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lunedì 16 novembre 2009

Leggendo Tristi tropici di Lévi-Strauss



(La prima pagina del libro)


Odio i viaggi e gli esploratori, ed ecco che mi accingo a raccontare le mie spedizioni. Ma quanto tempo per decidermi! Sono passati quindici anni da quando ho lasciato per l'ultimvolta il Brasile e durante tutto questo tempo ho progettato spesso di metter mano a questo libro; ogni volta una specie di vergogna e di disgusto me l'ha impedito. Suvvia! Occorre proprio narrare per esteso tanti particolari insipidi e avvenimenti insignificanti? Nella professione dell'etnografo non c'e posto per l'avventura: questa non costituisce che un impaccio; incide sul lavoro effettivo col peso di settimane o mesi perduti in cammino, di ore oziose mentre l'informatore se ne va per i fatti suoi; della fame, della fatica, a volte della malattia, e, sempre, di quelle mille corvees che logorano le giornate in pura perdita, e riducono la pericolosa vita nel cuore della foresta vergine a una specie di servizio militare. Che occorrano tanti sforzi e inutili spese per raggiungere l'oggetto dei nostri studi, non dà alcun valore a ciò che si dovrebbe considerare piuttosto come l'aspetto negativo del nostro mestiere. Le verità che andiamo a cercare così lontano valgono soltanto se spogliate da quelle scorie. Certo, si possono consacrare sei mesi di viaggio, di privazione di avvilente stanchezza al reperimento (che richiedera qualche giorno e, a volte, qualche ora) di un mito inedito, di un nuovo istituto matrimoniale, di un elenco compieto di nomi di clan, ma questo residuato della memoria ( ... alle 5.30 del mattino entrammo nella rada di Recife mentre i gabbiani stridevano e Ie barche dei mercanti di frutta esotica facevano ressa attorno allo scafo ... ), un ricordo così esiguo merita che io prenda la penna per fissarlo?
Tuttavia, questo genere di racconti riscuote un successo che per me rimane incomprensibile.
L'Amazzonia, il Tibet e l'Africa invadono le vetrine sotto forma di libri di viaggio, resoconti di spedizioni e albun di fotografie, dove la preoccupazione dell'effetto è troppo preponderante perché il lettore possa valutare la testimonianza che gli è offerta...


Pensierino. Nel proseguo si legge come Lévi-Strauss sia riuscito a scampare al nazismo nel 1941 fuggendo con una nave carica di ebrei da Marsiglia. E' un racconto velato da una buona dose di snobbismo con connotati decisamente aristocratici e (come si sarebbe detto un tempo) di classe. Ma parlar male di Lévi-Strauss sarebbe blasfemo e quindi mi fermo qui. Diciamo che erano altri tempi.
Sorprendente mi è sembrato che un antropologo di tale fama, famoso in tutto il mondo per i suoi studi e le sue "missioni" nei luoghi più inesplorati del mondo, dichiari la sua "ostilità" al viaggio. E questo (confermando una intuizione di Rom) mi conforta assai.
P.S. Naturalmente il libro è davvero spiritoso ed affascinante.



venerdì 13 marzo 2009

Viaggio in India


Non amo i viaggi. O meglio, non amo l'attesa della partenza: mi mette addosso una grande agitazione, una frenesia, come un cavallo scalpitante che attende il colpo di sperone del cavaliere per lanciarsi al galoppo. E forse è proprio questo che non funziona: il viaggio non si fa correndo, con le proprie gambe, confidando nella propria resistenza fisica. Non è commisurato alla proprio corpo. Il viaggio, sempre più spesso, è legato ad auto, treni, aerei, navi.
Il raggio d'azione dei nostri vecchi, fino alla fine dell'800, era di poche decine di chilometri. Nel '900 le grandi migrazioni portavano a fare viaggi spaventosi (anche solo stagionali), ma erano per la sopravvivenza, per tentare di sfuggire alla fame, alla miseria. C'erano viaggiatori per diletto, ci sono sempre stati nella storia, ma erano una minoranza privilegiata. Al massimo c'erano professioni che imponevano il movimento (l'arrotino, lo spazzacamino, l'ombrellaio, il teatrante ecc). Ma non erano "viaggi" come li intendiamo oggi.
Ora invece il viaggio per diletto è diventato consumo di massa.

La seconda cosa che non mi attrae dei viaggi è l'assenza di un motivo. Non mi basta il fatto di andare a visitare un posto mai visto "per vederlo", per mettere una etichetta adesiva sulla valigia (si mettono ancora?) come una tacca sulla colt del pistolero. Un viaggio deve avere un senso, deve nascere dalla volontà di conoscere un posto perché lì c'è qualcosa che può aiutare la conoscenza. Il viaggio verso una méta senza fare anche un viaggio interiore è senza senso.
Mi sorge un dubbio: viaggio poco anche perché viaggio poco interiormente? Lascio questa domanda a mezz'aria.

Di tutti i viaggi, la mia generazione ha adorato e mitizzato il viaggio in India. Musica, arte, spiritualità e naturalmente letteratura. Chi potrebbe dimenticare le atmosfere di Notturno indiano di Tabucchi o le pagine di Herman Hesse del Siddartha?
Ecco queste cose mi riconciliano un po' col viaggio anche se una domanda, insinuante e indisponente, mi viene alla mente: sarà come vedere il film dopo aver letto il libro?

sabato 6 settembre 2008

Silvio Raffo, poeta

táde metapesónta ekéina

(Eraclito)

(questo,rovesciandosi, è quello)

Illusione del Viaggio è il movimento,

ogni sosta è finzione di Traguardo

Non sai se andare o stare, al fuoco lento

della Visione consumi lo sguardo

I venti di Mario Vargas Llosa

 Il protagonista di questo libretto di Vargas Llosa si reca una mattina con l'amico Osorio ad una manifestazione contro la chiusura di u...