martedì 25 novembre 2008

Se senti una di queste 8 cose... SCAPPA!

Questo post si riallaccia ai due precedenti, e vuole esserne un'integrazione.
Ci siamo divertiti tutti a dileggiare le castronerie ascoltabili da un aspirante designer a un colloquio d'assunzione, ma anche dall'altra parte della barricata non si scherza.
Come scrivevo, non è passato poi troppo da quando ero io a "fare il giro" delle agenzie di comunicazione, e anch'io ho raccolto una discreta serie di frasi che col tempo ho imparato a decodificare.
E sarei molto, molto ingiusto se non mettessi voialtri a parte di queste perle di saggezza acquisita.
Da notare, anche qui, che le seguenti frasi me le sono sentite ripetere ben più che una volta ciascuna.
“Il nostro budget non è alto”.
Ti pagheremo un tozzo di pane e una crosta di formaggio. Se ti pagheremo.
“Per il compenso, poi ci accordiamo”.

Studieremo un modo per non darti nemmeno un soldo.
“Lei ha un suo computer? Può portarlo con sé, all'occorrenza?”

Siamo dei poveracci, e non possiamo permetterci di comprare un computer per il grafico. E anche se potessimo, non abbiamo nessuna intenzione di comprartelo.
“Facciamo qualche giorno di prova, e poi vediamo come va”.

Preparati a un paio di mesi a paga zero, al termine dei quali ti butteremo fuori a calci.
“L'orario di lavoro è elastico”.

Se vuoi, attrezzati con un materassino perché regolarmente ti chiederemo di fare notte in agenzia.
“Lei è automunito?”

All'occorrenza, ti utilizzeremo come fattorino.
“La nostra agenzia cerca di venire incontro alle esigenze del cliente”.

Preparati ad azzerbinarti in maniera assolutamente indecorosa.
“Qui facciamo un lavoro di squadra”.

Non prenderai mai una decisione esecutiva e il tuo parere non conta una beneamata ceppa.

lunedì 24 novembre 2008

10 cose da non dire quando fate vedere il vostro portfolio

“Questi son lavori vecchi che non mi piacciono più”
E allora che me li hai portati a fare?Sì, lo so che sono prevalentemente illustrazioni, ma la pubblicità non mi interessa”.
Gesù salvaci.
“Capisco che il mio lavoro sia diverso dal genere che fate voi, ma pensavo che magari aveste deciso di introdurre qualcosa di meno vecchio e noioso”.
Sciogliete i cani, per favore.
“No, la vostra agenzia non l'ho mai sentita, ma mi sono detto: proviamoci con tutte”.Almeno è sincero.
“Io però uso Windows”Noi no.
“No, questi sono layout che ho fatto così... a casa ho della roba meglio”.E sta bene a casa.
“Ho cambiato il logo della vostra agenzia perché così mi sembra migliore”.Grazie.
“Pensavo di propormi come art director”.In effetti ne abbiamo bisogno.
“Qual è la mia postazione?”In piedi accanto la fotocopiatrice ti andrebbe bene?
“Queste sono le mie condizioni, non accetto altro”.La richiamiamo noi.

Notare che ognuna di queste frasi me le sono sentite dire tutte almeno un paio di volte.

Posso farle vedere il portfolio? (parte 2)

