Visualizzazione post con etichetta Umberto Fiori. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Umberto Fiori. Mostra tutti i post

martedì 22 ottobre 2024

POESIE PER L' ORIENTINA

 


                                                           Tu sei una potenza primigenia...


Negli anni '70, oltre che a laurearsi in Filosofia, Umberto Fiori era entrato nella Sinistra extra parlamentare e poi, come cantante, chitarrista e paroliere, negli Stormy Six, uno dei gruppi più importanti in quell'area. Il gruppo ottenne fama europea ( in particolare in Germania ) e Fiori passò anni vorticosi fra tournée e sale di incisione. Fu per qualche tempo un cantante e un musicista di successo, oltre che un militante per la rivoluzione. Ma non durò a lungo : altri ritmi e altre musiche scalzarono il rock progressivo. La parabola di Fiori lo portò a rinnovarsi - a suo modo - su contenuti ancora più stranianti : il modo antico di essere poeta nella modernità. All' inizio degli anni '80 si ritrovò a girare per Milano, osservando disorientato le cose e le persone. Con una polaroid si mise a fotografare gli edifici, in particolare i più squallidi e anonimi. Nacque allora uno dei fili conduttori della sua poesia : il tema delle case. L' Io pare assente dalle sue prime raccolte e anche i personaggi sono privi di un'identità definita : una poesia non lirica, si direbbe. A posteriori, è evidente che l' Io era presente e vigile sin dall'inizio, solo, stava tentando di prendere le misure di una realtà che non capiva e di una vita che non sentiva sua. A mano a mano, questo Io emerge sempre più nettamente e prova a rispecchiarsi in ciò che vede, ritrovandovi anche la propria frustrazione. Infine, formula conclusioni - provvisorie o in apparenza definitive - che vanno oltre la sua storia personale.


                            (   Tratto  dalla  Prefazione   di Luca  Zuliani  )






TRE POESIE PER L' ORIENTINA

         ( 18 Aprile 2008 )


" Pondus meum, amor meus ;                    " Il mio peso, il mio amore

Eo feror, quocumque feror ) "                        lo porterò; lo porterò a 

          Agostino, " Confessioni "                   tutti "



Ero preso, non c'erano più scelte,

giudizi, volontà.


Ero un peso. Tu eri

la gravità.



                                           ***


E' vero : di attenzione

ne ho poca. Nella mia testa

dati, fatti, persone,

come vengono vanno. Tanti discorsi

li afferro a malapena, tanti nomi

tante facce mi sfuggono.


Ma questo piede che mi hai messo in mano

vedi come lo tengo? Sono anni.

Una vita.


Mi si rivolta fra le dita

tiepido, buio, tutto da sapere;

mi scalcia - questo piede - dentro il cuore

come nella tua pancia

Cecilia

Giovanni.



                                                  ***


Tu sei una potenza primigenia:

l' Orientina sei, la patrona

candida e furibonda

di tutti i cominciamenti,

sei la grande Sbocciante,

l' Albeggiante, la Ricca - di- Mondo.


Quando te lo dicevo

vent'anni fa,

non era solo un gioco, una serenata.

Era la verità.


A ridirtela oggi

ti dà fastidio :

non ridi nemmeno più.


Lo so, lo so: non vuoi essere un idolo.

Vuoi che io mi ravveda,

che finalmente ti consideri

quello che sei, né più

né meno.


Io vedo solo dèi.

Mi conosci, lo sai :

questo è il mio limite. Ma se tu me lo imponi

mi sforzerò di fare come se al mondo

non ci fossero altro che persone.

Anche tu - quindi - una persona. Va bene?


Quello che dentro mi sragiona

quando ti sto di fronte

farò conto che sia solo rispetto,

affetto, stima.

Della tua furia celeste

non avrò più paura :

la chiamerò arrabbiatura.


Troverò una misura, te lo prometto.

Sarò umile, saggio,

calmo, paziente.


Vedi com'è potente

il tuo nume?



