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martedì 28 novembre 2017

Oltre la siepe

Il piccolo spazio dietro alla siepe in fondo al giardino è un luogo mitico della mia infanzia. Lì si produceva uno degli strumenti più importanti del gioco di noi ragazzi: la forcella della fionda. La scelta della forcella era operazione delicata e di fondamentale importanza per la buona riuscita della fionda: non doveva essere troppo sottile e nemmeno troppo grossa, i due capi della Y della fionda devono essere dello stesso diametro ecc ecc. La forcella , una volta tagliata e spelata, veniva passata sulla fiamma del fornello per togliere la peluria e per temprare un po' il legno. Poi si passava agli elastici che erano quelli di una camera d'aria per biciclette recuperati dal ciclista: una parte della camera d'aria si apriva e si ricavavano strisce di 1-2 cm di larghezza e 30-40 di lunghezza, mentre l'altra parte della camera d'aria veniva tagliata a rondelle sempre alte 1-2 cm che sarebbero servite per fissare gli elastici alla forcella da un lato e dall'altro una toppa nella quale inserire il sasso per il lancio. La toppa dalle nostre parti era facile da trovare: si usata un rettangolo di pelle di 5-6 cm x 3-4 e si praticavano due fori sui lati corti per permettere il fissaggio (sempre con le solite rondelle) agli elastici.
Ecco dunque la nostra "arma" preferita era pronta per l'uso. In realtà, in tutta la mia infanzia non ricordo di aver mai preso un solo uccellino con la fionda, ma c'era il mio amico Mario che invece diceva di averne presi, eccome. Il nostro terreno di caccia erano i due oratori (quello maschiele e quello femminile) e il mio giardino dove allora c'erano due grandi alberi di albicocche.
Quella siepe ora non c'è più rimpiazzata da un filare di uva e neanche la cascina è più così. Ma niente di male: non sono forse anch'io altro da quel bambino selvatico e un po' scontroso che girava con una fionda in tasca?




martedì 13 maggio 2014

il 10 maggio è un anniversario particolare: 100 anni fa nasceva mio padre Peppino. Storie di uomini non-illustri

(Un piccolo estratto di una storia famigliare)

Prima c'era solo Peppino (nato il 10 maggio del 1914) e i suoi due fratelli a Roma.


Poi la scuola. Peppino è il primo a destra in prima fila in basso.
Quanto erano dolci i fichi rubati all'Acqua Acetosa ?
Poi il ritorno a Torino (dopo dieci anni nella Capitale) e la tua iscrizione al Conservatorio Giuseppe Verdi per diplomarti in Pianoforte, Violoncello e Composizione e strumentazione per Banda (1934).
All'esame per il pianoforte porta la il Preludio e fuga n. 14 di Bach,  Grandus n. 83-84 di Clementi, Tema con variazioni di Brahams, Preludio n. 4 di Debussy e come "pezzo imposto" l'Op. 8 n.1 di Jensen.

Soldato della leva 1914 del Distretto di Torino. Lasciato in congedo illimitato il 10 Ottobre 1934. Ammesso quale Aspirante Allievo Ufficiale il 1 Giugno 1936 e nominato A.U.C. il 1 Settembre 1936. Giunto al 91 Reggimento Fanteria per prestarvi il servizio di prima nomina il 25 Aprile 1937. Ha prestato giuramento di fedeltà in Rivoli il 24 Maggio 1937.
Partito per la Sicilia perché destinato al 116 Reggimento Fanteria imbarcandosi a Napoli il 3 Ottobre 1937.
Sbarcato a Derna il 5 Ottobre 1937. Partito per l'Italia per l'invio in congedo imbarcatosi a Derna il 2 Gennaio 1938 e sbarcato a Siracusa il 5 Gennaio 1938.
Richiamato alle armi per mobilitazione generale presso il 91 Reggimento Fanteria e giunto il 20 Dicembre 1940. Partito per la Tunisia con il 91 Reggimento Fanteria ed imbarcato a Sciacca il 25 Dicembre 1942.
Prigioniero di guerra nel fatto d'arme di Laghouat il 12 Maggio 1943. E' internato nel campo di concentramento di Saida.
Rientrato dalla prigionia imbarcandosi ad Orano il 25 Novembre 1945. Tale sbarcato a Napoli il 1 Dicembre 1945. Presentatosi al Centro alloggio S. Martino di Napoli il 1 Dicembre 1945. Congedato il 24 Dicembre 1945.