Torniamo sul discorso “come presentare il portfolio”.
Diamo per scontato che avete organizzato per bene i vostri lavori, che siete convinti della loro qualità e che vogliate mettervi alla prova.
Avete preparato per bene il vostro portfolio, siete riusciti ad ottenere un colloquio presso l'agenzia dei vostri sogni... ora è il momento della verità,
Cosa fare?
Anche in questo caso, è sufficiente che vi comportiate con educazione, senza sommergere di parole il vostro interlocutore, ma neanche consegnargli il portfolio e poi restare nel silenzio più assoluto.
Naturalmente, il vostro lavoro dovrebbe già parlare da solo, ma qualche parola di accompagnamento sarà gradita.
Accompagnamento, non giustificazione.
Non adducete scuse come "questi sono lavori vecchi", "questi li ho fatti quando ero disoccupato", "questi erano belli ma il cane me li ha mangiati"...
Se voi per primi non siete convinti di quel materiale, allora perché lo avete messo nel portfolio?
Se il curatore vi fa delle domande, rispondete efficaciemente ma con sintesi.
Se il curatore sfoglia velocemente il vostro portfolio, non è un buon segno.
Ma non è necessariamente vero il contrario.
Se non vi sembra interessato e vi liquida in cinque minuti, non insistete.
Forse le cose che fate non sono quelle che servono all'agenzia dove vi state proponendo o forse (e questa è l'ipotesi peggiore) i vostri lavori non sono interessanti.
Non lasciatevi abbattere, ma anzi chiedete un consiglio alla persona che vi sta davanti. Nove su dieci non ve la rifiuterà, anzi, si sentirà la coscienza sollevata dall'avervi respinto e può darsi che vi arrivino anche ottimi consigli.
Ma, tornati a casa, non smontate il portfolio da cima a fondo.
Ricordate che quello che non interessa a Walter & Thompson, magari può interessare a Saatchi.
Se non interessa a nessuno... allora forse è il caso di mettere in discussione la bontà o il senso dei lavori che avete proposto, prima di cominciare a dire che siete dei grandi incompresi ed emigrare in Inghilterra o in Olanda.
Se il curatore vi sembra interessato, quasi certamente non vi darà subito una risposta, perché magari ha altri candidati da esaminare, o deve consultarsi con qualcun altro, o semplicemente vuole pensarci su.
Lasciategli un campione del vostro lavoro con sopra scritti i vostri recapiti, informatelo chiaramente della vostra disponibilità e, se ci riuscite, estorcetegli un indirizzo email diretto a cui potete scrivergli per "tenersi in contatto" (frase magica che fa da preludio a una prossima collaborazione).
Non svendetevi, non scodinzolate, ma neanche fate una scena del tipo "Non sapete che occasione avete perso".
In questo mestiere servono il talento, la professionalità, ma pure la tenacia.
Per il resto... in bocca al lupo!
PS Questo post non poteva essere completo senza questo video (in italiano). Se vi piacerà come è piaciuto a me, ringraziate lui.

lunedì 17 novembre 2008

Eye Level

Tempo fa vidi e registrai su Sky un cortometraggio bellissimo.
Si chiamava Eye Level ed è di un certo George Ovashvili, georgiano.
La storia era così.
I protagonisti sono due ragazzi, molto giovani, un ragazzo e uan ragazza.
Lei è seduta su un piccolo treno passeggeri su di una linea ferroviaria a scartamento ridotto, ha un cappellino di lana e un cappotto.
Fuori fa freddo, c'è la neve, e il trenino, quasi un autobus, la porta giù a valle.
A una delle stazioncine dove si ferma il treno, un ragazzo dal marciapiede la vede e si ferma a guardarla attraverso il cristallo del finestrino.
Lei lo guarda.
Non si dicono nulla.

Il trenino riparte e lui, dopo un attimo, lo vediamo inseguirlo.
Corre giù per i campi, taglia per discese e declivi innevati.
Col fiatone, si ferma di nuovo a guardarla alle stazioni successive.
Lei all'inizio non lo fila, ma poi è catturata da quegli incredibili occhi verdi che la fissano senza nulla chiedere, è sorpresa da quel tenero inseguimento.
Forse vorrebbero dirsi qualcosa, ma hanno solo i pochi istanti in cui il treno è fermo al marciapiede, ed è tutto concentrato in quegli sguardi immensi.