                  Umberto Fiori   da    Tutte le poesie - Garzanti 2024




venerdì 2 luglio 2021

I CHIARIMENTI DI UMBERTO

 


                                                          Tutto deve ancora succedere...




CAPO


Quando uno per strada

sente chiamare " Capo! "

e si volta, e si accorge che ce l'hanno

proprio con lui, 

gli sembra un onore grande

essere lì presente: uno che passa,

un uomo valido, che può dare una mano

e poi sedersi a tavola, magari

al ristorante, mordere il pane

e ricordarsi il mondo della luna,

dove non si era niente.



                                                ***

CANI DI CITTA'


Di colpo, girato l'angolo,

due cani urlano, si avventano

uno sull'altro : due scoppi di spavento

impiccati al collare che li strangola.


Uno sembra che pianga,

mentre sbava con fuori tutti i denti.

Fa il giro largo la gente,

va per le aiuole, nel fango.


Scatta di nuovo il verde,

il giallo, il rosso: passa un mese, un anno,

passa una settimana, passa un'ora.


Io rimango lì impiccato con loro

che non sanno calmarsi, che non sanno

lasciarsi perdere.



                                                     ***

DI GUARDIA


Mi conoscono bene, hanno ragione:

io sono come un cane,

una di quelle bestie nere che dormono

intorno ai capannoni industriali

e se passi, si avventano di colpo

sulla rete metallica

e più gli dici " buono!" , più si sgolano.


Adesso, chi li consola?

Finché non hai girato l'angolo

gli bolle il sangue. Tirano tutti sordi.

Scoprono i denti, mordono

anche il filo spinato; ma sono gli occhi

che fanno più paura: sereni

e puri come quelli di un neonato

o di una statua.


Hanno imparato il compito: questo recinto

tenerlo sgombro. Sia senso del dovere

o invece solo istinto, non ti commuove

almeno per un attimo

la scena che - loro - sempre, tutta la vita,

li fa smaniare, li esalta,

li avvelena?


Io, per me, lo capisco

meglio di tutti gli altri che ho mai sentito,

questo discorso.

La riconosco bene la voce

fanatica, che sbraita per difendere

- così, alla cieca, per pura gelosia -

l'angolo dove l'hanno incatenata.


Tu non sai che cos'è, stare di guardia,

in ogni odore

sentire una minaccia

a quei tre metri di terreno,

urlare in faccia al mondo intero

fino a perdere il fiato, e non sapere

cosa c'è da salvare, a che cosa

veramente si tiene.



                                         ***


RINFRESCO


" Ma goditi un po' al vita ! 

Sei sempre così  serio, così rigido..."

sospira un cadavere, al rinfresco,

versandomi l'aperitivo.

" Perché non provi ad essere più sciolto,

più morbido ?"


Un altro parlava dei nuovi

scenari, di come - presto -

niente sarebbe stato più lo stesso,

e gli brillavano le orbite.


Io sorridevo fino a farmi male,

ma non riuscivo più a nasconderlo

né a me né a loro, che ero troppo piccolo

persino per giocare ai soldatini,

o alle signore.



                                       ***


PER STRADA


Se all'angolo una signora

- o magari un vigile -

si volta

con la faccia scavata dalla luce

della bella giornata

e parla - proprio a me,

a me, qui - del rispetto che si è perso

o del caldo che fa,

io mi sento mancare, come un santo

quando sfiora l'eternità.


Sento le piante crescere, sento la terra

girare. Tutto mi sembra forte e chiaro, tutto

deve ancora succedere.




