e i sospettati in confessioni formato intervista con la profondità degli studi antropologici: al vaglio, così, i vizi e le virtù di un'intera generazione. E l'amara consapevolezza, in una serie che tra le righe si fa anche politica, di come il paese dei sogni abbia bisogno di eroi e capri espiatori – alle stesse conclusioni giungeva anche la caccia alle streghe contro Tonya Harding. Difficile aspettarsi un simile impegno su carta: American Vandal sceglie la burla, il paradosso, un'ingannevole leggerezza. Il primo caso riguarda uno scherzo nel parcheggio degli insegnanti: chi ha deturpato venti automobili con una bomboletta spray? Nel secondo, più in grande e forse per questo meno spontaneo, ci si sposta in un istituto cattolico: i nostri detective per caso sono diventati famosi nel mentre, possono permettersi attrezzature sofisticate e appoggi maggiori, ma in fondo li si preferiva alle prime armi. Il caso tuttavia scotta, e seguirlo al solito a cena non è stata affatto un'idea vincente. Perché qualcuno a mensa ha messo i lassativi nella limonata? Fra falli scarabocchiati sulle fiancate delle macchine e diarrea a spruzzi in quantità, le piste di American Vandal non smettono mai di sorprendere. Cosa mostriamo agli altri e cosa teniamo per noi? Perché spacciarsi per qualcuno di diverso su social che la vita sociale, paradossalmente, l'hanno cancellata a colpi di Mi piace? Quando sposare in pieno il luogo comune, quando rifiutarlo a beneficio dell'onestà? Le risposte in un thriller con le problematiche dei nostri ragazzi e gli incastri studiati di Agatha Christie. Un esperimento sociale che schiera in campo l'intelligenza degli autori, l'originalità dei mezzi, per vandalizzare un genere ormai abusatissimo e dagli scarabocchi osceni, dai purulenti virus intestinali, far nascere i germi di una piccola rivoluzione. (7,5)

lunedì 15 ottobre 2018

I ♥ Telefilm: Élite | The Affair S04

Indossano le divise inamidate e le facce da schiaffi dei rampolli di Gossip Girl. Condividono i legami pericolosi e i segreti di How to get away with murder. Si parla di sesso e stupefacenti come in Skins, e non si ha paura di esporre generosamente i corpi o di rivolgersi all'occorrenza allo spacciatore di fiducia. È da una versione meno politicamente corretta di Tredici, però, che si prendono in prestito il cadavere di un'adolescente scomoda e tabù a fantasia. L'enorme differenza è che non siamo né nell'Upper East Side né in una serie a tesi pensata per un pubblico di adolescenti pudibondi. A spalancarsi, infatti, sono le porte di una scuola privata spagnola in cui non esistono censure o benpensanti. Si assisterà agli intrighi e agli amori dei teen drama di ogni dove, quindi, ma calcando la mano. Spesso esagerando non poco, vero, fra omosessualità e fondamentalismo religioso, truffe e gravidanze in forse, zuffe e discriminazione. Ma sono uno spettatore che rinnega talora le mezze misure e, se si tratta di guilty pleasure, pretendo siano così: divertenti e svergognati. Dopo La casa di carta, Netflix e la Spagna sono pronti a mostrarci lo scoppio della rivoluzione in un laccatissimo microcosmo impreparato all'ingresso del proletariato. A scuola ci sono tre nuovi studenti da scrutare con la puzza sotto il naso, infatti, e vengono dai bassi fondi: il timido cameriere Samuel nasconde un fratello galeotto e una cotta per una ragazza impossibile; Cristian, belloccio pronto a svendersi in cambio di un posto al sole, si lascia coinvolgere in un allettante mènage à trois da una coppia di fidanzatini in crisi, pronti a contenderselo per infantile capriccio; Nadia, musulmana praticante, indossa il velo a lezione, diventa l'oggetto di una scommessa erotica alla Cruel Intentions e protegge un fratello gay (in coppia proprio con un tennista della stessa scuola) dalle reazioni repressive di una famiglia troppo religiosa. Li unisce, li divide e li fa scoppiare, gettando prima il sasso e nascondendo poi la mano, la sfuggente Marina: sedicenne ribelle che si trasforma pian piano in vittima imperfetta, con una doppiezza e un'ambiguità che la collega Hannah Baker – capro espiatorio come lei – probabilmente si sognerebbe. Chi l'ha uccisa? Anzi, maestra di frequenti inimicizie quale era, chi l'avrebbe voluta viva? Gli spagnoli si confermano insuperabili con il giallo e gli eccessi delle telenovelas: alla combinazione tra le due cose, al trash che crea dipendenza vera, perciò non si resiste. Ricco, sfrontato, a nudo, Elite scotta per forma e contenuto, rivelandosi con malizia ben più colpevole delle serie affini. I suoi capi di imputazione: detenzione e spaccio, falsa testimonianza, omicidio colposo, atti osceni in luogo pubblico. Che dopo questi otto episodi introduttivi, allora, torni presto in aula: magari sexy e recidivo proprio come lo abbiamo conosciuto, pronti a dichiararlo l'imbattibile guilty pleasure di questa annata. (7)

