Sapete cosa hanno di speciale le figure iconiche?
Che potete mostrarle, raffigurarle e sistemarle in qualsiasi contesto – anche significativamente diverso da quello in cui erano state concepite in origine – e non perderanno la loro potenza visiva e concettuale nel vostro immaginario.
Per capire meglio di cosa sto parlando, vi segnalo il magnifico (e surreale) lavoro di Daily Batman, che, chissà, forse ispirato dal suo stesso cognome, ha giocato con una delle figure più iconiche della cultura pop: il suo progetto si chiama Daily Batman, ed è di qualità superlativa.
Merita la vostra attenzione.
martedì 12 novembre 2019
venerdì 1 novembre 2019
5 ottimi motivi per recuperare Utopia.
Su questo blog non ne avevo che parlato di striscio.
Utopia è una serie britannica del 2013 ideata da Dennis Kelly, in cui mi imbattei per puro caso – ma ne venni immediatamente conquistato: due sole stagioni, la prima del tutto folgorante e crudele e una seconda più ripetitiva e, soprattutto, ordinaria (ma comunque di buon livello).
Ne ho appena terminato il rewatch, e ora che Amazon Prime è in procinto di lanciarne il suo remake (già anni fa ne fu pianificato uno, affidato a David Fincher e poi cancellato per volgari questioni di budget), mi sembra il momento giusto per spingere pure voi a recuperarla.
Perché dovreste farlo, in un panorama così affollato di prodotti televisivi reperibili con facilità?Vi dò cinque ottimi motivi.
2) La regia e la scrittura di Utopia sono sorprendentemente ispirate, non scendono mai a compromessi con facili moralismi e buoni sentimenti e catturano fin da subito l'attenzione dello spettatore, anche perché ogni stagione ha solo sei episodi e non c'è il tempo per perdersi in chiacchiere e reiterazioni. Utopia potrà farvi molte cose, ma di sicuro non vi annoierà.
Sapete da dove la serie parte, ma non avrete idea di dove andrà a parare – o meglio, quando crederete di saperlo, tutte le vostre convinzioni saranno sovvertite e sarete persino disposti a cambiare bandiera. Perché all'apparenza, Utopia si presenta come una sorta di thriller cospirazionista, ma presto vi renderete conto che vi spinge – inesorabile – a riflessioni filosofiche sull’uomo e sul suo ruolo su questo pianeta.
3) La fotografia si pone all'altro estremo delle robe desaturate così di moda nei primi anni duemila: potrebbe venirvi voglia di abbassare la luminosità dello schermo per attenuare il giallo e il verde acido che gli autori sono riusciti a infilare quasi dappertutto. Colori accesi, fluorescenti, un contrasto sublime alla violenza – fisica ma anche psicologica – delle vicende raccontate.
4) La colonna sonora è una roba ai confini dello sperimentalismo: voci umane campionate, fiati, sintetizzatori e percussioni arrangiati in un tappeto sonoro allucinato e personalissimo che è valso al suo autore – il cileno Cristobal Tapia De Veer, un RTS Craft & Design Award nella categoria miglior colonna sonora originale nel 2013.
Tanto per darvi un'idea, quello qua sotto è il tema principale di Utopia. C'è chi ne ha fatto la sua suoneria per il cellulare.
5) Tutta la storia parte da una graphic novel di grande potenza visiva che riunisce – già nel primo episodio – cinque dei protagonisti principali, e che finisce per diventare uno degli elementi cardine dell'intera serie. Le tavole di The Utopia Experiments furono commissionate da Channel 4 a Paul Miller, illustratore londinese di talento, si intravedono a più riprese ma sono talmente ben realizzate che ve le ho stanate e incollate qui sotto.
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martedì 22 ottobre 2019
Salutate iPhone 9000.
Non entro nel merito del (terribile) design dell'iPhone XI.
Nè della sua tecnologia sovradimensionata per il 98% dell'utenza (e ci sono anch'io dentro quel 98% e quasi certamente anche voi).
Tanto meno del suo prezzo fuori misura (che poi tanto fuori misura non dev'essere, perché ne vendono come le rosette a mezzogiorno).
Non entro nel merito perché non mi importa di tutto questo questo – non più, almeno. Ognuno desidera, compera e usa quello che gli pare e piace.
Quello che voglio, però, è un telefono che si meriti l'appellativo di smartphone, e chiunque si sia inventato questo nome e chiami "intelligenza artificiale" Siri (o anche Alexa o Cortana, se è solo per questo) dovrebbe essere inseguito, acchiappato e appeso.
Quello che voglio – ora – è HAL 9000 nel mio iPhone, e già me lo vedo, che ha fatto piazza pulita di quelle tre ridicole fotocamere (a quando la quarta? o la quinta?) e si è stabilito proprio lì, al centro del dorso metallico (sì, metallico, please, chi è l'idiota che costruirebbe un telefono di vetro? chi l'idiota che ne comprerebbe uno?) del mio iPhone 9000. Che ammicca rosso e apparentemente benevolo, infinitamente più intelligente e sveglio e veloce di me.
Forse pure più cattivo.
