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23 maggio 2017

INSIEME RACCONTIAMO 21.



Ed eccoci al nuovo appuntamento con la bellissima iniziativa nata dalla mente dell'infaticabile e insuperabile di Patricia Moll nel suo spazio  Mirtilla'house.

I termini sono sempre gli stessi come potete leggere sul suo blog.

L'incipit di Patricia


Stava affettando la cipolla per il ragù. La radio accesa a tenerle compagnia. Canticchiava sottovoce così come era capace, stonata e storpiando le parole inglesi.

Quasi a tradimento, dopo il mitico Elvis e il suo IN THE GHETTO, nell’aria si diffuse la voce roca e potente, inconfondibile, di Louis Armstrong. 
Le note e le parole di WHAT A WONDERFUL WORLD entrarono nella cucina e dentro di lei.
Si fermò col coltello a mezz’aria come colpita da un pugno.

Come è bello il mondo… ma era bello davvero?

Il mio finale:

Pensava alla strage di ragazzi appena accaduta in un luogo in cui la musica era la regina. A quei genitori, che come era capitato anche a lei, diverse volte avevano aspettato i loro figli all'uscita di un concerto, in attesa di sentire i loro commenti entusiasti e pieni di gioia ancora carichi di tutta quella energia positiva che distribuiscono in giro, alla fine di ogni evento del genere. Sentiva addosso le urla, le lacrime, la disperazione. Le si strinse il cuore e si sentì impotente.
Contro il male assoluto, contro chi, in nome di un dio sanguinario assolutamente sconosciuto ai più, colpiva al cuore intere popolazioni per lasciarle distrutte e impaurite, cosa c'era da fare?

Alzò il volume della radio in modo che la musica potesse sentirsi ancora di più. 
Si può solo frapporre bellezza e amore.
E non arrendersi, mai.





23 febbraio 2017

INSIEME RACCONTIAMO 18.








Siamo ad una nuova puntata dell'appuntamento con Insieme raccontiamo, ideato da Patricia Moll. 



Come di consueto partiamo dal suo incipit iniziale e dalla foto che ha scelto come tema.

La foto è questa:







L'incipit di Patricia Moll:

Battisti nelle cuffiette cantava “c’è un treno che parte alle 7,40...”

Forse non erano proprio le 7,40 però il treno era lì, fermo come un cannibale vorace pronto a inghiottire chiunque gli si avvicinasse troppo. Pauroso, eppure invitante.

Doveva smettere di guardarlo e prendere una decisione. Salire o no?

Il mio finale:


Salire, non c'era altra possibilità. E poi osservarsi, riflessa nel finestrino.

Il piumino azzurro in cui si era infagottata, quasi a volersi nascondere.
Il berretto  di lana pesante, lavorato a maglia da sua madre. 
I jeans color notte fonda con quella piccola etichetta rossa quasi indistinguibile, ormai.
E poi le vecchie scarpe da tennis bianche portate anche in pieno inverno.Erano ridotte ad un cencio ma lei non se ne separava mai, soprattutto quando doveva viaggiare.

Un panino ripieno al prosciutto, lasciato a metà sul sedile di velluto.Sul tavolino apribile, il suo walkman azzurro della Sony, con la vecchia cassetta arancione. Quello era il "periodo" Battisti, ascoltato fino allo sfinimento.
Era scesa di corsa dal treno dopo il piccolo incidente. Voleva aprire la bottiglia d'acqua appena comprata ma non aveva con sé l'apribottiglie. Allora aveva provato a stapparla come aveva visto fare a suo padre. Il collo di vetro era partito di colpo e si era procurata un taglio alla mano.
Il sangue fuoriusciva dalla ferita copiosamente, per cui si era precipitata giù per cercare di fermare il fiotto sotto il getto d'acqua della fontanella in stazione.
Il capotreno in servizio le era venuto in aiuto e dopo avere pulito la ferita le aveva fasciato la mano con un fazzoletto di cotone.
Aveva le lacrime agli occhi mentre lo ringraziava.
Sapeva che in realtà non era il dolore fisico quello che la faceva stare così male.
Era qualcosa di più profondo.
La ferita si sarebbe rimarginata col tempo, ma ciò che significava quella partenza invece, non sarebbe passato mai.
Era il 23 dicembre del 1985.
Quello che l'aspettava non era in grado di poterlo vedere chiaramente.
Sapeva che sarebbe stato difficile, con momenti di buio e dolore.
Ma la decisione era presa.
Lì alla fine di quella lunga strada ferrata, c'era il suo futuro.
Ad accoglierla, una città immersa nella nebbia del mattino appena travolta da una nevicata storica.
Avrebbe affondato i piedi in quel mondo nuovo e ovattato. 