Riallacciare i ponti con The Affair senza prima passare dalla terza stagione, definita disastrosa da spettatori di fiducia che, come me, avevano apprezzato per due anni consecutivi questo dramma che sempre di sesso, voltafaccia e menzogne parlava. L'ho fatto, sì, in nome di una serie che sembrava essere ritornata fortunatamente agli antichi fasti, sui propri passi, violando una regola non scritta nel manuale degli spettatori seriali: mai barare. C'era il senso di colpa. C'era il presentimento che mi mancassero i nessi logici, le basi, avendo saltato quasi per intero il precedente arco di episodi. Più forte, però, era il desiderio di qualcosa di valido, di qualcosa di ben scritto, se su altri fronti le incensatissime Sharp Objects e Maniac deludevano. Ho fatto bene, decisamente, e da qui sorge una domanda quanto mai piena di sconcerto: perché il passato scivolone, con un pessimo Fraser nel cast e nuove parentesi affatto convincenti, responsabile forse di aver fatto abbandonare a tanti un prodotto che a sorpresa aveva ancora molto da dare? Sono passati un numero imprecisato di anni dai fatti della prima stagione. Sono cambiati i partner, le città, il numero dei figli a carico, la conformazione delle famiglie. A restare è una struttura bipartita che mostra i quattro protagonisti allo specchio, al bivio: ognuno con una propria storia, ognuno con una versione dei fatti. Partiamo da Dominic West, lasciato prima dalla moglie e poi dall'amante, che dopo un best-seller e il carcere scopre la vocazione all'insegnamento e si trasferisce a Los Angeles per il bene di figli che, tuttavia, poco lo considerano: sarà uno studente talentuoso e ribelle a motivarlo, quando tutto sembra perso. Maura Tierney, la ex livorosa, fa invece i conti con la malattia del nuovo compagno – il chirurgo Vic, personaggio a cui si vuole un gran bene – e le tentazioni di Emily Browning, libertina vicina di casa. Ruth Wilson, da sempre donna fragile e problematica, ha avuto intanto un'altra bambina, frequenta un altro uomo – Ben, reduce di guerra perfino più fragile e problematico di lei – e, colta sull'orlo dell'abisso, rischia purtroppo di oltrepassare il punto di non ritorno. Questa, però, è la stagione per eccellenza di un Joshua Jackson in cerca di rivalsa e di se stesso: ora tradito, ora traditore, tenta di esorcizzare lo spettro del primo amore e, attraverso cinque compiti da portare a termine, di dire addio al ricordo di una Alison irraggiungibile. Che fine ha fatto quella Wilson ferita nell'anima, presenza evanescente sin dal primo episodio? In un viaggio a tre verso Princeton nasce un'impensata collaborazione tra West e Jackson, storici rivali costretti a riporre l'ascia di guerra per la donna a cui entrambi tengono ancora. Ci sono meno rancori, meno bugie, ma ugualmente tanti segreti. Scarseggia il sesso spinto, nella stagione più matura delle quattro, e ci si dà a confessioni struggenti (il nono episodio è uno shock) e a qualche rara caduta di stile (vedasi i padri che ritornano per un trapianto di reni, oppure le gravidanze inattese) grazie a una coralità compatta, prima dislocata e poi d'improvviso riunita, galeotta una Alison che fa da mastice e mistero. Ci si prova a rimpiazzare come si può, nell'impossibilità di dimenticarsi. Lo stesso, con un sospiro di sollievo, può dirsi anche di una serie tornata agli alti livelli di un tempo, che invece, sfiduciato nel profondo, io davo già per persa. Chiodo scaccia chiodo: lo sanno bene i protagonisti, tentati dall'idea della pace. E così, allo stesso modo, un grande ritorno scaccia al suon di dialoghi intensi e prove viscerali un errore di percorso che, a proposito di The Affair, ci era parso un tradimento imperdonabile. (7,5)

