mercoledì 13 gennaio 2016

Idee per una nuova icona "Salva".


Molti programmi usano l'icona di un floppy disk (o, meglio, di un dischetto da tre quarti di pollice) per simboleggiare l'operazione di salvataggio.

Il fatto è che praticamente nessuno usa più i floppy da anni. Le nuove generazioni non ne hanno mai neanche visto uno. E il rischio è di lasciare in eredità un'icona svuotata di significato (la peggiore cosa che possa capitare ad un'icona, se ci pensate).
Insomma, sarebbe ora di aggiornare il simbolo "Save" e portarlo più nel nostro tempo... ma come?
Ho fatto qualche ricerca in giro, e, escludendo le centinaia di icone basate sul floppy disk, questo è quello che ho trovato.


Un salvadanaio?  Anche se questa icona (disegnata da Ricardo Moreira) è facile da ricordare e distinguere tra le altre, connota più il concetto di "risparmio".  Non mi sembra efficace.


Una freccia che punta verso il basso? Leggermente meglio, ma ormai moltissimi associano questo simbolo (questo nell'esempio è disegnato da Vivian Lai) al download.


Ok, che ne dite di un cuore? Sì, lo so, non ditelo: è già ampiamente usato per indicare un preferito o un segnalibro in qualsiasi browser che si rispetti.


Un salvagente? Non male, ma è difficile da stilizzare efficacemente e renderlo efficace anche alle piccole dimensioni. Inoltre, troppa gente continuerebbe a vederci qualcos'altro, specie considerando che non potrebbe contare sul colore per farsi riconoscere.



Un lucchetto è un oggetto che serve a mettere qualcosa al sicuro, e potrebbe rientrare nell'idea di salvataggio. Purtroppo è già parecchio utilizzato nei software e nelle utility che criptano file e cartelle riservate, quindi niente da fare.


Da qualche tempo, tutto sembra doversi spostare nel Cloud, ed ecco che sono apparse le prime icone a forma di nuvola. Graziose e già entrate nel nostro immaginario visivo, ma troppo legate, per l'appunto, al salvataggio su un luogo remoto che non è il nostro hard disk. E allora?


Quando si è corto di idee, si ricorre alla cara, vecchia tipografia: un pulsante "Salva" urla al mondo che cosa fa. Il problema è che le icone nascono proprio per superare ogni barriera linguistica, e se un Save può essere abbastanza internazionale, di certo striderebbe in qualsiasi sistema operativo in un alfabeto non latino. Cosa resta?



Un simbolo arbitrario? Le icone di accensione/spegnimento, Bluetooth e USB hanno solo vaghissimi riferimenti al loro reale impiego, e le riconosciamo solo perché le abbiamo da sempre viste così. Creare qualcosa di completamente astratto per "Salva" potrebbe essere un'operazione azzardata, ma perché no? C'è chi c'è riuscito.

Naturalmente, io non ho un'icona geniale, semplice, facile da memorizzare e densa di significato da proporre. Mi piacerebbe averne una e mentre scrivevo questo post ho anche buttato giù qualche schizzo a penna, ma niente che il mondo stesse aspettando con ansia.
Se voi avete qualche suggerimento, ditelo pure nei commenti.
E se esce fuori l'Icona Perfetta, ci mettiamo subito in affari.

venerdì 8 gennaio 2016

Cyberluke Awards: il cosplay

Avrete di certo sentito dire, e più di una volta, che la parola cosplay viene dalla contrazione di costume e play, e che quindi significa “giocare” con i costumi.
È una definizione imprecisa e ampiamente spacciata per buona, e probabilmente l'equivoco deriva – almeno nel nostro Paese – dalla traduzione approssimativa apparsa sulla pagina di Wikipedia Italia prima di un suo aggiornamento più simile a quello riportato sulla pagina americana: 
Cosplay is a performance art in which participants called cosplayers wear costumes and fashion accessories to represent a specific character or idea.
Anche questa definizione è parziale, ma quello che salta all’occhio è il verbo “represent (rappresentare)”. Lo scopo del cosplay è, più di qualsiasi altra accezione vogliate dargli, rappresentare un personaggio: muoversi come lui, comportarsi come lui, dargli un'anima, una faccia e un corpo, anche se solo per il tempo di una fiera.