La conquista del tuo "posto al sole"



Al ritorno dalla guerra accetti la proposta di lavoro di tuo fratello diplomato alla Scuola del cuoio di Torino e che ora ricopre la carica di Direttore di una grande conceria nel milanese. E qui l'incontro fatale con mamma, galeotta la passione del padre di lei (Guglielmo) per la musica. Peppino e Guglielmo si divertono a suonare insieme e nasce un feeling non solo tra loro...


Fidanzati


Salotto del nonno con organo e pianoforte


Racconto di quando sono nato. Sono nato il 13/04/1950 a Buscate nella profonda provincia di Milano in Via Regina Elena, 3 alle ore 3 di notte. 
Papà Peppino ha chiamato la nonna Pina e la zia Carla. La nonna non voleva venire, ma ha ceduto alle insistenze di Papà. Poi hanno chiamato l'ostetrica condotta (Signora Vittorina) e lei, per sentirsi più sicura,  a sua volta ha chiesto l'intervento del Dott. Vitalone che è arrivato da Castano con la moglie (anche lei dottoressa).
Sono nato nella camera da letto che era posta al primo piano della casa (la prima stanza verso il giardino che arrivava dal cancello). Sotto, in soggiorno, c'erano Papà e lo zio Battista con sua moglie, la zia Irene.
Il medico in un primo momento ha pensato fosse necessario usare il forcipe, poi ha chiesto di far bollire i ferri e sono nato.
Il Dott. Vitalone con la sua voce tuonante è sceso dalle scale e ha detto “ Dov’è il padre di questo bambino?
Prima foto

Un improvvisato fotografo ci ha ripresi sulla scala di marmo dell'ingresso di casa. Erano passati dieci anni da quella mattina in cui, alla vigilia di Natale, Peppino era sbarcato a Napoli dopo 3 anni di prigionia e non immaginava che lui, diplomato in pianoforte e violoncello, sarebbe finito a fare il rifinitore di pelli in un paesino della provincia di Milano. Io in quella foto potevo avere cinque sei anni. Peppino mi tratteneva leggermente sulle sue ginocchia tenendomi in posa per la foto.  Io avevo quell'aria imbronciata che non mi sono mai tolto di dosso per tutta la vita. Non poteva essere altrimenti essendo nipote di un funzionario dirigente delle Regie Poste e di un Podestà che avevano educato i propri figli al ed all' , uomini d'altri tempi, un po' rigidi, ma saldi come delle rocce nei loro principî. 

Sulla scala di casa
Oggi, papà, io ho gli stessi anni di quando sei scomparso e ti ricordo con grande nostalgia e affetto per la tua schiva e riservata presenza, per la tua pacatezza e mi vedo ancora sul seggiolino della tua bicicletta nera Atala mentre mi porti a passeggio per la strada di campagna che porta a Malvaglio.
Mi rimane di te anche una improvvisata registrazione di poco più di 30 minuti fatta con un vecchio registratore Geloso a nastro. Non si sente una sola tua parola, ma solo la tua musica.


Ciao papà Peppino.








martedì 22 aprile 2014

Gita al lago



Per molti il lago, quando piove, è triste. Anzi è triste, sempre.
A me piace, sempre.
Mi ricorda bei momenti: passeggiate lungo le rive o sulle montagne affacciate sul lago, ma anche gite in barca per raggiungere luoghi fantastici come i Castelli di Cannero o Santa Caterina del Sasso o, ancora, l'Isola dei Pescatori... Per non parlare della vela lungo la rotta che da Cerro di Laveno (nella foto) tira dritto verso la cupola della chiesa di San Vittore di Verbania.

mercoledì 25 dicembre 2013

Dedicato a mio padre Peppino e a mio nonno Guglielmo


Beethoven Piano Concerto No 3 C minor, Arturo Benedetti 

Michelangeli, Direttore Carlo Maria Giulini & Wiener Symphoniker.