mercoledì 5 settembre 2018

I ♥ Telefilm: Sharp Objects | The Innocents

Il romanzo è sempre meglio del film, o così sostiene qualche lettore. Cosa succede però se i nomi coinvolti sono troppo importanti per non ammettere un'eccezione alla regola? Cosa succede se non è di un film ma di un telefilm che si parla e se, cosa nota di questi tempi, sul piccolo schermo si è soliti aumentare il numero dei capitoli, la qualità, l'intensità? Inizialmente pubblicato con il titolo Sulla pelle e poi protagonista di innumerevoli ristampe, tra lo straordinario successo ottenuto al cinema da Gone Girl e quello di questa miniserie HBO già sulla bocca di tutti, l'esordio di Gillian Flynn – a quando un nuovo romanzo, mi domando, e quando decidersi a rinunciare a vivere di rendita? – non convinceva: un trio di magnetiche protagoniste femminili, infatti, faceva carta straccia di una trama che stentava a reggersi. Una giornalista dal corpo ricoperto di tagli autoinflitti che torna a casa in cerca di scoop, il ritrovamento di due adolescenti con i denti cavati di bocca, i segreti di una famiglia che vive di apparenze e quelli di una provincia americana arricchitasi conducendo maiali al macello o rievocando antiche battaglie. I sospettati: un padre e un fratello maggiore che reagiscono male al lutto, e ancora peggio alla pressione pubblica. Gli oggetti contundenti con cui marchiarsi a sangue il corpo, non soltanto quelli del delitto, bensì le lingue affilate di una matriarca gelida e di una sorellastra arrivista; la relazione passeggera con un detective dalle buone intenzioni, forse troppo gentile per un'anima nera come lo è in fondo la problematica Camille. Trattandosi di una trasposizione fedelissima, nel bene e nel male, il destino di banalità e confusione di Shap Objects vive un'immancabile replica in tivù: ecco palesarsi gli stessi contro riscontrati su carta, e con una divisione in episodi – otto di un'ora ciascuno, dunque tanti – che li esacerba allo sfinimento. I ritmi diventano dilatatissimi, il giallo un pensiero incidentale e le protagoniste, distrazioni eccellenti, uno specchietto per le allodole. Ci si prova a convincere del contrario, allora, con un montaggio a regola d'arte che rende la struttura un puzzle; con una colonna sonora lisergica, in cui sono le note dei Led Zepelin a far da padrone; con la regia indie di un Vallée con il pallino per le storie al tempo del metoo e per le donne con gli attributi. L'abuso della telecamera a mano mi ha innervosito, a lungo andare, e proprio non mi sono fatto bastare l'impegno di un'apatica Amy Adams che, colta fuori dalla sua comfort zone, si fa rubare la scena da Patricia Clarkson superba e dalla rivelazione Eliza Scanlen. Rinnovare il copione di un giallo non particolarmente ispirato rendendolo, più che d'autore, pretenzioso? Sharp Objects con me ha ingranato a fatica e dopo essersi preso tutto il tempo del mondo, troppo, accelera all'inverosimile nel frettolosissimo finale – stralci di spiegazione, pensate, sono relegati in flashback lampo dopo i titoli di coda, alla stregua di un horror di infima categoria. È una penna scarica, un coltello spuntato. Una serie, annunciata in anticipo come l'evento dell'estate, che non graffia un lettore coriaceo. Farà senz'altro faville durante la prossima stagione dei premi, mieterà consensi e mi sottoporrà a più di qualche critica, ma per me rimarrà un mistero. Meno scontato e più fitto ancora di quelli nascosti nel cuore della sordida, sonnacchiosa Wind Gap. (5,5)

