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lunedì 25 febbraio 2019

Tiresia accecato da Giunone, riceve da Zeus in risarcimento il dono della preveggenza.

La prima a saggiare l'autenticità delle sue parole
fu l'azzurra Lirìope, che Cefiso un giorno aveva spinto
in un'ansa della sua corrente, imprigionato fra le onde
e violentato. Rimasta incinta, la bellissima ninfa
partorì un bambino che sin dalla nascita suscitava amore,
e lo chiamò Narciso. Interrogato se il piccolo avrebbe visto
i giorni lontani di una tarda vecchiaia, l'indovino
aveva risposto: "Se non conoscerà sé stesso".
A lungo la predizione sembrò priva di senso, ma poi l'esito
delle cose, il tipo di morte e la strana follia la confermarono.
Di un anno aveva ormai superato i quindici il figlio di Cefiso
e poteva sembrare tanto un fanciullo che un giovane:
più di un giovane, più di una fanciulla lo desiderava,
ma in quella tenera bellezza v'era una superbia così ingrata,
che nessun giovane, nessuna fanciulla mai lo toccò.
Mentre spaventava i cervi per spingerli dentro le reti,
lo vide quella ninfa canora, che non sa tacere se parli,
ma nemmeno sa parlare per prima: Eco che ripete i suoni.
Allora aveva un corpo, non era voce soltanto; ma come ora,
benché loquace, non diversamente usava la sua bocca,
non riuscendo a rimandare di molte parole che le ultime.
Questo si doveva a Giunone, perché tutte le volte che avrebbe
potuto sorprendere sui monti le ninfe stese in braccio a Giove,
quella astutamente la tratteneva con lunghi discorsi
per dar modo alle ninfe di fuggire. Quando la dea se ne accorse:
"Di questa lingua che mi ha ingannato", disse, "potrai disporre
solo in parte: ridottissimo sarà l'uso che tu potrai farne".
E coi fatti confermò le minacce: solo a fine di un discorso
Eco duplica i suoni ripetendo le parole che ha udito.
Ora, quando vide Narciso vagare in campagne fuori mano,
Eco se ne infiammò e ne seguì le orme di nascosto;
e quanto più lo segue, tanto più vicino alla fiamma si brucia,
come lo zolfo che, spalmato in cima ad una fiaccola,
in un attimo divampa se si accosta alla fiamma.
Oh quante volte avrebbe voluto affrontarlo con dolci parole
e rivolgergli tenere preghiere! Natura lo vieta,
non le permette di tentare; ma, e questo le è permesso, sta pronta
ad afferrare i suoni, per rimandargli le sue stesse parole.
Per caso il fanciullo, separatosi dai suoi fedeli compagni,
aveva urlato: "C'è qualcuno?" ed Eco: "Qualcuno" risponde.
Stupito, lui cerca con gli occhi in tutti i luoghi,
grida a gran voce: "Vieni!"; e lei chiama chi l'ha chiamata.
Intorno si guarda, ma non mostrandosi nessuno: "Perché", chiede,
"mi sfuggi?", e quante parole dice altrettante ne ottiene in risposta.
Insiste e, ingannato dal rimbalzare della voce:
"Qui riuniamoci!" esclama, ed Eco che a nessun invito
mai risponderebbe più volentieri: "Uniamoci!" ripete.
E decisa a far quel che dice, uscendo dal bosco, gli viene incontro
per gettargli, come sogna, le braccia al collo.
Lui fugge e fuggendo: "Togli queste mani, non abbracciarmi!"
grida. "Possa piuttosto morire che darmi a te!".
E lei nient'altro risponde che: "Darmi a te!".
Respinta, si nasconde Eco nei boschi, coprendosi di foglie
per la vergogna il volto, e da allora vive in antri sperduti.
Ma l'amore è confitto in lei e cresce col dolore del rifiuto:
un tormento incessante le estenua sino alla pietà il corpo,
la magrezza le raggrinza la pelle e tutti gli umori del corpo
si dissolvono nell'aria. Non restano che voce e ossa:
la voce esiste ancora; le ossa, dicono, si mutarono in pietre.
E da allora sta celata nei boschi, mai più è apparsa sui monti;
ma dovunque puoi sentirla: è il suono, che vive in lei.
Così di lei, così d'altre ninfe nate in mezzo alle onde o sui monti
s'era beffato Narciso, come prima d'una folla di giovani.
Finché una vittima del suo disprezzo non levò al cielo le mani:
"Che possa innamorarsi anche lui e non possedere chi ama!".
Così disse, e la dea di Ramnunte assentì a quella giusta preghiera.
C'era una fonte limpida, dalle acque argentee e trasparenti,
che mai pastori, caprette portate al pascolo sui monti
o altro bestiame avevano toccato, che nessun uccello, fiera
o ramo staccatosi da un albero aveva intorbidita.
Intorno c'era un prato, che la linfa vicina nutriva,
e un bosco che mai avrebbe permesso al sole di scaldare il luogo.
Qui il ragazzo, spossato dalle fatiche della caccia e dal caldo,
venne a sdraiarsi, attratto dalla bellezza del posto e dalla fonte,
ma, mentre cerca di calmare la sete, un'altra sete gli nasce:
rapito nel porsi a bere dall'immagine che vede riflessa,
s'innamora d'una chimera: corpo crede ciò che solo è ombra.