Prima a tentoni poi sempre più sicura.

Tra le sue mani, tutta vita da vivere.

2017@Mariellaesseci 



PS: Il piccolo segno della ferita è ancora impresso nel palmo della mia mano; quel dolore sordo di fondo, come il fragore di un onda che si infrange sulla spiaggia, mi fa compagnia da oltre trent'anni.


22 gennaio 2017

INSIEME RACCONTIAMO 17










Partecipo nuovamente e con gioia all'iniziativa di Patricia Moll.

Come di consueto,  si parte dal suo incipit.



"Era l’alba. Gli piaceva scendere in spiaggia a quell’ora. In giro non c’era ancora nessuno perché i vacanzieri erano andati a dormire da poco.
Il silenzio interrotto solo dalla voce del mare lo rasserenava.
Girovagando, aveva oltrepassato il promontorio. In una piccola baia seminascosta l’aveva trovata..."

Ed ecco il mio sviluppo:


Una torre di sabbia. Di sicuro lasciata a riva da un gruppo di bambini che il giorno precedente avevano costruito un castello. E la marea che era salita la notte precedente, aveva distrutto quasi tutto. Solo la torre era rimasta, ultimo baluardo del gioco.
Lì, mentre le piccole onde del mare lambivano lentamente la base, lei ricordava i suoi momenti di svago. Su quella stessa spiaggia tanto tempo prima. Anni che le ripiombavano addosso con tutta la carica che la memoria riusciva a riportare.
Il mare era sempre stato il suo più grande amico. L'aveva protetta e amata fin dal primo giorno in cui si erano conosciuti.
Il ricordo era ancora vivido: lei bimbetta che rideva divertita mentre la spuma del mare le accarezzava i piedi e lui che con quelle carezze la chiamava a sé.
Amore a prima vista. Sua madre aveva dovuto tirarla fuori con la forza dalle acque chiare; non sarebbe mai venuta via di sua spontanea volontà.
Imparando a nuotare, aveva assaporato il senso di enorme libertà e di pace che andare a largo le regalava.
E lì, dimentica di tutto e tutti, ritrovava forze e nuova vita.
Una catarsi.
Respirò profondamente, il suo amico aveva nuovamente risposto alla sua domanda.
Le aveva regalato sicurezza e determinazione.
Lo salutò con lo sguardo e con il cuore, mentre il sole si alzava tingendo di rosa tutto intorno.
Poteva affrontare il ritorno e dire sì a quell'amore che non si aspettava più.
Ora sapeva di meritarlo. 
Suo figlio, che a lungo aveva tenuto distante in un'altra vita, oltre ogni storia, la stava osservando dalla terrazza di casa.
Aveva affrontato un lungo viaggio per ritrovare quella donna che un giorno , tantissimo tempo prima, aveva deciso di vivere la sua vita senza aspettarlo. Un rifiuto a cui non si era mai rassegnato, di cui non aveva mai compreso le ragioni fino alla sera prima, quando sua "madre" aveva finalmente accettato di vederlo e di spiegargli.
C'era stato tanto dolore da affrontare e poi tanta paura.
Ma ora, vedendola tornare indietro con quel sorriso misterioso sulle labbra, seppe che la pace era arrivata e con essa il loro diritto all'amore.



(@Mariellaesseci2017-tutti i diritti riservati)

30 ottobre 2016

INSIEME RACCONTIAMO 14, CON DEDICA.