Si conoscono a scuola. Candidi e innocenti come da titolo, June e Harry sono una specie da salvaguardare in una generazione che brucia in fretta le tappe e veicola modelli sbagliati. Lei cresciuta nell'inganno, con un patrigno che l'ha protetta con le buone e con le cattive dalle domande su una madre scappata lontano da loro dopo una notte di cui in giro ancora si mormora; lui, più intraprendente, alle prese con un genitore catatonico che necessita di attenzioni continue. Si innamorano presto ma di nascosto, scoprendosi ugualmente fragili e in cattività, e pianificano la fuga su una Fiat sgangherata. Meta: una Londra mai così distante da quella provincia senza prospettive. Il viaggio in macchina, già consolidata metafora giovanile di per sé, svela in fretta la natura nascosta della protagonista: è una mutaforma, creatura sbucata direttamente da una leggenda scandinava. Scopriranno insieme che ci sono altri come lei, identici nella natura ma opposti nei desideri: possedere qualcun altro è erotico, infatti, sa di onnipotenza. Soprattutto, si accorgeranno insieme allo spettatore che c'è una trama parallela alla loro che conduce a un'isola in Norvegia: una casa di donne, portatrici dello stesso inspiegabile gene, sedotte e controllate da uno psichiatra con il volto del sempre fascinoso Guy Pearce. Questi novelli Romeo e Giulietta, accomunati dallo stesso finale (di stagione) tragico, rischiano di perdere innocenza e alchimia strada facendo, confusi sui loro stessi sentimenti. Rischia di perdersi lei, June, nel riflesso di quella mamma che non si è mai raccontata con limpidezza e di un dubbio che intanto logora la coppia. Non bisogna perdere il controllo: la protagonista ha sperimentato che basta un tocco anche fugace, quando è fuori di sé, per risvegliarsi in un corpo che non le appartiene e, suo malgrado, per profanarlo, lasciando lungo la strada uomini e donne come gusci vuoti. E l'amore, invece: ha effetti collaterali oppure ti salva? Di teen drama a tinte fantasy si tratta, sì, e con passioni salvifiche, famiglie preoccupate e cattivi annunciati ci si intrattiene per otto episodi. Fortunatamente, non siamo nei territori post Twilight: vuoi i protagonisti sconosciuti e acqua e sapone, che insieme formano una coppia tenerissima; vuoi i grigi acquosi e la pacatezza delle produzioni britanniche; vuoi una storia semplice ma ad alto tasso emozionale, complice la colonna sonora indie rock, che agli adolescenti parla di identità metaforicamente e non. Romanzo di formazione sci-fi, delicatissimo tanto nella componente sentimentale quanto in quella mitologica, The Innocents è la serie di cui nessuno sta parlando: perché piccola, comunque più di quanto ci si aspetterebbe da una coproduzione internazionale, ma piena di grazia. (7)