Ricordi (mancati, ma non del tutto). Non ho potuto assistere ai concerti di papà con mio nonno per ragioni anagrafiche (il nonno è morto l'anno prima che nascessi). Il primo suonava il pianoforte , il secondo l'organo e si cimentavano in concerti come questo con l'organo che faceva la parte dell'orchestra. Dopo naturalmente ho ascoltato mio padre suonare ed il mio posto preferito era sotto al pianoforte a mezza coda che lui aveva nel salotto rosso. Per quei casi della vita, ho una registrazione di circa 30 minuti di mio padre effettuata con un vecchio registrazione Geloso a nastri.
Chi ha la fortuna di avere un musicista in casa mi può capire quando dico che la musica dal vivo suonata da non professionisti è tutta un'altra cosa: non sarà perfetta l'esecuzione, ma è proprio l'imperfezione il bello.

martedì 19 novembre 2013

'Sta notte


Ti ho sognata 'sta notte
Avevo conosciuto un'altra te
(Non ho voluto guardare una vecchia foto)
Ci siamo abbracciati
Ho appoggiato le mie labbra sulla tua spalla vicino al collo
Fino a quando mi son svegliato.

lunedì 16 settembre 2013

Un imprevisto mi ha portato a visitare la Certosa di Pavia







Pensierino. Tanti anni fa ho visitato l'eremo di Camaldoli. Nella stupenda vallata coperta di castani e pini lo spettacolo nei primi giorni di Novembre era stupendo: il verde dei pini faceva da tappeto ai castani già con le foglie gialle e arancio. Uno spettacolo che ci ha fatto inchiodare la macchina e scendere per ammirarlo. La notte abbiamo chiesto ospitalità al Convento che è situato più a valle dell'Eremo. Il Convento è noto per i convegni della Democrazia Cristiana di Amintore Fanfani negli anni '50. Ciascuno aveva la sua celletta il cui arredo era formato da un letto un armadio un comodino e una bibbia. Solo perché nel nostro gruppo c'era un prete, i frati ci hanno ospitato a quell'ora di notte mettendoci a disposizione la cucina per una frugale cena a base di pane abbrustolito sulla stufa a cerchi in ghisa , una sfregatina di aglio e olio. Poi il giorno successivo siamo saliti all'Eremo: il nostro obiettivo era parlare con l'unico eremita che rimaneva tutto l'anno là sopra. L'Eremo è a circa 1700 mt di altitudine  e d'inverno scende molta neve da queste parti. Fuori dall'Eremo c'è la chiesa, cupa nella sua architettura barocca con un interno buio e umido affollato di angeli dorati (così almeno la ricordo). Un alto muro di cinta chiude le celle dei monaci: ciascuno ha la sua casetta (come alla Certosa) con due stanze riscaldate da un semplice camino a legna. Una stanza è destinata a cucina, l'altra a camera da letto e poi c'è una piccola "cappella", spoglia: l'unico arredo è una croce in legno. Il letto è ricavato dentro una piccola nicchia chiusa con una tenda per trattenere un po' di caldo (qui d'inverno si raggiungono anche i -25°C.
L'eremita era uno solo all'epoca (parlo del 1971): un missionario che era stato tanti anni in America Latina e che poi , per motivi di salute, era tornato in patria , ma non si era sentito di fare altro che ritirarsi eremita per il resto dei suoi giorni. Gli eremiti erano sepolti nel piccolo camposanto che c'è dentro le mura dell'eremo: l'esperienza della morte è pratica quotidiana dei monaci.
Quando mi ha visto un po' spaventato da questo ambiente così solitario, mi ha chiesto perché avevo paura. Ho balbettato qualcosa di incomprensibile e lui mi ha risposto con un sorriso che lui lì aveva tutto quello di cui aveva bisogno ed era felice.

