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lunedì 28 gennaio 2019

LA CAVERNA DI PLATONE

 
 


                                           Il mio male era legato alla visione.


(…) L'estrema, e per me innaturale, calma che sento è forse dovuta
       al fatto che è come se avessi chiuso un cerchio. O più
       realisticamente, come nel mito della caverna di Platone, per
       quarant'anni sono stato prigioniero della mia opinione, per
      quarant'anni ho creduto passivamente non all'immagine diretta
      e sensibile di mio padre, ma alla sua ombra proiettata sulla
      parete della mia caverna. Io ho vissuto in un mondo illusorio
      in cui ho ricostruito l'idea di un padre inesistente, congelato in
      un tempo remoto immutabile. Io paragono il mondo che ho
      edificato attorno a lui  " alla dimora della prigione  e la luce
      del fuoco che vi è dentro al potere del sole". Allora - penso - il
      mio male è nato nella caverna. E' nato dalla visione, anziché
      delle cose reali, delle loro ombre. Io sono come il prigioniero
      di Platone, incatenato fin dall'infanzia, che non avendo
      esperienza del mondo esterno è portato a interpretare le ombre
     " parlanti". Io, per quarant'anni, dentro di me, ho parlato con
      l'ombra di mio padre, un'ombra maligna e austera, traditrice,
      abdicante; ho immaginato mio padre immerso in una vita mille
      volte migliore della mia, che mi guardava sprezzante, e la sua
      ombra mi ha condotto quasi alla follia. Io, nella mia caverna,
      non ho visto altro che questa proiezione. Il resto del mondo non
      è mai esistito ai miei occhi. Poiché ciò che credevo essere il
      resto del mondo, in realtà non era altro che l'alone soffuso dell'
      ombra parlante di mio padre. Il mio male non è quindi diretta
      conseguenza delle azioni di mio padre, ma effetto del preciso
      atto di volontà che ho compiuto da bambino:rinchiudermi nella
      caverna per vivere in contemplazione di quell'unica ombra
      immensa. E allora nulla è veramente mai esistito nei termini
      che ho creduto, neppure le persone a me più care.
      E così, dunque, la calma che ora sento non è altro che
      stupefazione, è l'attonita meraviglia che provo nella diretta
      visione del mondo, delle persone che amo, che io vedo - ora -
      per la prima volta nella loro oggettiva realtà. Adesso io nella
      caverna mi sono finalmente voltato, mi sono liberato delle
      catene  ho la faccia rivolta verso l'uscita; i miei occhi sono
      abbagliati dalla luce del sole, le forme dei miei cari mi
      sembrano meno reali delle ombre alle quali ero abituato, e la
      mia calma è dovuta alla contemplazione, al tempo che mi sono
      dato per abituarmi alla nuova realtà.
      Il mio male era legato alla visione.  (…)



                   Andrea  Pomella    da     L'uomo che trema


domenica 27 gennaio 2019

RITROVARSI, E LA VITA

 
 

" Senza amore di sé, neppure l'amore per gli altri è possibile :l'odio per se stessi è esattamente identico al flagrante egoismo e conduce alla fine al medesimo - crudele - isolamento, alla medesima disperazione " . ( H. Hesse )


(…) Incontrare dopo così tanto tempo una persona che si è
       conosciuta a fondo, con cui si è convissuto, e con la quale ci si
       è infine persi di vista al punto da averla data per morta,
       equivale a ritrovarsi al cospetto di un fantasma. E' un evento
       che ha del soprannaturale. Ma è anche un'esperienza
       culminante. Poiché non c'è niente - credo - che possa dare luce
       all'esistenza umana, illuminarla in tutto il suo ampio spettro,
      ponendoci davanti al suo stesso mistero- che è poi il mistero di
      noi uomini , esseri mutanti in continuo movimento, alterati dal
      tempo e dagli eventi, dalla somma spaventosa dei giorni - non
      c'è niente più di questo - penso - che riesca a rendere l'idea di
      quel che sia, in fondo a tutto, la cosa che chiamiamo vita . (…)



                 Andrea Pomella   da      L'uomo che trema


domenica 20 gennaio 2019

L'UOMO CHE TREMA ( presentazione )