giovedì 23 agosto 2018

I ♥ Telefilm: Insatiable | UnREAL S04

In sovrappeso, seguita a ruota da una migliore amica dai dubbi gusti sessuali, figlia di una mamma single che per lavoro sforna burritos e di un padre dall'identità segreta, Patty, diciassette anni e sentirsene cento, è il ritratto dell'impopolarità in un'età – in un Paese – che pretenderebbe bellezza, valori tradizionali, modelli vincenti. Chi poteva immaginarlo che l'ennesima prepotenza – il pugno di un barbone rissoso – avesse dei pregi? Dimagrita di trenta chili durante la convalescenza, più avvenente ma non per questo più felice, la liceale punta alla vendetta. Adesso vuole vincere, anche a costo di umiliare o allontanare gli altri. Soltanto così può andare oltre il famigerato soprannome di Maiale Patty. Rimpiazzandolo, magari, con una nuova reputazione: anche pessima. Sete di sangue e fame di vendetta portano la semisconosciuta Debby Ryan a incrociare così la strada di Dallas Roberts, irresistibile cinquantenne in crisi d'identità – ufficialmente avvocato ma, a porte chiuse, consulente di bellezza nell'occhio del ciclone –, che si barcamena fra le arringhe e i pettegolezzi, la moglie Alyssa Milano e il rivale brillante di un Christopher Gorham che più invecchia, più si fa bello. Boicottato per presunto fat shamingInsatiable è l'anti-Tredici per eccellenza: commedia adolescenziale di nero vestita che scherza sullo stupro, sull'aborto e la sessualità, sui chili in più, con sommo disappunto di chi non apprezza il grottesco o l'umorismo caustico. A ben vedere, però, il dente avvelenato è pura apparenza: ecco la morale, sempre (ben) nascosta dietro l'ennesimo sfottò alle serie TV a tesi, al perbenismo medio-borghese, a cacce alle streghe in nome del politicamente corretto che di questi tempi fanno più male che bene. Cattiva Patty, che per tutta l'adolescenza ha covato tra sé e sé una rabbia ferocissima, o forse gli altri? I comportamenti diseducativi dell'ex bruttina, comunque eternamente sulla difensiva, smascherano infatti l'opportunismo di nemici convertiti in amanti. Si parte dalle aule di tribunale del pilot, per poi muoversi fra concorsi di bellezza e aule scolastiche: la stessa giungla spietata. Insatiable, ho constatato con un po' di sorpresa, non ha la struttura della comedy che ci si aspetterebbe: quei quaranta minuti, giudicati troppi all'inizio, si rivelano utili invece per seguire le vicende di amici, mentori e figuranti, tutti ugualmente indispensabili – e, sempre con un po' di sorpresa, tocca scoprire strada facendo quanto gli intrighi degli adulti divertano più di quelli dei giovanissimi del cast. La scrittura, per quanto spassosa, non è purtroppo il punto forte: va incontro a qualche problema con personaggi che troppo in fretta passano da buoni a cattivi, dall'ira al pentimento insincero; svolte e situazioni a dir poco sopra le righe, con attori ridotti a macchiette caricaturali per amore della risata facile; contaminazioni con l'horror o con le soap opera che mancano tuttavia del candore sincero di un Jane The Virgin. Deliziosamente perfido, questo guilty pleasure al sangue pizzica il palato con personaggi al limite – dell'immoralità, del buon gusto – e battute senza peli sulla lingua che scontenteranno i buonisti. Se la scorrettezza con me vince facile, minaccia sul fronte opposto di far perdere iscrizioni in casa Netflix: probabilmente non rivedremo Insatiable, da sacrificare sull'altare delle future cancellazioni, e me ne dispiaccio. Morale della favola? La vendetta dà la bulimia. Ma la mia insaziabile fame di trash, intanto, è stata per fortuna parzialmente placata. (6,5)