lunedì 1 luglio 2013

L'album dell'Asilo infantile

Trovo, in una di quelle scatole che sarebbero la gioia per quelli dei mercatini, un vecchio quaderno dell'Asilo infantile che ho frequentato da bambino. Avevo la sfortuna di abitare proprio davanti all'asilo (per altro dove abito tutt'ora) e quindi mi era toccato di frequentare mio malgrado quella scuola gestita dalle suore di Maria Ausiliatrice. Non mi piaceva andare all'asilo e massimamente mangiare con le suore, infatti tanto avevo protestato che ottenni una deroga: attraversavo la strada e tornavo a casa per il pranzo, mentre per la merenda pescavo nel mio cestino dove c'era sempre un pezzo di cioccolato Talmone da sgranocchiare con una bella michetta croccante. Mi era sembrato un onorevole compromesso. 
Il quaderno, dunque, in realtà lo chiamavano (era proprio scritto sulla copertina a scanso di equivoci) Album di e sotto , su una apposita riga, dovevi mettere il tuo nome. Naturalmente, essendo un Album dei "piccoli", non sapevi scrivere il tuo nome, non lo avrei saputo scrivere nemmeno l'anno successivo quando sono passato ai "mezzani" e nemmeno l'anno dopo quando sono arrivato ai "grandi". Così la linea dell'Album rimaneva, sconsolatamente, vuota. L'Album era stampato appositamente per l'Asilo del mio paese da un tipografo, in quanto era personalizzato col nome della scuola e l'indirizzo. Aveva una copertina in cartoncino morbido e dentro fogli rigorosamente a quadretti grandi. La prima pagina di questo Album riporta l'esercizio di "fare le aste" e, tutto intorno, una difficilissima greca che faceva da cornice a questo foglio di stentati segni.

Si perché le aste non erano semplici: prima di tutto dovevi usare la matita in modo strano, tutta una lavorazione di punta e non potevi sbavare o andare storto. Se sbagliavi se ne accorgevano subito ed era imbarazzante cancellare perché veniva via anche un po' del colore della pagina che non era affatto bianca, ma un po' marroncina; evidentemente la carta non era quella raffinata, sbiancata e di grammatura perfetta (strong la chiamano gli esterofili) che sarebbe arrivata dopo.

La seconda pagina era ancora peggio in fatto di difficoltà: l'esercizio era quello di riempirla di 1 e sempre con la greca intorno, ma questa volta sembrava merlata come una torre di castello. Alla terza pagina arrivavi con una gran fatica e ti trovavi di fronte un ostacolo quasi insormontabile: dovevi riempire la pagina di uncini, qualcosa meno di una "u" e più di una "i". Quando avevi preso dimestichezza con matita e foglio, le suore, queste sadiche, ti imponevano un altro esercizio da fare: prima disegnare dei rombi (così li avrei chiamati dopo, ma allora erano figure sghembe, improbabili e assurde) o dei quadrati o rettangoli e poi colorarli con vari pastelli. Ma attenzione non dovevi ASSOLUTAMENTE uscire dal contorno della figura e questo mi metteva in sottile ansia. La matita colorata "scappava" sul foglio, c'era sempre qualche imperfezione della carta, del tavolo, della punta del pastello che ti creava dei problemi e poi c'era soprattutto il tuo vicino di banco che faceva di tutto per ostacolarti. La guerra delle carriere era aperta e si cominciava a giocare a suon di aste e di gomitate.

Dicevo della riga del nome, ma il problema era anche il riconoscimento dell'armadietto. Qui le suore si erano ingegnate a mettere dei piccoli simboli uno diverso dall'altro (palla, casetta, triangolo ecc) e che ti facevano riconoscere il tuo armadietto dove riponevi il cestino con la merenda e il fazzoletto. I più fortunati avevano dentro anche un frutto e i fortunatissimi una banana, il top della merenda insieme alla cioccolata, naturalmente. C'erano anche gli snob che avevano sulla salvietta che portavano da casa ricamato lo stesso simbolo dell'armadietto. Ma erano il top.

Che dire ? I così detti "nativi digitali" leggeranno inorriditi questi ricordi che paiono di un mondo lontano e primitivo, appena uscito dalle caverne ed era solo ieri (1953-55). Mi consola il fatto che io posso guardarmi il mio Album dell'Asilo in cartoncino morbido color marroncino, mentre loro chissà cosa guarderanno da grandi...