È una delle cose più belle e intense che abbia mai visto, e mi rendo conto che la bellezza assoluta è contenuta nella più grande semplicità.
PS Il corto dura 11 minuti, e non riesco a trovarlo in rete in modo da segnalarvelo. Ho trovato solo QUESTO, ma se qualcuno riesce a capire come visualizzarlo, mi dica come ha fatto.
Grazie.

venerdì 14 novembre 2008

Persi nell'Uncanny Valley

Questo è uno di quei post un po' lunghini, quindi se avete poco tempo o poca voglia lasciate pure stare, ma sappiate che vi perderete un argomento molto interessante.
Qualcuno si sta chiedendo dov'è questa Uncanny Valley nel titolo?
Bene, l'Uncanny Valley non è un posto: è un concetto.
O, meglio, secondo Wikipedia, un'ipotesi che riguarda la risposta emotiva degli esseri umani rispetto a robot e a computergrafica che replica l'uomo.
È stata introdotta dal roboticista giapponese Masashiro Mori nel 1970.
In buona sostanza, Mori affermava che più un robot (o un uomo riprodotto in CGI) ha sembianze o movimenti umanoidi più è alta la risposta emotiva di un essere umano nei suoi confronti.
Questa diventa sempre maggiore fino a che l'essere umano ritiene il robot o la simulazione "troppo perfetta", e quella che era attrazione diviene repulsione se non adirittura paura.
Tuttavia se l'apparenza e i movimenti diventano sempre più simili ad un essere umano senza che se ne possano notare delle differenze allora l'approccio diventa come tra essere umano ed essere umano.
Questa area di risposta emotiva repulsiva tra un robot con apparenze e movimenti umani (o una simulazione in CGI) ed un essere umano è l'Uncanny Valley.
Come dicevo, oltre che alla robotica, il concetto è applicabile anche alla rappresentazione digitale dell'essere umano.Alla Uncanny Valley è stato attribuito il fallimento del mastodontico film digitale Final Fantasy: The Spirit Within che ha quasi portato al falimento la allora fiorentissima Squaresoft, e in parte gli scarsi risultati di dei più recenti Polar Express e La Leggenda di Beowulf, che pure si avvalevano di una raffinata tecnica di motion capture anche per evitare "la valle".
Ma non c'è stato nulla da fare: istintivamente, l'uomo ha un moto di repulsione per una sua replica artificiale.
Questa figura immaginaria della “valle”, è qualcosa che separa la sfera dell’apparentemente umano dal completamente umano, creando così un senso di disagio di fronte a qualcosa che emana un senso di stranezza, non del tutto riconducibile alla razionalità, ed evocando di conseguenza un allontanamento empatico.
L’Uncanny Valley non è un vincolo imprescindibile, e si può superare in vari modi, ma principalmente quello più facile è di aggirarla del tutto.
Lezione che alla Pixar, ad esempio, hanno capito molto bene: nei loro film d’animazione digitale non si cerca mai di rappresentare realisticamente le sembianze umane, ma anzi le si modella per ottenere qualcosa di distante, di spiritoso e caratterialmente unico e non strettamente umano.
Gli eroi degli Incredibili hanno sì due braccia, due gambe e una testa, ma non cercando di essere in tutto e per tutto figure complete che si possano persino confondere per reali.
Si pongono una distanza tale che lo spettatore non deve addentrarsi nella valle arrischiandosi di non uscirne.
All'estremo opposto, il già citato Final Fantasy: The Spirit Within che non è riesciuto (al di là di carenze di altro tipo) nel tentativo di far immedesimare gli spettatori nei personaggi, pur essendo quello il suo scopo dichiarato.
La sensazione di distanza che si viene a creare a causa di quella somiglianza non del tutto reale e tangibile è infatti una barriera che impedisce di passare oltre la valle, ma anzi imprigiona al suo interno.
Sentiremo parlare sempre più spesso dell'Uncanny Valley, per il semplice motivo che l'evolversi della tecnologia ci spinge inesorabilmente verso un grado di realismo sempre più alto: sia nella robotica che nella computergrafica.
Riassumendo: se provassimo a tracciare la nostra risposta emozionale alla somiglianza con l'apparenza e il movimento umani arriveremmo a un punto dove, davanti a qualcosa che somiglia un essere umano, riusciamo a provare simpatia e niente di più.
Dopo di che, se le somiglianze aumentano fino ad arrivare a qualcosa che è quasi completamente umano ma forse troppo perfetto, proviamo disagio e rispondiamo negativamente.
Fino a provare disgusto per i soggetti privi di qualsiasi traccia di umanità (per esempio uno zombie).
Osservate i tre grafici qua sotto.
In poche parole, tutto quello che cerca di duplicare l'apparenza umana fino a una perfezione non umana non ci fascina, ma al contrario ci spaventa, ci inquieta.
Per questo motivo il dottor Mori consigliava di non cercare di replicare con assoluta fedeltà l'apparenza umana, ma di creare cose visibilmente artificiali, intelligenti ed eleganti.
Una creatura certamente antropomorfa, ma senza nessuna pretesa di essere scambiata per un essere umano.
I replicanti di Blade Runner erano indistinguibili dagli esseri umani, e la risposta emotiva dell'uomo nei loro confronti era identica a quella verso un suo simile: Rick Deckard finisce con l'innamorarsi della bellissima Rachael... ma Blade Runner era solo un film. Non vedremo niente del genere in questo secolo.
Ma è lo stesso così affascinante.