Dopo l'affannoso trascinarsi della stagione precedente, inatteso e in sordina torna per la quarta volta UnREAL. Il proposito di non proseguire: accantonato senza ripensamenti alla notizia che all'indomani di questo nuovo arco di episodi – otto, e non dieci come da patti – non ce ne sarebbero stati altri. Accorciata, cancellata, la serie scritta dall'acclamata Marti Noxon – autrice in questo stesso palinsesto del soporifero Sharp Objects – era stata infatti salvata da Hulu, e da Hulu messa in streaming per un binge watching conclusivo. Lasciati da parte i toni delle passate puntate, più moraliste e per questo, forse, inadatte a chi sin dall'inizio domandava intrattenimento senza tabù, Everlasting – fittizio programma d'incontri sulla scia del nostro Temptation's Island – riscopre fieramente il trash e la crudeltà. Che gli spettatori armati di un altro po' di pazienza, perciò, si preparino a un'edizione stellare. Shiri Appleby e Constance Zimmer, all'apparenza complici e manipolatrici come ai tempi d'oro, hanno chiamato all'appello vecchi concorrenti affinché a nessuno venisse negato il lieto fine. Tra questi, un ballerino bisessuale e tossicodipendente, con un programma tutto suo in uscita e le peggiori intenzioni di rovinarsi gambe e reputazione; una giovane vittima di stupro che in gara ritrova proprio il suo assalitore, ben lontano dall'abbandonare il suo spregevole vizietto; una spogliarellista, un'intrusa, che nella sorpresa generale dà al femminismo un nuovo volto. Se Quinn, incinta contro ogni pronostico, a tratti si addolcisce in nome dell'istinto materno, è una Rachel bionda e spregiudicata a far sembrare quisquiglie gli scorsi misfatti: totalmente fuori controllo, fa concorrenza alle partecipanti, facendo perdere il conto degli amanti e degli errori. È lei la vera nemica delle ragazze in gara, e soprattutto di sé stessa. Per un lungo tratto, dunque, riaccogliamo a braccia aperte il black humour, i piani machiavellici, gli sgambetti che infrangono legge e buon gusto. Cosa vuol saperne la coscienza, infatti, se lo share parla chiaro? Troppo presto, però, per cantare vittoria. E ci si mette purtroppo di mezzo quel finale affrettato, imperdonabilmente tarallucci e vino, all'insegna della solidarietà – e dell'incoerenza – femminile. Più che una brusca virata, si fa allora retromarcia. Quando, date le premesse, il redivivo UnREAL poteva ambire in extremis persino a superarsi. (6)

sabato 26 maggio 2018

Metti una sera su Netflix: The Kissing Booth, Newness, 6 Balloons, Happy Anniversary, Verònica

Shelly è una di quelle adolescenti di cui ti accorgi quanto sono belle da un'estate all'altra. Le curve sbucate all'improvviso e l'allestimento di un chiacchierato stand dei baci rappresenteranno per lei un grattacapo non da poco. Colpa della gonna troppo corta se i coetanei fanno apprezzamenti spinti, che la imbarazzano e segretamente la lusingano. Colpa del rissoso e iper protettivo Noah se, con la scusa di proteggerla, si avvicina quel che basta a innamorarsi corrisposto di lei. Peccato sia il fratello maggiore di Lee, che di Elle è l'amico di tutta un'infanzia. Peccato che tra i due, pappa e ciccia, ci siano regole da non violare in nome di un lungo sodalizio. In fatto di sentimenti, i parenti sono materia proibita. Amore o amicizia? E che amicizia è, poi, se ci domanda di scegliere? Tratto da un romanzo in uscita per De Agostini, The Kissing Booth avrebbe potuto scoraggiarmi – con la sua aria appartentemente televisiva, con i suoi triangoli indigesti da un pezzo –, se non fosse stata per la media online che non ti aspetti. Che sia nel suo piccolo un'eccezione alla regola, per fortuna, te ne accorgi presto. Il segreto: la verve di Joey King, non bellissima eppure adorabile, degna della cotta che contrappone gli aitanti Joel Courney e Jacob Elordi. Commedia romantica frizzante e spiritosa, leggerissima, ricorda i teen cult degli anni '80 senza ricorrere alla retromania dilagante già bella che venuta a noia – a cosa serve ambientarla in un passato d'oro, poi, se hai mamma Molly Ringwald nel cast e un confronto finale sulle note di Don't You (Forget About Me)? Una sedicenne come tante e come nessuna, John Hughes che dà appuntamento al recente The Duff, ritmi azzeccati: come strapparti sorrisi frequenti, così, e un ultimo bagio. (6,5)