      

sabato 4 maggio 2013

Ul spégiu végiu (Il vecchio specchio)



  Ul spégiu végiu 
di Maria Ferrario

 Un póo da tempu fòo, una bàla matina sun mitù drée a fòo un póo da misté in cantina.
O' guardòo in un visté végiu e sensa saveél o' truòo un spégiu.
L'o'guardòo, l'o' rimiòo e l'o' truòo upocu e tul smagiòo.
Oh! anca ti mi còr spegiu té sé vignu vegiu !
Peró anca se té sé upocu e brutu, par mè sé sàmpar bàal
parché te scundi i rughi daa mia paal.
 I tempi bai in s-guòo cum'é ul ventu,
quondu gh'ean dés ghèi in sachéta, s'éan sèmpar cuntènti.
Mà rimieu in dul spegiu ogni matina, a picinò i cavì cunt'a brillantina.
Sun cuntènta che t'ó truòo e un póo da valur te gh'é l'é ancamó.
 T'ó fòi una bala curnis e t'ó mitu lò in sul cômò
gh'à vignaò un dì d'una bàla primavaia
e in su un rogiu da sô una farfola culurò la vignaò in cô
la giraò e la sa pusaò su a tua curnis:
pènsa cun certèsa che l'è un saludu ch'al vegn d'ul Pàadis.

martedì 2 aprile 2013

Dedicato a tutti


Il Testamento

Si overo more 'o cuorpo sulamente
e ll'anema rinasce 'ncuorpo a n'ato,
ì mo sò n'ommo, e primma che sò stato?
'na pecora, 'nu ciuccio, 'nu serpente?
E doppo che sarraggio, 'na semmenta?
n'albero? quacche frutto prelibbato?
Va trova addò staraggio situato:
si a ssulo a ssulo o pure 'mmiez''a ggente.
Ma 'i nun 'e faccio 'sti raggiunamente:
ì saccio che songh'io, ca sò campato,
cu tutt' 'o buono e tutt' 'o mmalamente.
E pè chello che songo sto appaciato:
ca, doppo, pure si nun songo niente,
saraggio sempe 'n 'ommo ca sò nato.

Raffaele Viviani


Pensierino. Mi capita spesso di girare per il cimitero del mio paese in queste ultime settimane. Una ricerca sugli emigranti mi ha portato a scoprire lapidi di morti che non ci sono: i monumenti sono un omaggio lasciato da persone che hanno voluto ricordare parenti già scomparsi da vivi. Questo erano gli emigranti: avevano abbandonando la propria terra, la famiglia, gli amici, tutto per cercare fortuna all'estero. Le rare lettere, gli affetti spezzati, lasciavano un vuoto che veniva colmato solo col ricordo, duraturo come i marmi neri dei monumenti. L'emigrazione lombarda negli ultimi venti anni dell'800 è stata impressionante e le regioni settentrionali hanno avuto questo "primato" di emigranti per un lungo periodo prima di essere surclassate dal sud. 
E così attraverso questa frequentazione del cimitero mi rendo conto dell'età che avanza: infatti qui conosco un sacco di gente. Lì c'è sepolto il mio maestro di scuola che si chiamava Benigno (uomo distinto ed un po' triste, scapolo come si "usava" tra i maestri di una volta), là c'è il lattaio da cui andavo a prendere (in bicicletta) con la calderina il latte (uomo di poche parole come tutti i contadini),  là più avanti il mitico Stefanino che vendeva alimentari (a lui le parole non mancavano) e l'altro (concorrente) Benedetto (che invece di parole ne aveva solo di poetiche, ma lo prendevano per matto) e poi il bidello con la moglie bidella caso non unico di nepotismo professionale...
Non so se preoccuparmi o rallegrarmi, ma qui c'è gran parte del mio mondo.

mercoledì 7 marzo 2012

Mischiare caramelle

Da bambino andavo all'oratorio. Era vicino casa, ma ci andavo in bici. La bici si appoggiava fuori, sul muro di cinta insieme a tutte le altre e poi si entrava. L'oratorio era formato dal campo di calcio in terra battuta abbastanza piccolo e, di fianco, da un altro spazio delimitato da quattro tigli e da una parte c'era la chiesa e dall'altra dal cancello secondario di uscita. Quello spazio era utilizzato dai più piccoli come campo da calcio di riserva. Naturalmente le porte diventavano il cancello da una parte e la porta della chiesa dall'altra.
Accanto alla chiesa c'era il cinema e poi subito dopo altri locali di cui uno adibito a bar (l'unico riscaldato), uno per il ping pong e una saletta con un televisore su un trespolo alto alto, ma non ci andava nessuno a guardarla, allora e alla fine il televisore è sparito.