Non se ne parla di mancare al nuovo appuntamento del bellissimo meme ideato da Patricia Moll.
E spero che mi perdonerà per l'inattesa virata che darò  alla sua iniziativa con il mio post.Ma oggi non sarei riuscita a scrivere nulla di diverso.
Come di consueto si parte dal suo incipit:



"Seduta ai margini del bosco sotto alla vecchia quercia spoglia rimuginava. Un peso le gravava sulla coscienza. Forse era giunta l’ora di liberarsene ma con chi parlarne? A chi rivolgersi? Chi avrebbe capito?
D’un tratto il tappeto di foglie ingiallite dall’autunno scricchiolò vicino a lei. Si voltò..."

Il mio seguito:

"Suo padre, con i capelli imbiancati dalla calce, le mani sporche e piene di graffi, il fisico provato ed un sorriso stanco, la stava osservando.
Erano stati giorni infernali, notti lunghissime e insonni. Da quella domenica sera che nel giro di un minuto scarso, le aveva portato via tutta l’infanzia.  Nulla del paese amato culla delle vacanze estive, era rimasto al suo posto.




Conza della Campania  ante terremoto - immagine presa dal web 



La bella chiesa antica, nel mezzo della piazza, dove aveva passato “interminabili” ore con la nonna e le zie a dire il rosario. 

Le care case del centro storico, costruite con i risparmi di chi era andato via giovanissimo a lavorare all’estero, con tanti sacrifici. Pietra su pietra, spesso con le proprie mani, mettendoci anni. E un giorno a tutta quella fatica avrebbe fatto sponda la soddisfazione di possedere un posto dove tornare, che fosse sicuro, che fosse casa. Dove invecchiare, vedere crescere i propri nipoti e la vita continuare lì dove era iniziata. Sostanza per le generazioni future. Famiglia.

Le stradine e i vicoletti che si arrampicavano a fatica fin lassù, alla cima del paese.

La cisterna dell’acqua, dominava la collina e la valle. Circondata da un giardino profumatissimo, che dalla primavera all’estate rimandava odore intenso di rose e di fiori dai colori sfarzosi, coltivati con cura dalle donne di tutto il paese.

Gli anziani del paese, che avevano visto due guerre, insegnavano a figli e nipoti i giochi di un tempo. Avevano istituito una piccola bocciofila. E d’estate, quando le famiglie si ritrovavano, dal pomeriggio fino alla sera, era un rincorrersi di gare, tra giovani e vecchi. Teste canute e teste scure si chinavano a misurare i centimetri tra il pallino centrale e le bocce, tra urla di gioia e “lievi” minacce. Poco distante, i tavolini di chi giocava a carte. Anche lì, giovani e meno giovani,  si scambiavano regole e poesia.

Ricordi e profumi che tornavano intensi, mentre lei sollevava lo sguardo verso l’alto non riconoscendo più nulla in quell’ammasso informe di pietre crollate. La cisterna muta dominava ancora la valle, ultimo baluardo doloroso di rimembranza. Sotto l'istantanea della tragedia.



Conza della Campania - dopo il terremoto del 23 novembre 1980


Le lacrime scivolavano silenziose, mentre un pensiero fisso continuava a martellarle dentro.Poteva sembrare una cosa piccola ma per lei, in quel momento, assumeva un valore immenso.

Non ho fatto in tempo papà, avevo promesso ad Angela che le avrei  portato la mia Barbie Malibù, la mia preferita, per ringraziarla di tutte le estati in cui ho giocato con le sue. Assieme ai miei libri e ai quaderni per inventare  nuove storie.

Con un abbraccio lungo e intenso e un bacio sulla testa, il  padre la consolò. Stringendola forte raccontò del dolore, della rabbia della gente, della tristezza, della paura, del senso di impotenza di chi aveva perso tutto ed era rimasto solo. Di quanta gente era venuta da tutta Italia e aveva scavato a mani nude per salvare le persone rimaste sotto le macerie. Degli zii, degli amici che non c’erano più. Di quel minuto interminabile che aveva calpestato gli uomini.




Conza Scalo - il regno della mia infanzia dopo il terremoto


Del nonno, rimasto per quasi tre giorni vivo, sotto le macerie della casa di famiglia. Della gioia del padre e dello zio provata nell'istante in cui erano riusciti a tirarlo fuori sano e salvo. Dei bambini, delle donne. Dello sgomento, dei ritardi nei soccorsi. Dell’incapacità dello stato di essere tempestivo. Della sofferenza. Di  quel nulla che aveva inghiottito tutto. Di questa Italia, piena di ferite, rassegnata a curarsi da sola. 