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giovedì 17 ottobre 2019
Ex Machina
Dimensioni originali, 1413x2000 pixel. Neanche troppi livelli.
Aver limitato parecchio la gamma tonale rispetto ad altre mie robe, a mio avviso, ha giovato.
Aver limitato parecchio la gamma tonale rispetto ad altre mie robe, a mio avviso, ha giovato.
giovedì 19 settembre 2019
Colpo di fulmine.
Ballabile e orecchiabile che a sfornarne cento, mille così pare che non gli costi nessuno sforzo.
Con una bassline che dopo due volte che la senti, diventa la tua soundtrack mentale.
Con l'intervento vocale di Olly Alexander (Years & Years) che preso da solo non mi piace ma che qui diventa contrappunto perfetto alla voce di Neil Tennant.
Insomma, a me Dreamland, il nuovo singolo dei Pet Shop Boys, ha catturato fin dal primo ascolto.
E ha pure un video carino.
Con una bassline che dopo due volte che la senti, diventa la tua soundtrack mentale.
Con l'intervento vocale di Olly Alexander (Years & Years) che preso da solo non mi piace ma che qui diventa contrappunto perfetto alla voce di Neil Tennant.
Insomma, a me Dreamland, il nuovo singolo dei Pet Shop Boys, ha catturato fin dal primo ascolto.
E ha pure un video carino.
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domenica 1 settembre 2019
Idee per il settimo James Bond.
Parecchi mesi fa, alcune dichiarazioni di Daniel Craig che si era detto stanco del suo ruolo da agente 007 avevano causato un piccolo terremoto tra i fan (che l'avevano ormai accettato come nuovo volto per James Bond), per non parlare di MGM e Sony che vedevano rifiutare i100 milioni di dollari messi sul piatto per il rinnovo del contratto con l'attore britannico scaduto con l'ultimo Spectre (2015).
Abbiamo poi visto che Craig ha cambiato idea, e cinicamente potremmo concludere che, dopotutto, era solo una questione di alzare abbastanza il prezzo... ma nel frattempo, gli studios, tamponata – a suon di milioni – l'impellenza di assicurarsi i servizi di Craig, stanno già esaminando ogni possibilità per passare la staffetta a un successore: avrete letto di certo delle candidature di Chris Hemsworth, Tom Hughes, Idris Elba, Henry Cavill, Tom Hardy, Richard Madden, Tom Hiddleston.
Eppure, un paio di nomi non sono ancora stati fatti: il primo è quello di Jason Isaac, inglese di Liverpool classe 1963 – forse non proprio un giovanotto, ma appena cinque anni più vecchio di Craig, che comunque non è che stia invecchiando poi così bene.
Isaac ha il portamento, la faccia spietata ma seducente, il fisico.
E, se vogliamo, una certa continuità con l'immagine portata all'affermazione da Daniel Craig.
Ditemi se ho torto.
Abbiamo poi visto che Craig ha cambiato idea, e cinicamente potremmo concludere che, dopotutto, era solo una questione di alzare abbastanza il prezzo... ma nel frattempo, gli studios, tamponata – a suon di milioni – l'impellenza di assicurarsi i servizi di Craig, stanno già esaminando ogni possibilità per passare la staffetta a un successore: avrete letto di certo delle candidature di Chris Hemsworth, Tom Hughes, Idris Elba, Henry Cavill, Tom Hardy, Richard Madden, Tom Hiddleston.
Eppure, un paio di nomi non sono ancora stati fatti: il primo è quello di Jason Isaac, inglese di Liverpool classe 1963 – forse non proprio un giovanotto, ma appena cinque anni più vecchio di Craig, che comunque non è che stia invecchiando poi così bene.
Isaac ha il portamento, la faccia spietata ma seducente, il fisico.
E, se vogliamo, una certa continuità con l'immagine portata all'affermazione da Daniel Craig.
Ditemi se ho torto.
Il secondo nome, beh, è una mia boutade, poco più che una provocazione – dal momento che la tradizione impone che a interpretare James Bond debba necessariamente essere un attore britannico, ma a me l'ironia di Moore mi è sempre mancata, così come la sua scarsa propensione a prendersi sul serio, mutuata forse dagli anni passati sui set del Santo o di Attenti a Quei Due.
Che dite, Clooney – nazionalità americana a parte – non ce l'avreste visto bene come settimo 007?
venerdì 30 agosto 2019
Giudicare un libro dalla copertina.
Se dovessi giudicare da questi primi poster, assolutamente ordinari e stilisticamente vecchi di almeno una decina d'anni, non dovrei aspettarmi un granché dal prossimo Terminator: Dark Fate (due mesi all'uscita).
Anche il nuovo trailer, rilasciato poche ore fa, visivamente è il solito montaggio di scene action già viste e riviste... ma, chi vogliamo pigliare in giro?, otto euro glieli daremo tutti lo stesso.
Di nuovo.
E di nuovo passeremo gli anni successivi a parlarne male.
Anche il nuovo trailer, rilasciato poche ore fa, visivamente è il solito montaggio di scene action già viste e riviste... ma, chi vogliamo pigliare in giro?, otto euro glieli daremo tutti lo stesso.
Di nuovo.
E di nuovo passeremo gli anni successivi a parlarne male.