L'amore oltre il confine, quello clandestino, quello proibito se all'interno di una distopia futuribile. Drake Doremus torna a raccontarcelo a modo suo. Tema inesauribile con altri angoli da indagare, nuove tecnlogie con cui fare i conti. Quello tra Nicholas Hoult e Laia Costa – così belli e talentuosi da fare invidia – sboccia sui siti d'incontri, e a causa di quelli rischia di morire. Lui, con già un matrimonio alle spalle, è segretamente in cerca della compagna giusta. Lei, spagnola in terra americana, insegue l'orgasmo. La loro notte di fuoco si trasforma in una convivenza di cui ci si annoia presto. Eppure troppo giovani per un terapista di coppia, innamorati come dicono, aprono le porte della camera da letto ad altre persone: non sanno bastarsi. Il sesso prima li unisce, poi li divide. Hoult ossessionato dai rimpianti verso la storica ex, la Costa presa da un uomo più grande. Dedicato alla memoria di Anton Yelchin, autentico ma prolisso senza reale motivazione, Newness parla come Genovese degli effetti collaterali che la tecnologia ha sul cuore e dei contro delle novità a tutti i costi: riflessioni post-moderne accompagnate da un tocco ormai riconoscibile, con dialoghi quotidiani, una fotografia bluastra e primi piani morbidissimi ma mai indulgenti – al contrario dei film precedenti qui c'è tanto contatto fisico e scarsa intimità: ci si confessa i reciproci amanti, mai i segreti personali. Questo amore online, quest'ultimo Doremus, piace sempre, ma meno del solito: se scettici come me all'idea della coppia aperta, ma attenti alla sensibilità del cinema indipendente. Se abbastanza vecchio stile da non credere nelle sperimentazioni e alle lacrime di coccodrillo di protagonisti un po' scostanti. La libertà, per ironia della sorte, sta nel legarsi spontaneamente; nell'annoiarsi insieme, in un finale che finalmente emoziona. Osando desiderare qualcosa di proprio in un mondo usa e getta, a forma di smartphone. (6,5)

Il quattro luglio, un giorno di festa. All'Indipendenza si aggiunge l'organizzazione di un compleanno a sorpresa. L'affaccendata Katie recupera festoni e palloncini colorati, il miglior vestito dal fondo dell'armadio e soprattutto gli invitati. Compresa la sua famiglia. Compreso il fratello minore, Seth: già ragazzo padre, già entrato e uscito in un indistinguibile andirivieni dalle cliniche di disintossicazione. Passarlo a prendere a casa diventa un'impresa: salvarlo di nuovo dall'eroina. Si dimena come un pazzo sul sedile anteriore. Porta le maniche luglie in piena estate. C'è ricaduto. Il bruciore della dipendenza, più forte dell'amore verso una bambina col pannolino sporco a cui ha promesso in pasto i fuochi d'artificio. Per Katie – una vita in differita, consacrata alle fragilità del prossimo –, invece, il sangue del suo sangue viene prima del futuro. In cerca ora di una clinica, ora di un'ultima dose, Abbi Jacobson accompagna un ottimo Dave Franco, alle prese con la prima grande prova distante dalle commedie demenziali e dall'ombra del più famoso James, in una Los Angeles in cui tutti vanno in rehab e le tentazioni sono sempre dietro l'angolo. Lei, con un vestitino da cocktail fuori luogo nei mondi di Shameless, sfida i bassifondi e attacchi di panico in cui pensa letteralmente di annegare (e Seth, in tutto ciò, resta la sua zavorra). Lui, in preda ai sudori freddi, al vomito e agli attacchi di dissenteria, è un tornado che ti porta in alto nei momenti di euforia e poi ti distrugge. Un'ora e quattordici per passare a comprare una torta d'alta pasticceria e la droga. A sorpresa, abbastanza per affezionarsi alla semplicità e al realismo di questo film. Due protagonisti al loro meglio. Una regia notturna, serratissima, con un taglio stilistico alla Sean Baker che a tratti lo rende un gioiellino. Dramma indie sparato dritto in endovena, 6 Balloons ha tutto il dolore, la violenza e la tenerezza che possono starci. In una macchina che porta verso i pusher. In un palloncino a elio sospeso nella speranza, finché non scoppia. (7)