                            Umberto  Fiori     da      Chiarimenti



mercoledì 19 agosto 2020

LA POESIA DI PAOLO STEFFAN



(...) La poesia in dialetto ha una lunga e gloriosa tradizione nella
       nostra letteratura, da Belli a Porta,da Di Giacomo a Noventa.
       Negli anni ' 70 del secolo scorso si assisteva ad un suo revival
       come autori come Loi, Baldini, Scataglini- Anche allora però
       l'uso del dialetto faceva storcere il naso a qualcuno:il sospetto
       che questa scelta costituisse una fuga all'indietro, un alibi, un
       lasciapassare per dire ciò che in lingua non si poteva più dire.
       Personalmente ho sempre sentito la poesia in dialetto come un
       antidoto: antidoto a certe patologie della tradizione in lingua,
       soprattutto di quella del Novecento. L'aspetto più rilevante mi
       pare il legame obbligato con un parlante cui si fa 
       implicitamente appello. Al contrario di quella in lingua, la 
       poesia in dialetto mi fa l'effetto di una parola che esce dalla
       fonte, che è radicata in un locutore, rivolta all'ascolto di un
       auditorio che la condivide: nella poesia in dialetto, il 
       significante non arriva mai a presentarsi come puro " 
       materiale" disponibile in vista della costruzione di un oggetto
       estetico: è sempre materia viva di un discorso lirico. Questo
       si riflette - mi sembra - anche nel ritmo. Nelle poesie di
       Steffan non si avvertono quei cigolii di argani e ruote dentate,
       quegli inciampi, quel goffo sgambettare e sbracciarsi che
       invece caratterizzano i versi assemblati in italiano di tanti 
       suoi coetanei. Il tema portante della raccolta è quello che 
       prende il nome di " male". Non il montaliano male di vivere
      che si riscontra dolorosamente tanto nei paesaggi svuotati e 
      nelle presenze men che anomale che lo popolano.In molto testi,
      a manifestare questo male è innanzitutto la vegetazione: questo
      potrebbe far pensare ad una poesia ecologista; in realtà nella
      raccolta di Steffan le piante incarnano un male che va ben al 
      di là del degrado ambientale ( anche se lo include ). Il male di
      cui si parla colpisce non solo le piante, la natura, ma, e forse
      più ancora " una lingua inceppata che si sta frantumando ".
      E'  a questo disastro nascosto dentro l'uomo che sembrano 
      alludere le minacciose citazioni bibliche in esergo ad alcuni
      testi ( " La mia giustizia sta per rivelarsi" dal libro di Isaia ).
      (...)




              Umberto Fiori   da     Poesia Contemporanea
      

mercoledì 9 gennaio 2019

FERMATA DEL TEMPO ( Prefazione )



(…) Lo confesso: nomi e cognomi agiscono su di me come
      allarmanti radiazioni;si insinuano nel mio cervello e risuonano
      volta a volta come lusinghe,esorcismi, implorazioni,proclami.
      Quando conobbi Stelvio Di Spigno( nel 2001 alla presentazione
      del Settimo quaderno italiano di poesia contemporanea a cura
      di Franco Buffoni ),le generalità di quel ventiseienne -nella mia
      testa- si associarono all'impressione che mi facevano i suoi
      versi e la sua presenza. Nel quinario  petroso e allitterante mi
      pareva di riconoscere i caratteri della sua poesia e della sua
      personalità: ai miei nervi, st e sp dicevano rigidità e iattanza, i
      uno stridìo, gn una torsione, una dolente contrattura.Nel nome,
      tornanti e rupi incombevano; spigoli e spine premevano nel
      cognome, dove nuotava - candido e superbo - un cigno
    mallarmeano.Allucinazioni morbose,certo.Ma i testi sembravano
     confermarle. Oggi, a distanza di più di un decennio, in questa
     Fermata del tempo , la mia fantasia delirante deve
     ricredersi. Di Spigno è cambiato.
     In questo nuovo libro, niente più spigoli e torsioni:un racconto
     sofferto, disarmante senza schermi, che va incontro all'amaro a
     viso aperto, raccogliendo ciò che resta degli anni. La musa di
     Di Spigno è - classicamente - figlia della memoria. Il suo
     sforzo è quello di frenare o addirittura di arrestare il flusso del
     tempo, di illuminare una " fermata " - appunto - per chiarire
     un'identità che rischia di perdersi, travolta dal corso caotico e
     inconcludente dei giorni. L' io lirico non si astrae, non si
     sublima: è nell'ordinario della vita e degli affetti che cerca le
     proprie radici sepolte… (…)



                               Umberto  Fiori