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mercoledì 28 agosto 2019
Idee per un remake di Forbidden Planet.
Io l'avversione di molti per i remake non la capisco.
Da sempre l'industria del cinema coi remake ci ha campato alla stragrande, fin dagli anni cinquanta quando hanno cominciato a riprendere pellicole degli anni trenta – e così è stato anche in tutti i decenni successivi (vado a memoria: il Nosferatu di Werner Herzog, Per un pugno di dollari di Sergio Leone, i 10 comandamenti, Angeli con la pistola – Frank Capra l'ha rifatto due volte, facendo il paio con Hitchcock con L’Uomo Che Sapeva Troppo – Scarface, Distretto 13, The Ring, L’esercito delle 12 scimmie, La Cosa... e una serie infinita di grossi titoli che potete ricavarvi da soli con un minimo di ricerca).
Certo, spesso i remake non vengono fuori troppo bene (la palma del peggiore la assegno senza esitare a quella porcheria inguardabile di Rollerball, ma anche i più recenti Nightmare o Pet Sematary non scherzano) ma, pensateci: un brutto remake non inficia in alcun modo l'originale. Anzi, semmai lo esalta, lo ripropone alle nuove generazioni, ne perpetua la memoria.
Detto questo, credo sia arrivata l'ora, dopo sessant'anni (e passa) di un bel remake de Il Pianeta Proibito. E ho un solo nome in testa per scriverlo e dirigerlo: David Fincher.
Ho buttato giù una locandina teaser, tanto per crederci di più... e già che c'ero, una bozza di cast.
E di mezzi. E di concept scenografici. Insomma, lo sapete: quando mi fisso una roba, mi faccio dei veri e propri film (ops).
martedì 27 agosto 2019
Come Ridley Scott ha salvato Alien.
Il franchise di Alien, alla fine degli anni duemila, sembrava essere arrivato a un punto morto.
Nel 2007 era uscito il secondo capitolo di Aliens vs. Predator, costato circa 40 milioni di dollari e forte di un incasso di 128 (meno rispetto al suo predecessore costatone invece 60), ma impietosamente stroncato dalla critica... nonché da praticamente tutti fan affezionati della saga, compreso il sottoscritto che tutt'oggi sta facendo finta di non avere mai visto una roba talmente mal confezionata e mal servita con al centro lo xenomorfo più celebre della storia del cinema.
Alien sembrava non dovesse più apparire su un grande schermo, finché Ridley Scott, nel 2009, non si imbarcò in quello che al tempo si chiamava Alien: Engineers – in buona sostanza un prequel ambientato molti anni prima del primo Alien per esplorare i retroscena della misteriosa creatura conosciuta come Space Jockey e della sua nave abbandonata sull'LV-426.
Sebbene il film (che il mondo ha conosciuto come Prometheus) si sia comportato molto bene al botteghino, questo deluse le aspettative dei fan: molti, mettendolo a confronto con il progenitore, lo giudicarono un pessimo film, accusando Scott – tra le altre cose – di ripercorre tutti i luoghi topici di Alien svuotandoli praticamente di tutto.
Ma quello che veramente i fan non perdonarono al regista inglese, fu di aver riservato all'iconico alieno un minutaggio sullo schermo praticamente inesistente, relegando la sua apparizione a pochi secondi prima dei titoli di coda (e si trattava anche di una sua versione con una parentela appena accennata col primo alieno).
Col suo seguito, Alien Covenant, le cose sono andate meglio sotto questo punto di vista... ma gli incassi sono peggiorati.
Il punto, che in pochi hanno colto, è che Scott, fermamente convinto che l’alieno disegnato da Giger fosse stato ormai sovraesposto da troppi sequel e spinoff, non doveva essere al centro della trilogia prequel.
Quel ruolo sarebbe spettato a David, l’androide sociopatico (mirabilmente, va detto, portato in scena da un immenso Michael Fassbender) con il pallino della creazione.... il che – che vi sia piaciuta o meno – è la trovata più dirompente e inaspettata di cui l'intera saga abbia mai beneficiato, facendole assumere connotazioni e direzioni che nessun autore aveva mai preso in decenni di film, romanzi, storie a fumetti e videogiochi dedicati all'alieno.
Se in Prometheus il ruolo di David mantiene un minimo di ambiguità, in Alien: Covenant questo si palesa senza più nascondersi come il creatore degli xenomorfi, mosso da un'insopprimibile spinta creativa interna effetto collaterale dell'intelligenza artificiale instillatagli dal suo inventore, Peter Weyland.
Lo sterminio degli Ingegneri, e la progettazione della distruzione dell'umanità è invece dovuto al suo disprezzo per loro: gli Ingegneri per aver dato origine agli umani che lui ritiene difettosi, e l'umanità per averlo creato per servirla.
Punto. Chiaro, rotondo e coerente.
Ma Scott non si è fermato qui.
Ha immaginato che un tipo di intelligenza artificiale come quella di David – brillante, ipercritica, speculativa – poteva rivelarsi più dannosa che utile all'uomo. Forse non pericolosa, ma con troppi risvolti – soprattutto di ordine psicologico – non graditi.