martedì 11 novembre 2008

Posso farle vedere il portfolio? (parte 1)

Le piccole processioni di grafici e progettisti alla mia agenzia ai quali tocca a me l'ingrato compito di tenere un colloquio mi hanno dato da riflettere parecchio.
Gli anni in cui ero io quello che girava con un book sotto il braccio non sono poi così lontani come mi piacerebbe credere e ricordo ancora quanto fosse stressante la pratica di “far vedere il portfolio” a qualche art director.
Ho deciso quindi di raccogliere una piccola serie di consigli su come ci si prepara e come ci si presenta al meglio per un posto di creativo.
A iniziare dal portfolio.
1. Non presentate materiale di cui non siete convinti.Non mettete roba nel vostro portfolio solo per fare volume.
Se mettete un mucchio di roba che non vi convince pienamente solo per fare vedere che avete lavorato tanto, state facendo solo perdere tempo al selezionatore e a voi stessi.
Bandite i layout non finiti, quelli che avete fatto controvoglia, quelli per il macellaio sotto casa, gli esperimenti e quant'altro.
2. Non presentate un portfolio monotematico al vostro interlocutore.Non si sa mai di cosa può avere bisogno, in quel dato periodo, all'agenzia alla quale vi state proponendo. Magari siete bravissimi nel fotoritocco, o forse il vostro forte è l'impaginazione, o ancora eccellete nel disegno vettoriale. O forse sapete fare bene tutte queste cose.
Ma non sapete cosa può far accendere la lucina in testa al selezionatore.
Magari, in mezzo a tante foto ritoccate magistralmente con Photoshop, ce n'è una con due loghi vettoriali e lui si ferma proprio su quella: state certi che si disinteresserà del resto.
Insomma, proporsi tropo specializzati potrebbe non pagare.
Questo, naturalmente, non deve violare la regola 1: mai, dico MAI inserire lavori di cui non siete convinti al 100%.
3. Un portfolio deve colpire positivamente quando lo si apre e lasciare un buon ricordo quando lo si chiude.
Aprite con uno dei vostri lavori migliori, chiudete con con uno dei vostri lavori migliori.
In apertura e in chiusura è accettabile anche un'illustrazione in Photoshop. In mezzo, però, ci devono essere lavori seri: campagne, loghi, immagini coordinate.
Cercate di non mettere le cose più vecchie all'inizio e le più recenti alla fine. Rischiate che l'attenzione del selezionatore crolli subito ed è difficile farla riprendere.
4. Non c'è bisogno di portfolio enormi con tavole originali 50x70.
Basta un portfolio piccolino, maneggevole, ordinato e con delle ottime stampe.
Io sono anni che mi batto contro i contenitori di plastica ad anelli, che sono il massimo della comodità e flessibilità, ma non certo dell'estetica.
Lo stesso portfolio può diventare un oggetto creativo che vi farà sicuramente distinguere nel mare magnum: prendete ispirazione da cose come quelle pubblicate qui.
A seguire: il colloquio.