Com'è oggi
Il gioco del calcio era l'unico praticato. Le squadre erano presto fatte: chi arrivava per primo cominciava a giocare "tirando in porta" (una sola). Poi, quando c'era un numero sufficiente di giocatori, si diceva "Beh adesso possiamo fare la partita" e ci si spartiva i giocatori in modo equilibrato. E si perché le squadre non potevano essere una forte ed una debole, sennò che partita era ?
Quando poi arrivavano altri, a partita iniziata, si aspettava che ci fossero almeno due giocatori e poi le due squadre se li spartivano con il criterio di prima o per simpatia verso questo o quel giocatore.

Con la paghetta compravo le caramelle: dentro il bar c'era un bancone inclinato verso l'esterno, col vetro scorrevole sopra e dentro la perpetua di Don Luciano teneva le caramelle sciolte e divise per tipo. Le caramelle si compravano "a pezzo": 5 di queste , 3 di queste, 2 di quelle lì... Ed il bello erano i colori. Poi c'erano le stringhe  e i bastoncini di liquirizia. Si beveva spuma di vari colori (verde, rossa, marrone) e spesso si mischiava. Ma a me più di tutto piaceva mischiare le caramelle, ci andavo matto: liquirizia con menta, limone con rabarbaro ecc ecc Ancora oggi, quando sono in vena di caramelle e posso farlo me ne metto in bocca due e via...

giovedì 19 gennaio 2012

Mio padre aveva un violoncello che non suonava



Mio padre aveva, in un angolo del salotto, un violoncello, che non suonava mai. A dir la verità appesi dietro il nero pianoforte Bluthner a mezza coda aveva, oltre alle maschere in terracotta di Ludwig Van Beethoven e di Giuseppe Verdi, due diplomi del Liceo Musicale Giuseppe Verdi di Torino che attestavano che si era diplomato nell'anno scolastico 1933-1934 proprio in violoncello e pianoforte. Ma il pianoforte aveva continuato a suonarlo, il violoncello no. Diceva che per quello strumento ci voleva un esercizio giornaliero, altrimenti si perdeva la mano e lui che si era riciclato dopo la guerra da maestro di banda a rifinitore di pelli alla caseina, non aveva certo il tempo di star lì tutte le sere ad esercitarsi. Non so se avesse avuto mai rimpianti nell'aver preferito ad un futuro come direttore della banda di Nocera Umbra quel lavoro industriale in uno sperduto borgo della provincia di Milano. Non gliel'ho mai chiesto. Forse non era una domanda da farsi: non saremmo nati noi tre figli e la storia sarebbe stata un'altra, altrove.
Il violoncello era rimasto lì per un bel po', poi un giorno sparì senza una spiegazione: l'aveva venduto perché non sopportava di vedere uno strumento non usato in un angolo, quando poteva servire a qualche promettente violinista.
Gli era rimasta la passione per questo strumento che come un contagio mi ha passato. Questa è l'eredità più cara che ho ricevuto da mio padre. 