Per conoscere la storia completa e dettagliata di come sia nato il termine cosplay, vi rimando a QUESTO articolo (per i diversamente angolofoni o per chi va di fretta, il succo è: Il termine kosopure è stato inventato nel 1984 dal giornalista Nobuyuki Takahashi per descrivere l’usanza di travestirsi da personaggi di fantasia durante un convegno a cui era presente e per il quale doveva fare un servizio).
Un termine nato in modo del tutto aleatorio da una persona estranea all’ambiente e usato per riassumere a grandi linee ciò che il tipo stava guardando. Il termine – diventato velocemente cosplay in inglese – ha preso poi piede ed è entrato nell'uso comune per distinguere le persone che semplicemente si mascheravano per altri motivi... ad esempio, per carnevale.
Chiarito questo, era un umido inverno del 2007 quando abbracciai il mio lato ludico e partii per la Fumettopoli di Milano... e con in valigia un costume da Batman che avrebbe fatto invidia a Bruce Wayne in persona. Metterlo assieme mi era costato un mucchio, ma l'ultima cosa che volevo era sembrare un tizio con addosso una calzamaglia e una maschera da Carnevale.
Azzittendo il mio senso del ridicolo (aiutato, va detto, da un cappuccio in gomma nera che copriva metà della mia faccia), entrai. Mi feci scattare uno zigallione di foto, mi mescolai tra i cosplayer, fui con loro e uno di loro. E tornai a casa con un bel sorriso e la voglia di averne ancora.

Poi sia chiaro, è tutt'altro che un ambiente perfetto.
Ci sono – anche qui – gelosie, rivalità e invidie da star del quartiere (o anche del condominio). Manca ancora un'identità da accettare e da mostrare con orgoglio.
Durante le manifestazioni ci sono ancora delle goffaggini da evitare (nella gestione dei cosplayer presenti in fiera, la loro accoglienza e il modo per valorizzarli e metterli al servizio della fiera stessa).
Ci sono media partner da trovare e una copertura sui media da rivedere dalle fondamenta.
C'è un lato culturale che esiste ed è ben evidente ma che non riesce ad uscire dagli spazi in cui è confinato (talvolta inadeguati).
Ci sono delle cose vecchie (intese come meccanismi, modi di ragionare di persone che vivono la cosa dall'esterno) da abbattere.
Ci sono tante piccole cose che si potrebbe perfezionare con poco sforzo e che darebbero un grande risultato.
Ma cazzo, la gente alle fiere del fumetto arriva in massa e il motivo è che si diverte.
E questa è una grande base da cui partire per costruire qualcosa di ancora migliore.

Negli ultimi dodici mesi, ho cambiato cinque volte personaggio, e quest'anno ne è in arrivo uno nuovo. Se la cosa diverte anche voi, restate sintonizzati.





giovedì 7 gennaio 2016

Cyberluke Awards... anzi, no (parte 6).


PHOTOSHOP & WORKS
Riguardando l'archivio del blog, ma, soprattutto, trovandomi a declinare l'offerta di pubblicare dei tutorial su una rivista specializzata, mi sono reso conto di una cosa: non parlo quasi mai di come realizzo le mie robe in Photoshop.
Ed è strano perché Photoshop fa parte della mia vita quotidiana, lo uso per lavoro, lo uso per divertimento, lo uso anche quando non dovrei usarlo.
Eppure, ne parlo raramente sotto il piano "tecnico", e ho smesso di dilungarmi sulle novità introdotte a cadenza regolare da Adobe su quello che considero il suo prodotto di punta, e forse il software più popolare al mondo.
Il fatto è che appartengo a quella categoria di designer che si trova già molto, molto bene col software che ha a disposizione, e se incontra intoppi nella lavorazione non crede che una versione superiore del programma possa cavarlo d'impaccio, o anche magari solo velocizzarlo.
Vi basti sapere che non c'è stata una sola versione di Photoshop, successiva alla CS, che abbia installato sul mio Macintosh appena questa sia stata rilasciata, e credo che questo dipenda sostanzialmente da due ragioni.