Ovidio, , Libro III

Pensierino. Impossibile innamorarsi di una eco (parola ambigua) e tanto meno di qualcosa molto simile a sé stessi.

sabato 8 settembre 2012

Perché l'Averno fa eccezione ?


Per prima Cerere smosse col vomere dell'aratro le zolle, per prima diede in coltura alla terra messi e frutti, per prima diede leggi: a Cerere dobbiamo tutto.
Lei devo cantare; volesse almeno il cielo che potessi dedicare versi degni a una dea così degna di un carme.
Immensa sulle membra di un gigante si distende l'isola di Trinacria: sotto il suo enorme peso tiene schiacciato Tifeo, che aveva osato aspirare alle sedi dei celesti.
Lui, è vero, si agita dibattendosi per rialzarsi, ma sopra la sua mano destra sta Peloro, vicino all'Ausonia, sopra la sinistra tu, Pachino; Lilibeo gli preme le gambe, sopra il capo gli grava l'Etna; e Tifeo riverso sul fondo dalla bocca inferocito erutta lava e vomita fiamme.
Spesso si sforza di rimuovere la crosta che l'opprime e di scrollarsi di dosso città e montagne:
allora trema la terra e persino il re dei morti teme che il suolo si squarci, che una voragine ne riveli i segreti e che la luce irrompendo semini tra le ombre terrore e caos.
Proprio temendo queste calamità il sovrano era uscito dal regno delle tenebre e su un cocchio aggiogato a neri cavalli percorreva la Sicilia per saggiarne le fondamenta.
Convinto ormai che nessun luogo vacillava, si tranquillizzò, quando in questo suo vagare dal monte Erice, dove viveva, lo vide Venere che, stretto a sé il suo figliolo alato, disse:
“Armi e braccio mio, tu, figliolo, tu che incarni il mio potere, prendi quell'arco con cui vinci tutti, mio Cupido, e scaglia le tue frecce folgoranti in petto al dio, che l'ultimo dei tre regni ha avuto in sorte.
Alla tua mercé tu sai ridurre i celesti, Giove stesso, le divinità del mare e persino chi su loro regna:
perché l'Averno fa eccezione? Perché non estendi il tuo dominio e quello di tua madre ?

(Ovidio, Metamorfosi, Libro V versi 241 e segg.)





sabato 28 febbraio 2009

Gibigianna e metamorfosi



Emilio Scampini, Metamorfosi da Piccoli canti, 1993

Oggi sono un bel sasso del Ticino,
scintillante di mica, bianco e argento,
e sto giù a levigarmi, a luccicare
sotto il pelo carezzevole dell'acqua,
a godere da sotto il suo passare.
Il sole di giorno mi scalda,
la luna di notte m'incanta.
Irraggiato così, a gibigianna (1),
non so più cos'è un uomo,
e sono lieto di non saperlo.

Bienate, Aprile 1988

(1) scintillìo e/o balenìo di una luce riflessa su specchio e/o acqua.

Pensierino. Esiste una natura senza l'uomo. C'era nella notte dei tempi, ha continuato a macinare millenni senza che occhio d'uomo la osservasse e probabilmente ci sarà anche dopo che l'uomo sarà scomparso, inghiottito da chissà quale catastrofe che si sarà cercata o che arriverà improvvisa dalla profondità delle galassie. Per qualcuno è un pensiero blasfemo (l'uomo è il culmine della "creazione"), per me è semplicemente rassicurante.

domenica 7 dicembre 2008

Ovidio, Metamorfosi, Libro XI, Versi 592-649


(Gaetano Previati, Il giorno sveglia la notte)