L'uomo che trema racconta. Guarda la sua malattia come se fosse un corpo estraneo, la viviseziona, cerca di capire qualcosa di importante ( e di farcela capire ). E' in gioco il senso di tutto - per lui - che sa che più si è depressi " più le cose si fissano nell'attesa di farsi ghiaccio", come scriveva Cioran. E, in un certo senso, la sua cronaca è di ghiaccio. Proprio per questo emoziona nel profondo.
Le reazioni del corpo e della psiche alle aggressività chimiche dei farmaci, la paura, i vari incontri con gli psichiatri, il rapporto con la compagna e con il figlio costretti a convivere con i tumulti della malattia. Le corse per le vie di Roma, le passeggiate nei luoghi di Giuseppe Berto ( autore de " Il male oscuro " ) e, al culmine della sofferenza, l'appuntamento che riporta in vita un antico fantasma di famiglia, il padre ripudiato. Uno spiraglio di luce, la possibilità di pronunciare - forse - la parola " guarigione".
Leggere questo libro significa immergersi nel mondo di un altro fino a sentirlo completamente proprio. Significa seguire - passo dopo passo , con i sensi in allerta - il percorso da una condizione di dolore assoluto a una condizione nuova e possibile. Significa - letteralmente - essere rapiti. Perché, a conquistarci, sarà la temperatura di ogni riga, la pasta della scrittura, l'intelligenza febbricitante, la qualità dello sguardo. In una parola: la voce dell'uomo che trema.



                                 ( f )

L'UOMO CHE TREMA 1

 
 

                                                                   Un'isola - io - curarti saprò…


(…) Dopo molti giorni in cui mi svegliavo di cattivo umore con un
       peso nel petto, difficoltà a deglutire, senso di oppressione, una
       mattina mi sono svegliato chiedendomi: perché mi sveglio
       sempre di cattivo umore? E ancora: perché dovrei svegliarmi
       di buon umore? Ma soprattutto: che cosa sono il cattivo e il
      buon umore?Dove sta la verità dell'umore?Fingo di più quando
      sono di buono o di cattivo umore? E fingo rispetto a cosa ?
      Rispetto alla realtà del mio umore o rispetto alla fisionomia
      oggettiva della realtà che mi circonda? E quindi, come dovrei
      essere, una volta accertata la fisionomia oggettiva della realtà
      che mi circonda: di buono o di cattivo umore? E se riesco con
      ragionevole obiettività ad accertare la fisionomia della realtà
      che mi circonda, ossia se mi riscopro dotato della qualità
      psicologica necessaria a giudicarla con ragionevole obiettività,
      allora perché il mio umore sembra insensibile a questa realtà,
     perché reagisce come se non esistesse,ma anzi come se la realtà
      di riferimento fosse un'altra, e come se quell'altra realtà fosse
    - diciamo - tendenzialmente più brutta della realtà oggettiva?
      Di norma nella genesi del nostro umore sono coinvolte diverse
      componenti che si combinano tra loro in modo imperscrutabile.
      Per esempio, se me ne sto seduto in giardino, considero questo:
      la brezza tiepida che mitiga l'afa d'agosto, quattordici piante
      vive, una morta, due in via di avvizzimento; la signora del
      palazzo di fronte che sbraita all'indirizzo di un cane che abbaia
      ininterrottamente da due mesi; le punture di zanzare che
      fioriscono sulle mie gambe e sulle mie braccia; il cielo limpido;
      l'erba infestante che cresce in mezzo al ghiaino; il canto delle
      cicale. Elementi che nella composizione del mio stato d'animo
      possono avere segno + o segno - e che, sommati o sottratti,
      stabiliscono il tono del mio umore.  (…)


                        Andrea  Pomella  da     L'uomo che trema

L'UOMO CHE TREMA 2


(…) Tuttavia un computo del genere vale per gli animali, non per
       gli uomini. Soprattutto non per me. Il meccanismo che
       contribuisce a costruire il mio cattivo umore è il seguente: la
       brezza tiepida che mitiga l'afa di agosto mi ricorda le
       agghiaccianti, infinite estati solitarie di quando ero bambino e
      la testa mi tuonava in un vuoto ancestrale.Le quattordici piante
      vive, quella morta, e le due in via di avvizzimento sono il segno
      che - nell'arte del giardinaggio - come in tutte le forme d'arte in
      cui mi sono cimentato, sono destinate a fallire ( tempo due
      settimane e il numero delle piante morte supererà quello delle
      piante vive ). La signora esasperata dall'abbaiare del cane è la
      materializzazione di ciò che accade di norma nella mia testa (
      c'è un cane che abbaia ossessivamente, nella mia testa ). Le
      punture di zanzara, il cielo limpido, l'erba infestante, il canto
      delle cicale, mi riportano col ricordo alla parte disabitata e
      selvaggia di un'isola che visitai all'età di diciotto anni, a una
      madonnina sul bordo della strada che digrada verso il mare,
      agli occhi della madonnina fatti con due pietruzze bianche, i
      quali,nel biancore della luce mediterranea e nell'ampio silenzio
      soffice di quel vuoto terracqueo, mi restituirono l'impressione
      della più vasta, assoluta solitudine concepibile in natura; all'
     atto di vandalismo che compì uno dei ragazzi che erano con me,
      il quale scagliò una pietra contro la madonnina spaccando il
      vetro che proteggeva quegli occhi gelidi. Tutto questo accade
      mentre me ne sto seduto in giardino, convinto di non essere
      immerso in una fase particolarmente riflessiva né drammatica
      né emozionante,ma in uno stato che giudicherei neutro. Eppure,
      ecco, è così che prospera il mio cattivo umore. Non è quasi mai
      in connessione con la realtà che mi circonda e - se lo è - è solo
      perché quella realtà è il treno sul quale salgo per arrivare a
      più remote destinazioni. Tutto questo - mi è stato spiegato di
      recente - avviene per delle infinitesimali produzioni di sostanze
      chimiche, per questioni " organiche", " cromosomiche " e
     " genetiche". Quindi il cane, le estati di quando ero ragazzino,la
      madonnina con gli occhi di pietra non sono altro che delle
      entità molecolari, ioni,miscele. Niente è vero, nessuna realtà.
      Solo il mio cattivo umore è vero.  (…)