La prima è che, quando mi sono abituato a un determinato ambiente di lavoro e so metterci le mani letteralmente ad occhi chiusi, l'idea che una nuova versione abbia introdotto sconvolgimenti nell'interfaccia mi appare attraente come cambiare d'un tratto la strada che faccio da anni per tornare a casa: potrebbe essere più breve e più piacevole, ma ho poca voglia di sperimentarlo per magari trovarmi male e senza possibilità di tornare indietro.
La seconda ragione è che ho maturato ormai da tempo la convinzione che Photoshop sia diventato uno di quei prodotti arrivati in una specie di vicolo cieco tecnologico: in altre parole, è talmente efficiente che è quasi impossibile migliorarlo in maniera significativa.
Ogni nuova versione viene propagandata da Adobe come un concentrato di migliorie e di meraviglie mai viste prima, mentre non vengono mai – comprensibilmente – menzionate le maggiori richieste hardware dell'applicazione.

Invece, di versione in versione, i computer più datati diventano inutilizzabili per l'esecuzione del programma.
È un meccanismo collaudato e tacitamente accettato un po' da tutti: alcuni la chiamano obsolescenza indotta, e la sua applicazione più eclatante possiamo osservarla nei sistemi operativi mobili. Device performanti e reattivi vengono rallentati dalle nuove versioni degli OS, a loro volta resi necessari per l'esecuzione di qualche app di largo consumo spesso gratuita.
Voi cambiate lo smartphone ogni uno o due anni, e siete contenti che finalmente tutto fila a meraviglia. Finché non arriva qualcosa che installate e che ve lo rallenta di nuovo, e ricominciate.

E, sì, questo potrebbe sembrare l'ennesimo pezzo di denuncia sull'obsolescenza coatta dell'hardware, ma in realtà è su Photoshop che mi stavo concentrando: ho letto attentamente delle novità introdotte sulla versione CC. Tutte piuttosto interessanti ma nessuna che mi sembri così sconvolgente.
Non ho intenzione di fare alcun nome, ma conosco un bel po' di gente che non ha affatto bisogno dell'ultima release di Photoshop. Che, anche se avesse a disposizione tutti i suoi formidabili strumenti di correzione e modifica avanzati, continuerebbe a produrre immagini scadenti e poco interessanti. Se così non fosse, chi possiede un'Hasselblad da uno zigallione di megapixel scatterebbe (invariabilmente) fotografie migliori di chi può contare su una modesta Nikon di cinque anni fa.
Anche il possesso di un computer più veloce o più potente non significa assolutamente nulla (nel caso di Apple, poi, come feci notare QUI o QUI, non significa neppure necessariamente che un modello più recente sia migliore).


La ragione per cui ho fatto questa lunga premessa è per ricordarvi che, anche se qualcuno vorrebbe suggerirvi il contrario, una nuova versione di Photoshop non vi renderà più creativi, né vi farà sbrigare prima il vostro lavoro (salvo in alcuni, particolari casi su cui il marketing Adobe spinge abilmente il pedale)... anzi, vi potrebbe rallentare, qualora cerchereste di farla girare su una macchina troppo datata.
Se proprio volete migliorarvi nell'utilizzo professionale o semiprofessionale (per tutti gli altri, consiglio di scaricarsi gratuitamente Photoshop Fix per il vostro tablet o smartphone e vivere felici), continuate ad osservare, quanto da più vicino possibile, il lavoro dei grandi professionisti.
Restando consapevoli che esistono tante strade per arrivare allo stesso risultato.
Che esistono tanti modi di usarlo quanti sono i modi di tenere in mano una matita.
Che c'è sempre qualcuno, là fuori, più in gamba di te ed è qualcuno da cui potresti imparare qualcosa e magari un giorno superarlo, te ti sbatti a sufficienza.