giovedì 6 novembre 2008

Storie di grafici, 3 - Non riproducetevi

Le account non sono stupide: è che le disegnano così. 
Il brutto è che a volte si riproducono. Cioè, fanno figli.
E finché li tengono a casa, chi se ne frega. Ma talvolta, hanno l'infausta idea di portarli in studio, perché quel giorno “propriononsannoachilasciarlo” e “poiècosìpiccoloecarinochenondànessunfastidio”.
Ora, non fraintendetemi.
Non torcerei un capello ad un bambino.
Ma non mi piace che gironzolino in giro mentre lavoro.
Ancor meno sentire le altre account che se ne escono in gridolini tipo ooooohhhhhmachebellinoquestobambinoquiiiii!!!!!
E cominciano a parlargli con la vocina come se fossero dei perfetti idioti.
Uno studio di design non è un posto per un bambino, tutto qui.
Ma a volte, per fortuna di rado, càpitano.
Tempo fa mi è sembrato di vedere qualcosa alto meno di un metro trotterellare per la mia stanza.
Ho subito pensato: oddio, un Gremlin. Allora esistono davvero.
Invece era un bambino.
Un attimo dopo, entra anche l'account-mamma.
“Ti sta dando fastidio?”
“Non lo so ancora. Cosa fa qui?”
“Niente. Dà un'occhiata in giro”.
Lo guardo con sospetto. “Che cosa mangia?”
“Non dovresti chiedermi queste cose. Perché non chiedi come tutti gli altri 'come si chiama' o 'quanti anni ha' o 'che classe fa'?”
“Sì, sì, va bene. Scusa, ho da fare”.
“Certo” fa l'account, con la faccia di chi vuol dire: 'so benissimo che non stai facendo un tubo e ti dai solo delle arie da AD'.
Però esce.
Il bambino no.
Lo guardo e lui ricambia il mio guardo con indicibile sfrontatezza. Mi rimetto al lavoro, e lo ignoro. Prima o poi si annoierà e se ne andrà.
Click, click. click.
Alzo gli occhi e il piccolo essere è ancora là che mi guarda.
“Cosa vuoi?”, gli dico, la faccia di pietra.
“Che stai facendo?”
“Quello che tu non sei tenuto a fare: lavoro”.
“Che stai facendo?”
“Faccio click col mio mouse”.
“Anch'io ho un mouse”.
“Hmm.”
“Ma il mio è meglio di quello là”.
“Ah sì? E perché?”
“Il mio ha un sacco di bottoncini”.
“Ma non mi dire”.
“Però il mio schermo non è così grosso”.
“Finalmente qualcosa in cui ti batto”.
“Che stai facendo?” ripete, e spiaccica la sua mano sul monitor.
“NON toccare il monitor... ti PREGO”.
“E che sarà mai”.
“Scommetto che anche tuo padre fa l'account”.
“Mio papà lavora in ufficio. Mica come te”.
(conto fino a dieci) 
“Ah davvero? E dov'è adesso tuo papà?”
“Boh. In ufficio”.
“Probabilmente sta flirtando con la sua segretaria”.
“Flirrrrtando?”
“Niente, niente, lascia perdere. Ciao”.
“Vuoi vedere cos'ho in tasca?”
“Non me fr... va bene, fammi vedere”.
Tira fuori una gomma mezza masticata. “La vuoi?”
“No. No, grazie.”
“Ne ho un'altra”.
“E dov'è l'altra?”
“Qui”. E la stacca da dietro il mio monitor. 
Spalanco gli occhi tipo Vil Coyote.
Afferro il telefono. “(nomeaccount urlato), vieni SUBITO qui!!!”

martedì 4 novembre 2008

Scotty, ci porti su!

Affronterò in questo post un tema presente nella fantasia di molti.