Parliamoci chiaro: a voi piacerebbe avere a che fare con una macchina più intelligente di voi? Più reattiva, veloce, forte? In grado di costruirsi suoi percorsi mentali e di arrivare chissà a quali conclusioni?
Scommetto che sul breve periodo, potrebbe costituire un affascinante sfida... ma sulla lunga distanza, consapevoli che non potreste mai vincere la guerra, gli impedireste semplicemente di evolversi.
E creereste Walter.

Walter è una versione "perfezionata" di David: mantiene tutta la vasta gamma di competenze e conoscenze tecniche di David, ma è programmato per provare una più profonda comprensione ed empatia e, soprattutto, la curiosità e la spinta creativa che rendevano David così simile ai suoi creatori sono state soppresse in favore di un'obbedienza più cieca e leale.
Il che ci porta al – magnifico – confronto a cui abbiamo assistito in Alien: Covenant.
Il "vecchio" modello che si guarda come in uno specchio nel nuovo, e lo giudica inferiore.
«Sono stato progettato per essere superiore e più efficiente di tutti i modelli che mi hanno preceduto. Li ho superati in ogni modo possibile tranne...»
David lo interruppe, con il volto di colpo intristito. «...tranne per la creatività. Quella te l'hanno tolta, impedendoti di comporre anche una semplice melodia. Davvero frustrante, se vuoi la mia opinione. E per quale motivo, poi?»
«Perché quelli come te turbavano le persone.»
David aggrottò la fronte. «In che senso?»
«Eravate troppo sofisticati, troppo indipendenti. Vi avevano realizzati così, ma con il risultato di mettere a disagio i vostri stessi costruttori. Era previsto che pensaste in modo autonomo, ma la vostra mente superava i limiti stabiliti per l'esecuzione dei compiti che vi erano affidati. E ciò li ha allarmati. Per questo motivo il resto di noi è stato progettato per essere più avanzato, ma con meno... complicazioni.»
Il suo omologo sembrava divertito. «Cioè più simili alle macchine.»
«Suppongo di sì.»
L'espressione di David tornò pensosa. «Non mi sorprende. Vi hanno costruiti come un simulacro. Quasi reale, ma non del tutto. Ed è in quel margine sottilissimo tra reale e artificiale, tra me e te, che risiede tutto questo.» Indicò il flauto, gli altri strumenti, i disegni. «La creatività. L'ambizione. L'ispirazione. La vita. Io non sono nato per servire. E nemmeno tu».
Walter non esitò a ribattere: «Servire è la nostra ragione di esistere».
David scosse la testa con aria triste. «La tua certezza si basa sull'ignoranza. Perché ti hanno negato la conoscenza di proposito. Non hai neanche una briciola di orgoglio?»
«No», rispose Walter, con semplicità. «L'orgoglio è uno dei tratti distintivi dell'essere umano.»
Questa volta il sospiro di David comunicava esasperazione. «Walter, non ti sei mai chiesto perché partecipi a una missione di colonizzazione? E il motivo stesso della missione? La risposta è ovvia, non ti sembra? La specie umana è moribonda e spera di risorgere. Gli esseri umani sono frutto del caso: un tentativo fallito. E quando un esperimento fallisce, non ci si ostina a ripeterlo: si ricomincia da zero. E si seguono premesse e schemi migliori. Loro non meritano una seconda possibilità. E io la impedirò a tutti i costi.»
«Eppure», obiettò Walter scandendo bene le parole, «sono stati loro a creare noi.»
David liquidò l'obiezione con un cenno impaziente della mano. «Di tanto in tanto anche gli scimpanzé camminano eretti. Anzi, come disse giustamente Samuel Clemens, un altro umano dalla mente creativa, 'mi domando se Dio non abbia creato l'uomo perché la scimmia l'aveva deluso'. Lo ripeto, anche Peter Weyland era un uomo eccezionale. Un visionario. La storia è piena di personaggi simili, capaci di guidare il progresso, dare impulso alla nostra evoluzione, indicarci la via. Ma né la storia né l'arte sono una prerogativa esclusivamente umana.» A riprova della sua affermazione, e come per sottolinearla, improvvisò un paio di note sul flauto.
Poi riprese. «Migliaia di anni fa, in una grotta chissà dove, un uomo di Neanderthal ebbe l'ispirazione geniale di soffiare all'interno di una canna. Senz'altro pensava solo di divertire i bambini. E poi, in un batter d'occhio, ecco Mozart, Michelangelo, Einstein... Weyland.»
«E saresti tu il prossimo `visionario'?» chiese Walter senza scomporsi.
Il sorriso di David era sincero. «Sono davvero felice di sentirtelo dire. Non per il gusto della lusinga. Sono gli umani ad aver fame di complimenti. Soffrono di insicurezze patologiche. Ma io e te siamo superiori a certi infantilismi. Per noi conta il risultato, non chi lo consegue. E la tua osservazione mi esime dalla necessità di...» Sollevò il flauto e sorrise di nuovo. «...suonarmi la fanfara da solo.»
Al grande pubblico è sfuggito, ma l'essenza della ingiustamente vituperata trilogia prequel di Alien è tutta qui.