Adoro Photoshop e credo davvero che sia il software più straordinario di ogni tempo.
Sono molto più critico sui suoi aggiornamenti, e se ne possedete una vecchia versione, tipo una CS2 o CS3, sappiate che potete comunque contare su strumenti potentissimi e realizzare praticamente qualsiasi cosa vi venga in mente, come una sorta di dio digitale in un universo virtuale che esiste solo dentro il vostro computer.

Imparate tutto quello che potete sul programma, ma poi fate a modo vostro.

Ho calcolato che, nell'ultimo anno, ho prodotto circa quaranta gigabyte di nuove cose in Photoshop, tra progetti personali e commissioni. Alcune di queste cose le avete viste qui sul blog, altre potreste averle viste sul web o in libreria o in edicola, altre ancora erano cazzeggio puro e sono rimaste su qualche bacheca Facebook o sul mio hard disk. Alcune di loro le giudico molto riuscite, altre le rismonterei e le rifarei da capo. Tutte mi hanno insegnato qualcosa in più e renderanno – spero – i miei prossimi lavori migliori. 
Qui sotto, trovate, un po' alla rinfusa, alcune delle cose uscite fuori nel 2015.

mercoledì 6 gennaio 2016

Cyberluke Awards: i fumetti

FUMETTI
Ne ho comprati pochi, ma quei pochi mi sono piaciuti al punto che mi sono permesso di strombazzarli e consigliarli in giro praticamente a chiunque mi è capitato a tiro.
Per il terzo o quarto anno di fila dovrei tessere le lodi di Zerocalcare, che riesce a mantenere una qualità elevatissima sia restando all'interno del suo canone più abituale (le storie pubblicate sul blog o su Wired e BestMovie) che cimentandosi in prove dal respiro più ampio (il bel reportage dal confine turco-siriano pubblicato su L'Internazionale).
Ma sarei un po' monotono.
La roba Marvel ho smesso definitivamente di comprarla, dopo la chiusura dell'ottimo Superior Spiderman e l'ennesimo reboot che prelude ad un universo che ormai ha davvero poco a che fare con quello con cui sono cresciuto e che avevo imparato ad amare (nonostante i vari passi falsi e le sempre maggiori strizzate d'occhio all'universo cinematografico). Il trattamento, poi, riservato a personaggi storici come i Fab 4 e l'universo mutante tutto, ha tanto il sapore del marito che si evira per far dispetto alla moglie, e suppongo non ci sia bisogno di ricordarvi Fox che parte abbia in tutto questo.
È qualcosa che non ha nulla a che fare con la mia idea di fumetto, e per ora abbandono Peter Parker, Tony Stark e soci. Probabilmente, si saranno fatti un gran numero di nuovi lettori nelle fasce più giovani, ma se serviva una spinta, a quelli più vecchi, per cedere definitivamente il passo, quella spinta è appena arrivata.

Una delle cose più interessanti lette quest'anno, ad ogni modo, proviene dalla collana Fantastica di Mondadori Comics (che ha finora proposto ottimo materiale di area franco-belga di genere fantascientifico, fantasy e horror: QUI parlai dello splendido Complesso dello scimpanzè).
Mi ero ripromesso di parlarne ad opera conclusa, ma credo dovremo aspettare ancora qualche mese. Sto parlando di Prometeo, eccezionale saga dai toni apocalittici e cospiratori scritta dal bravissimo Cristophe Bec. Un fumetto complesso, articolato e forte di un nutrito numero di personaggi e di ambientazioni disegnati con stile iperrealistico. 
Dentro quest'opera monumentale l'autore riesce – miracolosamente – a far convivere tematiche che spaziano dalla mitologia greca all’ufologia, dalla fisica quantistica alle teorie del complotto e parecchio, parecchio altro.
Visivamente meraviglioso e, a livello di testi, curatissimo e strutturato.
Per la primavera di quest'anno ne è atteso il quinto e conclusivo volume.