Nessun tipo di tecnologia, persino più del motore a curvatura, ha avuto un impatto tale sulla cultura moderna come il teletrasporto di Star Trek.
Conoscete tutti il principio pseudoscientifico sul quale si basa: cose e persone vengono scomposte in energia, trasmesse lungo un vettore e ricomposte, esattamente così com'erano, a migliaia o milioni di chilometri di distanza.
Nessun altro elemento della tecnologia fantascientifica di Star Trek è più affascinante, e nessuno è meno plausibile.
Per creare un dispositivo come il teletrasporto si dovrebbero risolvere più problemi di tipo pratico e teorico di quanto possiate mai immaginare.
Mi sono documentato.
È un incubo.
È semplicemente impossibile.
Vediamo il problema: qual è il modo più rapido ed efficiente per spostare da un punto X a un punto Y circa 10 alla ventottesima (1 seguito da 28 zeri) atomi di materia combinati in una configurazione complessa a comporre un singolo essere umano?
E qui c'è la seconda, importante e conseguente domanda: da cosa è composto un essere umano?
Noi siamo semplicemente la somma di tutti i nostri atomi? Se riuscissimo a ricreare ogni atomo del nostro corpo, esattamente nello stesso stato di eccitazione chimica produrremmo una persona funzionalmente identica, che ha esattamente tutti i nostri ricordi, le nostre speranze, i nostri sogni, il nostro spirito?
Nonostante la natura puramente fisica del processo di smaterializzazione e trasporto, la nozione che oltre i confini del corpo esista un qualche tipo di "spirito" è un tema costante in Star Trek.
In altre parole, anche l'anima viene smaterializzata e ricostruita nel processo?
Ma restiamo, per il momento, neutrali sulla questione "anima" o "non anima".
Concentriamoci sul problema del trasporto degli atomi e dell'informazione che li tiene assieme in un certo modo.
Sapete tutti quanto è facile trasportare attraverso Internet un flusso di dati contenente, diciamo, il progetto dettagliato per la costruzione di un automobile.
È molto più difficile trasportare un'automobile reale da un luogo all'altro, giusto?
Il teletrasporto potrebbe inviare semplicemente l'informazione (che può viaggiare alla velocità della luce) che poi servirebbe, a destinazione, a ricomporre il nostro corpo.
Ma che ne sarebbe del corpo originario? Se scegliamo di trasportare solo l'informazione, dobbiamo sbarazzarci degli atomi al punto d'origine, e procurarci una riserva di atomi al punto di ricezione.
Questo è un problemino.
Se vogliamo eliminare 10 alla 28sima atomi, dobbiamo trasformarli in energia pura.
Quanta ne risulterebbe? Ce lo dice la formula di Einstein: E=mc2.
Ossia, trasformando in energia cinquanta chili di materiale (il peso, diciamo, di Christina Aguilera), libereremmo un'energia equivalente a oltre mille bombe all'idrogeno di un megatone.
Un bel casino.
E quello che otterremo, in definitiva, sarebbe una replica, in quanto il soggetto originario verrebbe, ogni volta, distrutto e "ricreato" da qualche altra parte.
Che ne dite dei risvolti etici della faccenda?Esseri umani assimilati a versioni di un libro conservate su disco, pronti ad essere duplicati a volontà (e in quantità infinite) ovunque.
Inoltre, chi si preoccuperebbe di procurarci gli atomi necessari per ricreare il nostro corpo al punto di destinazione?
Il teletrasporto non serve proprio a questo, ad arrivare da qualche parte?
Se dobbiamo mandare qualcuno a "preparare il campo", come ce lo mandiamo?
Forse, tutto sommato,i nostri atomi ci servono.
Del resto, in Star Trek sostengono proprio questo: assieme al segnale viaggia un flusso di materia.
Ed ecco che il problema diventa: come spostiamo gli atomi?