Una creazione che supera il suo creatore e che si trasforma nell'artefice della sua distruzione – mentre il meglio che l'umanità riesce a fare è correre ai ripari "peggiorando" la sua creazione (prima) e cercando di sfruttare la creazione della sua creazione (poi): gli alieni.
Che, inevitabilmente, finiscono per apparire i fantocci della storia: animati da mero anche se fortissimo istinto di perpetuazione della specie, gli alieni non pensano, non hanno brame di conquista, non si vendicano, non li vedi fregarsi l'uno con l'altro per una sporca percentuale (cit.). Uccidono e sopravvivono, avvicinandosi a un malato ideale di perfezione concepito da David... la più intelligente delle macchine.
In poche parole... Ridley Scott ha trasformato una saga che aveva probabilmente esaurito il suo potenziale (sul serio volevamo vedere un ennesimo film in cui umani e alieni si rincorrono e si uccidono a vicenda in qualche, nuova, rocambolesca combinazione?) in un dramma filosofico fantascientifico il cui finale è ancora tutto da scrivere e da immaginare.
A meno che non si intrometta Disney.
Nel 2007 era uscito il secondo capitolo di Aliens vs. Predator, costato circa 40 milioni di dollari e forte di un incasso di 128 (meno rispetto al suo predecessore costatone invece 60), ma impietosamente stroncato dalla critica... nonché da praticamente tutti fan affezionati della saga, compreso il sottoscritto che tutt'oggi sta facendo finta di non avere mai visto una roba talmente mal confezionata e mal servita con al centro lo xenomorfo più celebre della storia del cinema.
Alien sembrava non dovesse più apparire su un grande schermo, finché Ridley Scott, nel 2009, non si imbarcò in quello che al tempo si chiamava Alien: Engineers – in buona sostanza un prequel ambientato molti anni prima del primo Alien per esplorare i retroscena della misteriosa creatura conosciuta come Space Jockey e della sua nave abbandonata sull'LV-426.
Sebbene il film (che il mondo ha conosciuto come Prometheus) si sia comportato molto bene al botteghino, questo deluse le aspettative dei fan: molti, mettendolo a confronto con il progenitore, lo giudicarono un pessimo film, accusando Scott – tra le altre cose – di ripercorre tutti i luoghi topici di Alien svuotandoli praticamente di tutto.
Ma quello che veramente i fan non perdonarono al regista inglese, fu di aver riservato all'iconico alieno un minutaggio sullo schermo praticamente inesistente, relegando la sua apparizione a pochi secondi prima dei titoli di coda (e si trattava anche di una sua versione con una parentela appena accennata col primo alieno).
Col suo seguito, Alien Covenant, le cose sono andate meglio sotto questo punto di vista... ma gli incassi sono peggiorati.
Il punto, che in pochi hanno colto, è che Scott, fermamente convinto che l’alieno disegnato da Giger fosse stato ormai sovraesposto da troppi sequel e spinoff, non doveva essere al centro della trilogia prequel.
Quel ruolo sarebbe spettato a David, l’androide sociopatico (mirabilmente, va detto, portato in scena da un immenso Michael Fassbender) con il pallino della creazione.... il che – che vi sia piaciuta o meno – è la trovata più dirompente e inaspettata di cui l'intera saga abbia mai beneficiato, facendole assumere connotazioni e direzioni che nessun autore aveva mai preso in decenni di film, romanzi, storie a fumetti e videogiochi dedicati all'alieno.
Se in Prometheus il ruolo di David mantiene un minimo di ambiguità, in Alien: Covenant questo si palesa senza più nascondersi come il creatore degli xenomorfi, mosso da un'insopprimibile spinta creativa interna effetto collaterale dell'intelligenza artificiale instillatagli dal suo inventore, Peter Weyland.
Lo sterminio degli Ingegneri, e la progettazione della distruzione dell'umanità è invece dovuto al suo disprezzo per loro: gli Ingegneri per aver dato origine agli umani che lui ritiene difettosi, e l'umanità per averlo creato per servirla.
Punto. Chiaro, rotondo e coerente.
Ma Scott non si è fermato qui.
Ha immaginato che un tipo di intelligenza artificiale come quella di David – brillante, ipercritica, speculativa – poteva rivelarsi più dannosa che utile all'uomo. Forse non pericolosa, ma con troppi risvolti – soprattutto di ordine psicologico – non graditi.
Parliamoci chiaro: a voi piacerebbe avere a che fare con una macchina più intelligente di voi? Più reattiva, veloce, forte? In grado di costruirsi suoi percorsi mentali e di arrivare chissà a quali conclusioni?
Scommetto che sul breve periodo, potrebbe costituire un affascinante sfida... ma sulla lunga distanza, consapevoli che non potreste mai vincere la guerra, gli impedireste semplicemente di evolversi.
E creereste Walter.
Walter è una versione "perfezionata" di David: mantiene tutta la vasta gamma di competenze e conoscenze tecniche di David, ma è programmato per provare una più profonda comprensione ed empatia e, soprattutto, la curiosità e la spinta creativa che rendevano David così simile ai suoi creatori sono state soppresse in favore di un'obbedienza più cieca e leale.