Un altro paio di segnalazioni le riservo rispettivamente per un prodotto nuovissimo e uno – invece – vecchio di oltre vent'anni. Il primo è Noumeno, italianissimo fumetto dove filosofia, politica, tecnologia e metafisica si fondono in un racconto a più livelli passando per un segno che ricorda più di ogni altro le cose migliori di Bill Sienkiewicz.
Se non si compromette nella conclusione, rischia di essere la rivelazione dell'anno.

Il secondo è la prima edizione italiana, ad opera di Magic Press, di Robocop versus Terminator, graphic novel che vede coinvolti due dei maggiori franchise degli anni novanta firmata da un nome del calibro di Frank Miller (del tutto a suo agio anche con lo sci-fi e i viaggi nel tempo), e da quello di Walter Simonson, vero erede della lezione di Jack Kirby: storia originale, circolare e immaginifica che si reinventa le origini di Terminator una tavola via l'altra. Spassoso.

martedì 5 gennaio 2016

Cyberluke Awards... anzi, no (parte 4).


SERIE TELEVISIVE
Se ne sono accorti anche i sassi: mentre la tv generalista è sempre più bersagliata come anacronistica, ripetitiva e tarata su un pubblico catatonico, dall'altra parte abbiamo assistito, negli ultimi anni, a una crescita esponenziale che è partita dalle serie americane e – di fatto – ha liberato la televisione del senso di inferiorità nei confronti non solo del cinema, ma anche del teatro e della letteratura (non sono pochi a sostenere che parte della nuova letteratura oggi si esprima attraverso le serie tv).

La fruizione televisiva odierna ha creato un nuovo spartiacque tra le vecchie e le nuove generazioni: oggi, se vuoi vedere roba non inclusa nel palinsesto televisivo tradizionale, devi possedere un minimo di competenze informatiche e conoscere il significato di termini come streaming, torrent, on demand. Se solo dieci anni fa bisognava fare i salti mortali per vedere roba non trasmessa nel nostro paese e a una definizione ridicola, adesso Facebook inizia a riempirsi di commenti sull'ultimo episodio di Game of Thrones a pochi minuti dalla sua comparsa in Rete.

Eppure la tv tradizionale non sembra aver ancora del tutto recepito la rivoluzione in atto nel mondo mediatico. Sì, ci sono tentativi apprezzabili di uscire dagli schemi (Gomorra o Romanzo Criminale, molto peggio 1992, cucinato e servito come un telefilm anni 90)... ma la fiction tradizionale Rai è legata ancora a schemi vecchi e sorpassati, più teatrali che cinematografici. Non è quello il posto dove guardare, una volta di più, se si vuole capire dove sta andando l'intrattenimento. 


Mai come quest'anno ho iniziato un numero così alto di nuove serie televisive, e quelle che mi ha proposto la tv satellitare le posso contare sulle dita di una mano. Di fronte tanta offerta, essere selettivi è un imperativo. Il mio tempo è prezioso (e dovrebbe esserlo anche il vostro) e quindi ho falcidiato senza pietà tutte quelle che non mi hanno convinto fin dall'inizio.
A cominciare da quelle derivate da franchise cinematografici di successo: Limitless, 12 Monkeys e Minority Report (tutte afflitte dagli stessi difetti: scrittura e taglio troppo televisivi, casting tirati via, produzioni al risparmio) per continuare con cose parecchio già viste come Dark Matter (in ritardo di dieci anni e oltre in termini di soluzioni visive e narrative), Sense 8 (è stato detto che è una serie che lavora nel lunghissimo termine, ma io ho trovato eccessivi i suoi tempi e, comunque, non sono riuscito ad andare oltre il terzo episodio) e Zoo (un bello spunto iniziale completamente sciupato da una messa in scena poverissima).
Heroes Reborn è stato, per quanto mi riguarda, un tentativo maldestro di rebootare il franchise: peccato.