La difficoltà è di nuovo di tipo energetico.
Semplificando molto, diciamo che le particelle che compongono il nostro corpo sono tenute assieme da una forza detta energia di legame. Relativamente debole nel caso degli atomi, milioni di volte più forte nei protoni e nei neutroni.
Per questo le reazioni nucleari liberano una quantità di energia milioni di volte rispetto le reazioni chimiche: confrontate un candelotto di dinamite e una bomba atomica.
Ma neutroni e protoni non sono il mattone più piccolo della vita: le particelle elementari che li compongono, i quark, sono tenuti assieme da una forza ancora maggiore.
Sulla base di calcoli resi possibili dalla teoria che descrive le interazioni dei quark, per separare i quark che compongono protoni e neutroni occorrerebbe una quantità d'energia praticamente infinita.
Che noi non abbiamo.
Ma forse non c'è bisogno di scomporre la materia fino al livello dei quark: forse, ai fini del teletrasporto è sufficiente una smaterializzazione al livello dei protoni e dei neutroni, o magari anche solo al livello atomico.
Beh, in questo caso servirebbe meno energia, anche se sempre tantissima.
Ma siamo appena agli inizi.
Una volta infatti conseguito il flusso materiale, composto da singoli protoni, neutroni ed elettroni (o forse interi atomi), dobbiamo teletrasportarlo a una frazione significativa della velocità della luce.
Ora, per fare questo dobbiamo dare ai nostri protoni e neutroni un'energia paragonabile a quella della loro massa di quiete.
Che risulta essere, ho scoperto, circa dieci volte maggiore della quantità di energia richiesta per riscaldare i protoni fino a scomporli in quark.
Ma anche se occorre più energia per particella per accelerare i nostri protoni e spararli da qualche parte a una velocità prossima a quella della luce, questo è tuttavia più facile che non depositare e immagazzinare abbastanza energia all'interno dei protoni per un tempo abbastanza lungo per riscaldarli a una temperatura tale perché essi si dissolvano in quark.
Ecco perché oggi possiamo costruire, sia pure a costi enormi, acceleratori di particelle come l'LHC di Ginevra, in grado di accelerare singoli protoni fino al 99,9% della velocità della luce ma non possiamo ancora costruire un acceleratore in grado di bombardare i protoni con abbastanza energia da fonderli nei quark che li compongono.
Insomma, se vogliamo costruire un teletrasporto decente, dobbiamo prima trovare una fonte d'energia circa diecimila volte maggiore dell'energia totale consumata oggi sulla Terra; nel qual caso potremmo finalmente formare un "flusso di materia" atomica capace di muoversi assieme l'informazione a una velocità prossima a quella della luce.
Ma veniamo a un altro problemino.
Dobbiamo necessariamente memorizzare da qualche parte l'informazione codificata in un corpo umano.
Quanta ce n'è?
Cominciamo dalla stima classica di 10 alla ventottesima atomi.
Per ogni atomo dobbiamo codificare anzitutto la posizione, lo stato interno di ogni atomo, i livelli di energia occupati dai suoi elettroni, se esso sia o no legato a un atomo vicino per comporre una molecola, se la molecola vibra o ruota, e via calcolando.
Cercando di essere prudenti, supponiamo di codificare tutte le informazioni relative a un atomo in un kilobyte di dati (circa una cartella dattiloscritta di venti righe): avremo bisogno di circa 10 alla ventottesima KB per immagazzinare uno schema umano nel buffer degli schemi del teletrasporto.
10 alla ventottesima è un uno seguito da ventotto zeri: diecimila bilioni di bilioni.È stato calcolato che tutti i libri che siano mai stati scritti (un miliardo, circa) richiederebbero per essere memorizzati 10 alla dodicesima KB, ossia circa un bilione di kilobyte.
Questa cifra è più piccola di diecimila bilioni di volte della capacità di memoria necessaria per registrare un singolo schema umano! Quando i numeri diventano così grandi, si fa difficile capire l'immensità del compito.
Dove stipiamo tutta quest'informazione?