Sentirle dire che non è felice davanti a una colazione a letto. Davanti a un ragazzo che, fra giochi erotici, piccoli riti e un linguaggio di gesti e risate coniato soltanto per loro, cerca di mantener viva la scintilla. Lui, infatti, è sentimentale per natura. Lei, la realista dei due, pare invece eternamente insoddisfatta. Colpa di un figlio che non arriva, degli ex, del cane che puzza, della cortesia esagerata del primo e della luna storta dell'altra. Il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto? Melodramma (pre)matrimoniale con protagonisti logorroici, bizzarri e umani che sperimentano al terzo anniversario le gioie e i dolori di mettere il cuore al vaglio, la commedia Netflix ha comprimari telefilmici per nulla indispensabili (Isidora Goreshter da Shameless e Kristin Bauer van Straten da True Blood) e un piglio indie che, al solito, la salva dai connaturati difetti. Dopo tre anni d'amore, per la copia uscita peggio di Zoey Deschanel, Noel Wells – già vista e mal sopportata in Master of None –, e Ben Schwartz, è in agguato la fine o forse un'altra occasione? Tutta questione di punti di vista, in Happy Anniversary. Un giorno all'apparenza lieto innesca nella coppia – che prende in giro le smanie dei coetanei radical chic, che si dà contro per sport pur di non cadere vittima della medesima ipocrisia – una serie di reazionie e pensieri collaterali. Accontentarsi. Ingannarsi. O, semplicemente, rassegnarsi al fatto che il tempo si cambi, anche come amanti? (5,5)

Non ho mai fatto mistero della mia predilezione per il cuore nero degli horror iberici, né per la concezione secondo la quale nel cinema di genere – ormai senza idee vincenti – si debba preferire la forma alla sostanza, se in cerca di qualche guizzo. Verònica è un film che gioca con il fuoco delle tavolette Ouija e il fascino delle evocazioni: l'ennesimo. Corrono gli anni Novanta, ed ecco i poster alle pareti delle adolescenti, le cuffiette del walkman nelle orecchie e un piacevole gusto kitsch, che contempla luci al neon e musica elettronica. La protagonista, quindicenne, è la primogenita di una famiglia bella ma popolosa, in cui lei si trova a fare un po' da mamma. Anche se aspetta ancora il primo ciclo mestruale, confine invisibile fra le donne e le bambine. Anche se le ragazze responsabili non trafficano con l'occulto da edicola, con il rischio che qualcosa – un'ombra alla James Wan, mostrata con intelligenti vedo-non vedo – si impossessi del suo corpo. Non mancano i cliché: la suora cieca con un fiuto per il male; il detective messo in difficoltà da un crimine con implicazioni paranormali. Non manca lo splatter, con un lungo incubo in cui la protagonista viene divorata dalla nidiata di fratelli minori: gli stessi che rendono adorabili, eppure, la quotidianità e il giovane cast – su tutti ovviamente lei, la bravissima Sandra Escacena – dell'ultimo film del sempre affidabile Paco Plaza. Il regista, braccio destro di Balaguerò nella saga in caduta libera di Rec, ricorda i nostri Fulci e Argento nella grana autenticamente rétro delle immagini; perfino lo Spielberg di Incontri ravvicinati, con il tenero Antonito incantato sull'uscio del bagno. L'eclissi oscura Madrid e anima un ipnotico delirio, fra possessione satanica e allucinazioni, con un tocco d'autore – classico e modernissimo insieme – che, come si diceva, sa fare la differenza. Inquietante metafora del diventare adulti come il cannibale Raw, Verònica è la riprova di come il male padroneggi tutti gli idiomi del mondo. Lo spagnolo, lingua di balli di gruppo e brividi non da poco, a quanto pare, meglio di altri. (7,5)