Alcune nuove serie mi sono piaciute con qualche riserva (Mr. Robot, per esempio, è partita alla stragrande per afflosciarsi in un final season confuso e già visto), altre le ho seguite fino alla fine più per inerzia che per altro (Humans, un remake di Akta Manniskor senza guizzi e con nemmeno un protagonista azzeccato, Extant che comunque sembra arrivato al capolinea e the Strain, che ci ha dato un pilot di primissima qualità e poi è scivolata lentamente nella noia).
Un paio di  buone sorprese sono arrivate da Wayward Pines (che rialza la testa esattamente a metà stagione e prosegue dignitosamente fino alla fine) e da Fortitude (basterebbe Stanley Tucci a farvela guardare, ma la serie ha anche altri meriti), entrambe arrivate su Sky Atlantic. 
D'altra parte, The last Panthers, la coproduzione franco-serba conclusasi pochi giorni fa proprio su Sky Atlantic, poteva essere ma non è stata (non basta desaturare a tutta manetta, bisognerebbe anche sviluppare tutto il materiale umano che c'è a disposizione).

Se altre serie hanno beneficiato di una relativa brevità (le tre puntate di Ascension e di Childshood End sono state un format che ha funzionato piuttosto bene e forse persino The Whispers si sarebbe salvato dal naufragio negli sbadigli), i dieci episodi di The Man in the High Castle sono volati via in un paio di pomeriggi: messa in scena di gran classe, Ridley Scott come coproduttore e un soggetto di Philip K. Dick potevano farne l'evento televisivo dell'anno, ma così non è stato.
Cosa non ha funzionato?
Personalmente, mi aspettavo seguisse maggiormente il solco tracciato dal romanzo distopico di Dick che l'ha generata, e invece, più o meno nella prima metà, la serie sembra prendere altre direzioni: il focus resta troppo sui rapporti tra i singoli personaggi, mentre la serie "respira" proprio quando si sposta su una visione più allargata della vicenda (il presupposto ucronico resta fin troppo sullo sfondo, forse anche a causa delle più ristrette possibilità del piccolo schermo). 
E, sì, c'è un gran bel cliffhanger di fine stagione, ma sono solo gli ultimissimi minuti.

Quindi, chi resta da far salire sul podio?
Non ho dubbi: a mente fredda (ho finito di vederla già qualche mese fa), Daredevil si porta a casa a pieno diritto il titolo di migliore serie dell'anno.
Che, se non l'avete vista, sappiate che non è la solita serie a tema supereroistico.
Cioè, lo è incidentalmente. Ma è soprattutto una serie noir, scritta con intelligenza, misura e una quantità di ultraviolenza (mirabilmente coreografata) che non avete mai visto né mai vedrete in alcun cinecomic.
Una serie caratterizzata da personaggi fantastici e interpretazioni ancora più fantastiche. Da regie ispirate e da una bella fotografia. Una serie che non sfigura, per toni e crudeltà, accanto al Batman di Nolan, per dire.
Questa prima stagione si conclude in una maniera perfetta e vi lascia addosso la voglia di vederne ancora, subito.
Se avete perso Daredevil, recuperatela. È il migliore consiglio che potrete tirare fuori da tutto questo post.

domenica 3 gennaio 2016

Cyberluke Awards... anzi, no (parte 3).


CINEMA
Continua ad essere un bel periodo per i Marvel studios e qualsiasi roba mettano in campo in ambito superoistico, compresa la – per me, mediocre – serie Agents of Shield. Tutti gli altri cercano di entrare in scia, malamente (come Salvadores e il suo insalvabile Ragazzo Invisibile, o la Fox con uno dei flop più annunciati dell'anno... peccato, perché per me I Fantastici Quattro è stato meglio, per dire, dell'ultimo Thor o dei Guardiani) o generando hype senza precedenti (il prossimo Batman vs Superman).
Io mi ci diverto molto meno che una volta, tant'è che non inserisco nè Age of Ultron (di cui ho parlato QUI) né Ant-Man nei primi dieci film di quest'anno, ma va detto anche che il sottoscritto si sta allontanando sempre di più – anagraficamente – dal target di riferimento. Quindi, poco da meravigliarsi.