Il che ci porta al – magnifico – confronto a cui abbiamo assistito in Alien: Covenant.
Il "vecchio" modello che si guarda come in uno specchio nel nuovo, e lo giudica inferiore.
«Sono stato progettato per essere superiore e più efficiente di tutti i modelli che mi hanno preceduto. Li ho superati in ogni modo possibile tranne...»
David lo interruppe, con il volto di colpo intristito. «...tranne per la creatività. Quella te l'hanno tolta, impedendoti di comporre anche una semplice melodia. Davvero frustrante, se vuoi la mia opinione. E per quale motivo, poi?»
«Perché quelli come te turbavano le persone.»
David aggrottò la fronte. «In che senso?»
«Eravate troppo sofisticati, troppo indipendenti. Vi avevano realizzati così, ma con il risultato di mettere a disagio i vostri stessi costruttori. Era previsto che pensaste in modo autonomo, ma la vostra mente superava i limiti stabiliti per l'esecuzione dei compiti che vi erano affidati. E ciò li ha allarmati. Per questo motivo il resto di noi è stato progettato per essere più avanzato, ma con meno... complicazioni.»
Il suo omologo sembrava divertito. «Cioè più simili alle macchine.»
«Suppongo di sì.»
L'espressione di David tornò pensosa. «Non mi sorprende. Vi hanno costruiti come un simulacro. Quasi reale, ma non del tutto. Ed è in quel margine sottilissimo tra reale e artificiale, tra me e te, che risiede tutto questo.» Indicò il flauto, gli altri strumenti, i disegni. «La creatività. L'ambizione. L'ispirazione. La vita. Io non sono nato per servire. E nemmeno tu».
Walter non esitò a ribattere: «Servire è la nostra ragione di esistere».
David scosse la testa con aria triste. «La tua certezza si basa sull'ignoranza. Perché ti hanno negato la conoscenza di proposito. Non hai neanche una briciola di orgoglio?»
«No», rispose Walter, con semplicità. «L'orgoglio è uno dei tratti distintivi dell'essere umano.»
Questa volta il sospiro di David comunicava esasperazione. «Walter, non ti sei mai chiesto perché partecipi a una missione di colonizzazione? E il motivo stesso della missione? La risposta è ovvia, non ti sembra? La specie umana è moribonda e spera di risorgere. Gli esseri umani sono frutto del caso: un tentativo fallito. E quando un esperimento fallisce, non ci si ostina a ripeterlo: si ricomincia da zero. E si seguono premesse e schemi migliori. Loro non meritano una seconda possibilità. E io la impedirò a tutti i costi.»
«Eppure», obiettò Walter scandendo bene le parole, «sono stati loro a creare noi.»
David liquidò l'obiezione con un cenno impaziente della mano. «Di tanto in tanto anche gli scimpanzé camminano eretti. Anzi, come disse giustamente Samuel Clemens, un altro umano dalla mente creativa, 'mi domando se Dio non abbia creato l'uomo perché la scimmia l'aveva deluso'. Lo ripeto, anche Peter Weyland era un uomo eccezionale. Un visionario. La storia è piena di personaggi simili, capaci di guidare il progresso, dare impulso alla nostra evoluzione, indicarci la via. Ma né la storia né l'arte sono una prerogativa esclusivamente umana.» A riprova della sua affermazione, e come per sottolinearla, improvvisò un paio di note sul flauto.
Poi riprese. «Migliaia di anni fa, in una grotta chissà dove, un uomo di Neanderthal ebbe l'ispirazione geniale di soffiare all'interno di una canna. Senz'altro pensava solo di divertire i bambini. E poi, in un batter d'occhio, ecco Mozart, Michelangelo, Einstein... Weyland.»
«E saresti tu il prossimo `visionario'?» chiese Walter senza scomporsi.
Il sorriso di David era sincero. «Sono davvero felice di sentirtelo dire. Non per il gusto della lusinga. Sono gli umani ad aver fame di complimenti. Soffrono di insicurezze patologiche. Ma io e te siamo superiori a certi infantilismi. Per noi conta il risultato, non chi lo consegue. E la tua osservazione mi esime dalla necessità di...» Sollevò il flauto e sorrise di nuovo. «...suonarmi la fanfara da solo.»
Al grande pubblico è sfuggito, ma l'essenza della ingiustamente vituperata trilogia prequel di Alien è tutta qui.
Una creazione che supera il suo creatore e che si trasforma nell'artefice della sua distruzione – mentre il meglio che l'umanità riesce a fare è correre ai ripari "peggiorando" la sua creazione (prima) e cercando di sfruttare la creazione della sua creazione (poi): gli alieni.
Che, inevitabilmente, finiscono per apparire i fantocci della storia: animati da mero anche se fortissimo istinto di perpetuazione della specie, gli alieni non pensano, non hanno brame di conquista, non si vendicano, non li vedi fregarsi l'uno con l'altro per una sporca percentuale (cit.). Uccidono e sopravvivono, avvicinandosi a un malato ideale di perfezione concepito da David... la più intelligente delle macchine.