                     Andrea  Pomella    da     L'uomo che trema


 

L'UOMO CHE TREMA 3


(…) Quello che chiamo " cattivo umore" è in realtà una vera e
      propria malattia.Tuttavia non ha la forma di una vera e propria
      malattia e dunque, per secoli, è stata relegata al rango di non-
      malattia. Una non - malattia il cui effetto era - per Teresa D'
      Avila - " di oscurare e disturbare la ragione , cui non riesce a
      far arrivare le nostre passioni ". Più una bizzarrìa della mente,
      quindi,un capriccio, se non addirittura uno strumento nelle
      mani del demonio. Ma anche una devianza congenita, di quelle
      forme di devianza che, nelle loro manifestazioni più gravi ed
      evidenti, meritavano di essere trattate in manicomio.La mia
      malattia non ha una fisionomia precisa: due malati della mia
      stessa malattia possono mostrare sintomi differenti, provare
      diverse esacerbazioni, sempre nuove corruzioni del sistema
      nervoso. Soffro di questa malattia che la comunità scientifica
      definisce sommariamente " depressione maggiore " da quando
      ho coscienza del mondo, da quando cioè ho occhi e cuore per
      decifrare la realtà che mi circonda,perciò direi dalla più tenera
      età.Il mio problema è sempre stato quello di non attribuire
      dignità di malattia al modo in cui - appunto - decifro la realtà.
     Nella mia famiglia questa percezione veniva bollata con quattro
     parole : " Hai un carattere difficile". Qualcosa che, di volta in
     volta, aveva a che fare con la suscettibilità, la timidezza, l'
     ombrosità,l'asocialità,il peso di un'infanzia travagliata, con una
     generale intrattabilità, nei momenti peggiori con un'inguaribile
     indolenza. Ma non era niente di tutto questo, o forse era la
     somma di tutto questo, il complesso dei sintomi caratteristici
     della mia malattia, la malattia che la mia famiglia non
    riconosceva come tale.La mia ostilità e il mio cattivo umore sono
   stati i cupi compagni di viaggio con cui ho condiviso i miei giorni
    La presa d'atto di cosa si nascondesse in realtà dietro tutto
    questo è avvenuta molto presto. Sapevo che c'era qualcosa in me
    che non poteva essere attribuito come una colpa, ma non trovavo
    le parole per spiegarlo. E quindi, per decenni, mi sono preso la
    colpa, la colpa di avere un carattere difficile.
    Nell'epistolario di Freud si legge:" Nel momento in cui ci si
    interroga sul senso e sul valore della vita si è malati ,giacchè i
    due problemi non esistono in senso oggettivo". Questa, che
    potrebbe essere la tipica frase di un depresso, è un'istantanea
    realistica e feroce della depressione, poiché contiene il gioco
    assurdo,il paradosso impazzito in cui si dibatte il depresso. Sono
    malato nell'istante in cui dico a me stesso che la vita non ha
    significato. Ma se è - oggettivamente - così, ossia se la vita è
    realisticamente priva di significato, allora gli altri,  coloro che
    invece intravedono nella vita un significato, sono colpevoli di
    rimozione. Dunque si può dire che la malattia è insita negli
    esseri umani, ma solo coloro che riconoscono di essere malati
    vengono considerati tali, tutti gli altri si ritengono integri, e
    quindi l'integrità è la loro malattia. Il depresso si dibatte tutta la
    vita in questo corto circuito alimentato dal proprio realismo e
    dalla propria lucidità. (…)



                Andrea  Pomella    da     L' uomo che trema