Poi, naturalmente, c'è stato (e c'è ancora) Star Wars a capeggiare la sempre più compatta schiera di sequel, reboot od opere "tratte da". Avevo delle aspettative su alcuni, in parte sono state disilluse, in parte credo che abbiamo avuto dei discreti prodotti d'intrattenimento. 
Sotto la voce reboot/remake riusciti e graziati pure dal successo commerciale ci mettiamo Jurassic World (ne ho parlato QUI).

Appena passabile il nuovo capitolo di Bond e pessimo quello di Terminator (QUI la mia recensione completa). Per il primo è quasi un delitto non essere riusciti a saper mantenere l'altissimo standard di Skyfall, per il secondo ammetto che fino all'ultimo ho sperato che non fosse un disastro completo, invece è venuto persino peggio di Salvation.
In compenso, due degli outsider sono stati due soggetti originali, entrambi fantascientifici ed entrambi pienamente riusciti: sto parlando di Ex Machina e Automata, che, per quanto mi riguarda, hanno fatto meglio anche di Chappie/Humandroid che non mi ha lasciato dentro nulla all'uscita dalla sala né più tardi, riguardandolo in home video.

Per la categoria "tamarrate di gran lusso", difficile non parlare di Mad Max, Mission: Impossible e il settimo capitolo di Fast and Furious 7 (quest'ultimo, per me, uno dei migliori film dell'anno nell'ambito dell'intrattenimento più puro... forse perché era quello dal quale mi aspettavo meno).

Parlando di soggetti originali slegati dai soliti franchise, impossibile non citare Imitation Game (cast perfetto, colonna sonora e fotografia di primissima qualità), Birdman (forse più un esercizio di stile che qualsiasi altra cosa) e il recentissimo Il Ponte delle spie (Spielberg e un immenso Tom Hanks che regalano un classico istantaneo per tutte le generazioni). E, restando dalle nostre parti, il magnifico Suburra che, al netto dei suoi limiti in termini di taglio (Sollima viene dalla televisione e si nota un pelo di troppo) e script (le cazzate ci sono ma sono mascherate bene) è il film italiano dell'anno, senza se e senza ma.

Invece, se dovessi nominare un unico film che racchiude tutta la delusione, tutte le aspettative non corrisposte, tutto quello che poteva essere e non è stato, non avrei dubbi: il Jobs di Danny Boyle (è uscito in USA nel 2015 e da noi arriverà non prima di ancora qualche settimana, quindi, per quello che mi riguarda, vale). Non un film brutto, ma semplicemente sbagliato. Se vi interessa, QUI spiego tutti i perché e i percome.

C'è altro?
Sì, c'è tutto il sommerso del cinema che non riesce a trovare una strada per la distribuzione, ma è proprio là fuori, spesso a portata di clic: richiede solo un po' di costanza nello scoprirlo (ma chi vuole sa dove cercare) e la pazienza di guardarselo in originale (ma credo non sia più un problema per nessuno).
Se non ne avete mai sentito parlare, vi raccomando caldamente Coherence (un thriller metafisico girato con due spiccioli ma potentissimo nella sua scrittura ciclica), After the Dark (fuori dagli schemi, intelligente, impietoso e foriero di riflessioni per nulla banali) e I Origins (lento finché vi pare ma uno di quei film che vi lascia dentro qualcosa dopo i titoli di coda).

E questo, grossomodo, è tutto. Non parlo (e non ho parlato) del nuovo Episodio VII perché chiunque, dall'uomo dalla strada a quello che ha fatto di Star Wars una religione (a me potete trovarmi più o meno a metà strada) si è sentito in dovere di recensirlo, smontarlo, esaltarlo o coprirlo di fango, e io ho scelto la strada di quello che voleva entrare in un cinema, divertirsi e basta (peraltro, riuscendoci in pieno).
A volte, tutto quello che dovremmo fare è rinunciare a giocare al Piccolo Critico e abbandonarci alle emozioni, e Star Wars, in questo senso, è un film perfetto.


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