In commercio ci sono già hard disk da un terabyte, e per il 2010 Hitachi ci ha promesso dischi da 5 terabyte, ossia cinque milioni di MB di informazione.
Un bel pò di spazio, vero?
Sbagliato.
Ogni disco ha uno spessore di circa cinque centimetri. Se disponessimo l'uno sull'altro tutti gli hard disk Hitachi da 5 terabyte necessari a memorizzare uno schema umano, costruiremmo una torre alta circa 10 anni luce, una distanza quasi tre volte superiore a quella che ci separa da Proxima Centauri, la stella più vicina a noi dopo il Sole.Ma non è tutto.
C'è il problema di richiamare quest'informazione in tempo reale. I meccanismi più veloci per il trasferimento di informazione digitale sono in grado di trasferire attualmente poco più di un gigabyte al secondo. A questo ritmo, per scaricare i dati che descrivono uno schema umano occorrerebbe una quantità di tempo spaventosa, calcolata in circa 200 volte l'età attuale dell'universo (approssimativamente 10 miliardi di anni).
Non disponiamo di tutto questo tempo.
Ma facciamo gli ottimisti, e supponiamo che in futuro avremo supporti di memorizzazione più capienti e sistemi di accesso ai dati più veloci. E dovranno essere, badate bene, molto più capienti e molto più veloci.
Incrociamo le dita.
Per completare (e complicare) il quadro, dobbiamo tenere conto anche della meccanica quantistica.
E qui le cose si fanno decisamente più complesse.Forse avrete sentito parlare del principio di indeterminazione di Heisenberg. È un'importante legge che divide il mondo fisico in due insiemi di quantità osservabili. Ci dice che, qualunque tecnologia possa essere inventata in futuro, è impossibile misurare certe combinazioni di osservabili con una precisione alta a piacere.
A scale microscopiche si può misurare con una precisione a piacere la posizione di una particella: Heisenberg ci dice però che, in questo caso, non possiamo conoscere esattamente la sua velocità (e quindi non possiamo sapere dove si troverà nell'istante successivo).
Oppure possiamo accertare lo stato di energia di un atomo con una precisione a piacere, ma in questo caso non possiamo determinare esattamente quanto a lungo resterà in tale stato.
E così via.
Queste relazioni sono al centro della meccanica quantistica e non perderanno mai la loro validità.
Vi risparmio pagine e pagine di dettagli.
Vi basti sapere questo: è impossibile, oggi come tra un miliardo di anni, risolvere gli atomi e le loro configurazioni di energia con la precisione necessaria per ricreare esattamente uno schema umano.
Un'incertezza residua in alcune delle osservabili è inevitabile.
E ora, veniamo all'ultima difficoltà.
Il teletrasporto, oltre a inviare da qualche parte le persone, le deve anche riportare indietro.
In altre parole, deve compiere il processo inverso: analizzare e scomporre la materia e poi ficcarla a forza in un vettore che la riporti a casa.
L'Enterprise riesce, a migliaia di chilometri di distanza, ad analizzare a livello subatomico la materia di un individuo.
Abbiamo quindi bisogno di un telescopio abbastanza potente da analizzare oggetti e creature a una risoluzione atomica sulla superficie di un pianeta.Per permettere un'analisi di tale potenza, l'Enterprise dovrebbe possedere un telescopio di gran lunga più grosso di lei, più o meno 50.000 chilometri di diametro.
Un telescopio più piccolo non potrebbe fornire una risoluzione alla scala del singolo atomo neppure in linea teorica.
Beh, direi che costruire un'astronave più grande del diametro della Terra è impossibile anche solo da concepire.
Il che, ovviamente, è sempre molto più semplice che cercare di evitare le leggi della meccanica quantistica o trovare una fonte d'energia in grado di riscaldare la materia a una temperatura un milione di volte superiore a quella vigente al centro del Sole.
Niente teletrasporto, quindi: né adesso, né tra mille secoli.
Fatevene una ragione.
Comperate piuttosto un'automobile più veloce, e allacciate bene le cinture.
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