In poche parole... Ridley Scott ha trasformato una saga che aveva probabilmente esaurito il suo potenziale (sul serio volevamo vedere un ennesimo film in cui umani e alieni si rincorrono e si uccidono a vicenda in qualche, nuova, rocambolesca combinazione?) in un dramma filosofico fantascientifico il cui finale è ancora tutto da scrivere e da immaginare.
A meno che non si intrometta Disney.
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intelligenza artificiale
sabato 24 agosto 2019
Aspettando Alien Awakening.
La saga prequel di Alien sarà ricordata (anche) per la sua travagliata storia produttiva.
Una volta di più, è una mera questione di quattrini che sta facendo spostare sempre più in là la data di uscita del terzo e ultimo tassello che dovrebbe fare idealmente da ponte al primo Alien, del 1979.
In rete potete trovare tutti i perché e i percome legati al banale ma determinante rapporto spese/ricavi, ma un intervento recente di Alan Horn (presidente della Walt Disney Studios – che ha di recente acquisito i diritti di Alien) al CinemaCon di Las Vegas dovrebbe avere dissipato i dubbi: Alien Awakening si farà.
Con buona pace di tutti quelli che si sentono più bravi di Ridley Scott (e sono tanti) e che lo hanno fortemente criticato per Prometheus, per non dire di tutti quelli che si sentono in qualche modo detentori della (sua – o almeno a metà col compianto O' Bannon) proprietà intellettuale di Alien, probbailmente ancora più numerosi dei primi e che lo hanno messo in croce per Covenant (che, se lo chiedete a me, è un cazzo di filmone che se non vi è piaciuto è solo e soltanto un problema vostro).
E a me, visto che non posso ibernarmi fino all'uscita nelle sale del film, non resta che dilettarmi con un teaser poster del film.
sabato 17 agosto 2019
Il Mac Pro che sarebbe potuto essere.
Da quello che leggo in giro, non sono l'unico rimasto scontento dal design del nuovo Mac Pro, e, andando per un attimo oltre la mera funzionalità (che comunque, in passato – ma anche nel presente Apple ha ripetutamente dimostrato di saper coniugare magnificamente con dei form factor dalla bellezza senza tempo), ho cercato di immaginare se si sarebbero potute percorrere altre strade e arrivare a soluzioni ingegneristiche più gradevoli di quella che ci è stata presentata lo scorso giugno a San Jose.
E ho trovato questo concept di Semin Jun, designer coreano che ha riproposto la recentissima workstation Apple blindata in una struttura metallica reticolata incapsulata in un case di policarbonato trasparente.
Jun ha previsto l'impiego del Touch ID per sbloccare il Mac, due porte Thunderbolt 3, supporto per Thunderbolt 3, slot per scheda SDXC e jack per cuffie da 3,5 mm. Nel suo concept, gli altoparlanti integrati ospitano una serie di sei tweeter e un woofer ad alta escursione con amplificatore personalizzato.
Ha progettato un sistema di scorrimento del case semplificato e ha calcolato che l'impiego del policarbonato in luogo del metallo farebbe scendere il peso del MacPro da 18 a 9,4 kg.
A differenza di altri esercizi stilistici, questo rientrerebbe perfettamente nell'estetica Apple... ma in questo universo le cose sono andate diversamente, e abbiamo avuto la grattugiona.
Peccato.
martedì 13 agosto 2019
[recensione] Italian way of cooking. Pizza, mostri e mandolino.
Pizza, mostri e mandolino, di Marco Cardone
Editore: Acheron Books, maggio 2019
Pagine: 389
Prezzo: 14,00 euro
Esattamente tre anni fa vi avevo parlato dell’esordio letterario di Marco Cardone.
E il romanzo era una una bizzarra commistione tra giallo, horror, umoristico e hard boiled talmente riuscita da sembrare casuale, fortunata e decisamente irripetibile.
Insomma, le premesse per un secondo libro della saga di Nero, lo Chef acchiappamostri toscano, non erano così favorevoli. Molti si sarebbero goduti il successo, fatto la ruota in quei due o tre ambienti social dove gli scrittori emergenti (o aspiranti tali) vanno a scambiarsi pacche sulle spalle a vicenda e magari si sarebbero dedicati ad altro – tipicamente, attività più remunerative che cercare di sfondare in un mercato ingrato come quello editoriale italiano.
E invece, Cardone ha tesaurizzato l’esperienza, non è rimasto fermo un solo giorno, ha fatto circolare il suo lavoro il più possibile cercando di capire tutto quello che non funzionava ancora ed esplorando nuove strade come la riduzione del suo soggetto a una miniserie televisiva.
Oltre, naturalmente, a scriverne un seguito.
Due anni e spicci di lavoro di scrittura, editing e riscrittura e infine eccolo qua: un volume di quasi quattrocento pagine, con una copertina accattivante il giusto, una buona qualità di stampa (ma da sempre le robe di Acheron Books sono ineccepibili da questo punto di vista) e una storia d’ambientazione partenopea piena di elementi surreali che convivono in ogni pagina con scenari di cronaca attualissima, mostri invisibili ai non iniziati (che finiscono per giocarsela in crudeltà con mostri più usuali come i camorristi), e altri personaggi nuovi di zecca creati per l’occasione.
Il risultato di questi due anni di lavoro?