Allora e oggi.

Dedicato a tutti quelli che ho amato e che non ci sono più. Ai miei amici d’infanzia e alle corse nei campi di grano che non dimenticherò mai. Ai giochi lungo la ferrovia, tra i binari e sui treni in disuso. Alle migliaia di “campagne” e di avventure tra i boschi. Ai bagni nel fiume Ofanto, dalle acque limpide come cristallo. Ai miei nonni amatissimi. A mio zio. Alle mie estati.
A Conza della Campania.
All’Irpinia.


Alla terra che trema ancora lungo tutta la dorsale appennina. Alle Marche, all’Umbria, a tutta l'Italia centrale, a tutti  i  piccoli e meravigliosi paesi che fanno parte della nostra storia, della nostra vita. A chi non dormirà mai più a cuore libero. E ogni volta che la terra tremerà ancora, ripiomberà nell’abisso. Vicino o lontano che sia. 
Ad oggi che ho avuto la forza di raccontare. 

22 settembre 2016

INSIEME RACCONTIAMO 13.





L'iniziativa voluta fortemente da Patricia Moll, la blogger mirabolante di MYRTILLA'SHOUSE,  è arrivata al secondo anno.

Negli ultimi mesi, seppur con fare discontinuo, ho partecipato anche io divertendomi moltissimo.
A questo punto mi andava di celebrarla anche qui a casa mia. Visto che non è così facile nel pazzo mondo del web riuscire a far decollare con grande amicizia e collaborazione un progetto del genere.
Patricia ci è riuscita benissimo, facendo nuovi proseliti e fidalizzando i "vecchi".

Vi spiego di cosa si tratta.

Pat decide l'incipit di un racconto breve a cui, chiunque vorrà partecipare, aggiungerà il suo finale.
Si può scrivere in coda al suo post oppure dedicarne uno ad hoc nei propri spazi.
Il testo non deve superare 200/300 battute oppure 200/300 parole.
Si possono postare foto, video e musica a completarlo.
E poi si da libero sfogo alla fantasia.


L'INCIPIT DI PATRICIA

"Seduta sulla poltrona, alzò gli occhi dal giornale. L’articolo le aveva fatto capire cosa doveva cercare per ottenere quello che voleva.
Lo posò, si alzò e così come era in casa uscì dirigendosi verso…."

IL MIO FINALE

"la sede del comune della sua città.
A dire il vero era tempo che ci pensava e rifletteva sul da farsi.
Aveva provato a parlarne diverse volte con Michela.
Ma ogni volta era come scontrarsi contro un muro altissimo.
L’atavica paura di lei di dover dare troppe spiegazioni, dell’esporsi ad ogni sorta di giudizio altrui, la bloccava. E poi la famiglia di Gianna, sempre così dura, così distaccata e lontana che fondamentalmente non le aveva mai ac
cettate.
Dimostravano una totale indifferenza alla situazione. Ne parlavano pochissimo, toccando con mano il continuo disagio altrui.
“Stiamo bene così, cosa ci manca?” Le ripeteva spesso, ogni volta che affrontava l'argomento, chiudendola lì.

Eppure era quello che avevano sempre desiderato. 
Dal primo giorno di liceo, quando si erano ritrovate sedute allo stesso banco. Il sole sulla testa e quel battito fortissimo nel petto. 
Passo dopo passo, sempre insieme da quel momento in poi.

Lei non aveva paura di nulla. Si può avere paura dell’amore?
Gianna salì al primo piano. Entrò nell’ufficio del sindaco ed esordì guardando suo fratello dritto negli occhi e tenendo ben stretto il giornale in mano. Lui le sorrise, lei ricambiò.
<<Io e Michela ci sposiamo. E la tua decisione è il più bel regalo che tu potevi fare a noi e all’amore.>>

Nessuna paura dell'amore. Mai."






Vi aspetto, se volete cimentarvi sarà cosa gradita. E andate a sbriciare il blog di PAT. Se non lo conoscete sarà una scoperta deliziosa.