Dove stanno i Cimmeri c'è una spelonca dai profondi recessi, una montagna cava, dimora occulta del pigro Sonno, nella quale con i suoi raggi, all'alba, al culmine o al tramonto, mai può penetrare il sole: dal suolo, in un chiarore incerto
di crepucolo, salgono senza posa nebbie e foschie.
Qui non c'è uccello dal capo crestato che vegli e chiami col suo canto l'aurora; e non rompono, col loro richiamo, il silenzio cani all'erta od oche più sagaci dei cani.
Non si ode suono di fiere o di armenti, non di rami mossi da un alito di vento, non si ode alterco di voci umane.
Vi domina il silenzio e quiete. Solo da un anfratto della roccia sgorga un rivolo del Lete, la cui acqua scivola via mormorando tra un fruscio di sassolini e concilia il sonno.
Davanti all'ingresso dell'antro fiorisce un mare di papaveri e un'infinità di erbe, dalla cui linfa l'umida Notte attinge il sopore per spargerlo sulle terre immerse nel buio.
In tutta la casa non v'è una porta, perché i cardini girando non stridano; nessuno sta di guardia sulla soglia.
Al centro della grotta si alza un letto d'ebano imbottito di piume del medesimo colore e coperto di un drappo scuro, dove con le membra languidamente abbandonate dorme il nume.
Tutto intorno giacciono alla rinfusa, negli aspetti più diversi, le chimere dei Sogni, tante quante sono le spighe nei campi, le fronde nei boschi, o quanti i granelli di sabbia spinti sul lido.
Quando la vergine vi entrò, scostando con le mani i Sogni per poter passare, al fulgore della sua veste s'illuminò la sacra dimora, e il nume, schiudendo a malapena gli occhi appesantiti dalla sonnolenza, e ancora ancora ricadendo, f con il mento che ciondoloni gli sbatteva in alto contro il petto, riusci finalmente a scuotersi e, sollevandosi sul gomito, chiese, avendola riconosciuta, perché mai fosse venuta. E lei: « Sonno, quiete d'ogni cosa, Sonno, dolcissimo fra i numi, pace dell'animo, che disperdi gli affanni e rianimi i corpi oppressi dal lavoro e li ritempri per nuove fatiche, ordina a un Sogno, che sappia imitare forme vere, i recarsi a Trachine, la città di Ercole, e presentarsi ad Alcione con le sembianze di Ceice, come appare un naufrago.
Lo comanda Giunone. E appena ebbe assolto la missione, Iride se ne andò, perché più non resisteva al potere soporifero del luogo: come sentì la sonnolenza invaderle e membra, fuggì via risalendo l'arco dal quale era venuta. Allora il Sonno dalla marea dei suoi mille figli destò Morfeo, un talento nell'assumere qualsiasi sembianza. Nessun altro più abilmente di lui è in grado d'imitare l'incedere che gli si chiede, l'espressione e il timbro della voce; in più vi aggiunge il modo di vestire e le parole che distinguono quell'individuo. Ma imita soltanto le persone, mentre invece con altro figlio che diventa fiera, uccello o lunghissima serpe: gli dei lo chiamano Icelo, Fobètore i comuni mortali. Ve n'è poi un terzo, Fàntaso, che si distingue per valentia diversa: si trasforma con l'inganno in terra, roccia, acqua o tronco, insomma in qualsiasi cosa inanimata.
Alcuni appaiono di notte a re e condottieri,
altri si aggirano tra la gente del popolo.
Il venerando Sonno tralasciò tutti questi e fra tanti figli scelse appunto il solo Morfeo per eseguire gli ordini recati dalla figlia di Taumante. Poi, risciogliendosi in molle languore, reclinò il capo, sprofondando nelle coltri del suo letto.

Commento. La Notte è la Madre primordiale: secondo gli Inni orfici si congiunse al vento e depose un uovo argenteo (la Luna) dal quale nacque Eros-Fanete, il desiderio che muove l'universo. Erano considerati anche suoi figli il Cielo e la Terra, il Sonno e la Morte (cft Dizionario dell'Arte,Simboli e allegorie, Electra editore). La Notte rimane un tempo misterioso, dedicato al sonno di cui non sappiamo quasi nulla. Il sonno è una "morte temporanea", parente stretto dell'altra morte di cui conosciamo solo gli aspetti biologici.
Sapere che nasciamo da questa cosa primordiale ed umida che è la notte mi rassicura: nella notte mi trovo bene.

(Battista Dossi, Sogno)

I venti di Mario Vargas Llosa

 Il protagonista di questo libretto di Vargas Llosa si reca una mattina con l'amico Osorio ad una manifestazione contro la chiusura di u...