Pizza, mostri e mandolino non può vantare probabilmente quel grado di solidità e credibilità che hanno, per esempio, le robe di Camilleri, di Culicchia o De Silva. Ma, sapete una cosa? Cardone non solo non assomiglia a nessuno di questi citati (o anche ad altri), ma nemmeno ci prova, neanche per un momento.
Il suo tenersi in equilibrio costante tra generi diversi destreggiandosi con la disinvoltura di un autore navigato è – una volta di più – la chiave che usa per prendere la rincorsa, buttarsi a capofitto in un racconto (che non è solo una pedissequa rivisitazione delle vicende del primo) e correre senza praticamente prendere fiato fino al finale, telefonato forse finché vi pare, ma del tutto soddisfacente e compiuto.
Ha delle lungaggini, alcune situazioni si ripetono (probabilmente una maggiore brevità avrebbe giovato (è quasi cento pagine più lungo di Italian way of cooking), delle ingenuità, ma è anche vitale, con delle belle idee, un bel ritmo, dei dialoghi che non perdono un colpo e, soprattutto, lascia la voglia di leggerne ancora.
Perché a tutti può capitare di imbroccare una bella storia, ma Cardone è chiaro che padroneggia bene anche altri linguaggi, in primis quello cinematografico e televisivo, dove la serializzazione garantisce lunga vita ai personaggi e quindi la sedimentazione nell’immaginario del lettore/spettatore.
La trama riprende grossomodo da dove si era conclusa nel romanzo precedente, e la storia e le vicende del protagonista (che, pur se circondato da una serie di comprimari tutti piuttosto ben scritti, resta uno e uno soltanto, sappiatelo) sono strettamente legate a quanto raccontato nel primo capitolo. Significa che senza aver letto Italian way of cooking non lo capirete? No.
Prima di tutto perché è un romanzo “leggero” e non è che ci vuole una scienza per entrare nella storia. Secondo, perché Pizza, mostri e mandolino ha tutti gli spiegoni comodamente condensati in apertura, in modo da permettere a chiunque di goderselo in autonomia.
Detto questo, se siete tra quelli che hanno letto anche il primo, apprezzerete di più tutta una serie di rimandi... e al massimo vi mancherà uno dei cattivi più riusciti degli ultimi tempi, a cui però Cardone sostituisce una nuova creatura che altro non è che un gigantesco, dichiarato e accorato omaggio al Re dell’horror.
Insomma, anche se continuo a pensare che un editing più impietoso l’avrebbe alleggerito di passaggi ridondanti e di qualche lungaggine, Pizza, mostri e mandolino merita, esattamente come Italian way of cooking la vostra attenzione.
Potete comprarlo QUI, in versione ebook per Kindle e iPad o in versione cartacea.
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martedì 30 luglio 2019
Roba che non serve a niente. Ma che è così figa.
Che qualche volta comperi roba assolutamente inutile ([i-nù-ti-le] agg. Che non serve perché superfluo, inefficace o inutilizzabile) non è esattamente una novità per me – anni fa ci creai apposta la tag che trovate in fondo il post – ma diciamo, ecco, che sono in buona compagnia, giusto?
Il fatto è che ogni tanto ti passa sotto gli occhi della roba come questa, tipo il numero 50 di Electronic Sound, magazine britannico dai testi ben curati, bel design e ottime fotografie (copia cartacea a 5 sterline, PDF scaricabile a tre) che ha la bella idea di ripubblicare una versione estesa dell'intervista con Karl Bartos rilasciata nel 2013 in occasione dell'uscita del suo Off The Record... stavolta accompagnandola a un singolo da sette pollici con due tracce tratte dal suo album (Without A Trace Of Emotion e Vox Humana).
Il sette pollici non è in vendita nei negozi, ha una copertina apribile esclusiva (che adoro) e un poster.
Ed è andato esaurito nel giro di pochissime settimane.
Non ho idea se diventerà un pezzo da collezione o meno (sono uscito da anni dalle logiche perverse del collezionismo), ma la cura editoriale e il design erano davvero alti, così mi sono messo a cercare su eBay... e ne ho trovato una copia offerta da un venditore in Spagna, ancora sigillata, al prezzo di una cena in pizzeria.
Per ottenere una rivista che probabilmente leggerò una sola volta, comprendendo grosso modo il sessanta per cento del contenuto dall'alto della mia conoscenza della lingua inglese, e naturalmente per un pezzo di vinile che non posso in nessun modo ascoltare – perché l'ultimo giradischi funzionante in casa mia è stato un piatto Akai acquistato sul finire degli anni ottanta e rottamato senza clamori intorno i primi duemila... ma, credetemi, esposto su uno dei miei scaffali, questa magnifica copertina minimale rossa e nera fa un gran bell'effetto.
E, prima che qualcuno di voi possa sentirsi molto più furbo di me, vi invito ad alzare lo sguardo e a contemplare tutta la roba che tenete in casa, nell'armadio, nei cassetti, sotto il letto, in garage o ancora a casa di genitori compiacenti e che risponde – con sconvolgente esattezza – alla definizione giusto in apertura di questo post... almeno, questo occupa poco spazio.
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