giovedì 17 febbraio 2011

Musica d'altri tempi

Un concerto di una orchestra di 18 elementi che suona Mendelsshon e Mozart in provincia è difficile da vedere quanto un capello sulla testa di Mister B.. Così, malgrado una serata di pioggia, il Festival di San Remo e mi dicono una partita di calcio in contemporanea, un centinaio di persone non ha trovato di meglio da fare che uscire, imbarcarsi su un'auto per qualche chilometro di strada (le distanze in provincia sono incolmabili senza mezzi privati !), infradiciarsi nel scendere e gustarsi al modico prezzo di 10 € un concerto di un'ora e mezzo di un'orchestra di giovani elementi provenienti dal Conservatorio di Milano. Miracoli della natura !
La musica dal vivo è un'altra cosa, tanto più quella da camera classica. Non sono un musicista, ma apprezzo la musica e capisco il suo linguaggio tanto che è forse una delle poche cose che mi fa venire ancora oggi i brividi e qualche volta anche le lacrime.
Figlio di un musicista (riconvertito da maestro di banda ad altra professione più prosaica) ho sempre ascoltato musica in casa: mio padre suonava il pianoforte e quando tornava dal lavoro spesso si metteva al suo Bluthner e intonava arie d'opera o Notturni di Chopin, spingendosi fino agli spartiti di San Remo di quegli anni là ('60-'70) e quando vedo un violoncello oggi mi ricordo di quello che lui ha tenuto per tanti anni in un angolo del salotto e che poi un giorno (a malincuore, credo) ha deciso di vendere per inutilizzo. Il violoncello è uno strumento molto esigente e richiede un esercizio costante ed assiduo e mio padre l'aveva abbandonato quasi subito dopo il conservatorio prima per la guerra e poi per il poco tempo che gli lasciava il lavoro.
Il violoncello è uno strumento bellissimo come voce e con la viola sono gli strumenti che più amo. I violinisti sono sempre un po' nervosi con quello strumento striminzito in mano che pare che gli scappi da sotto le dita da un momento all'altro. Quelli che suonano la viola ed il violoncello sono invece più paciosi, meno tesi, inclini alla pancetta e al sorriso. Poi che suono esce da lì: caldo, avvolgente, senza punte e strilli e squilli, ti prende per mano e ti sembra di allontanarti in un prato verde pieno di margherite.
Da ragazzo mio padre mi aveva fatto apprezzare un grande violoncellista che si chiamava Pablo Casals, famoso soprattutto per la sua versione delle Suites per violoncello solo di Johann Sebastian Bach e poi il suo allievo Mstislav Rostropovič che riusciva a tirar fuori dallo strumento delle sonorità allo stesso tempo potenti e vibranti. Ancora oggi è una grande emozione ascoltarli.






lunedì 5 luglio 2010

L'irrilevante è tutto quello che resterà

L'irrilevante è tutto quello che resterà. Compro alla Coop un chilo di albicocche. Diffidente le metto in frigo. La frutta acquistata marcisce nel percorso tra il supermercato e casa. E' frutta italiana, almeno.
Dopo il solito pasto frugale di mezzodì, metto in tavola le albicocche e mi appresto ad avere la solita delusione. Non è così. Le albicocche rivelano, imprevedibilmente, di essere ancora perfettamente mature ed allora...Eccomi bambino sulle piante di albicocche dietro casa che da tempo non ci sono più. Due alberi imponenti che svettavano ben oltre il tetto di una vicina casa. Lì sopra (le piante) passavo interi pomeriggi a giocare saltando da un ramo all'altro e da lì al piccolo cassero degli attrezzi e poi ancora sul tettuccio dei vicini e poi ancora sugli alberi. Quando le albicocche erano ancora verdissime, dure  ed aspre al gusto le addentavo con impazienza. Raramente i frutti arrivavano alla completa maturazione: se ne faceva delle scorpacciate incredibili.
Ecco quel gusto è rimasto nella memoria: aspro, un po' selvaggio ed i denti stridono come se avessero assaggiato un limone.
A distanza di cinquant'anni questo è quello che ricordo.
L'irrilevante è tutto quello che resterà.

giovedì 29 ottobre 2009

Ti ho sognato



Ti ho sognato. Avevi la faccia imbronciata. Ti ho vista sempre così. C'era in te come un rancore verso il fato avverso: avevi governato la tua vita fino ad un certo punto e le cose sembravano andare nella direzione che volevi. Poi (ecco il fato) il vento è girato e le cose sono andate per un'altra strada e tu, da quel momento, hai cominciato ad inseguirle senza mai raggiungerle. Hai dovuto faticare. Ti sei graffiata l'anima. Alla fine ti sei rimessa in strada, ma quell'ombra ti è rimasta addosso come un marchio nelle carni.
Mi piaceva quell'ombra. Temevo sempre di imbattermi nella determinata sfrontatezza di prima, quella che ti aveva fatto credere di poter governare la tua vita. Ora c'era di mezzo anche la mia.
Ma ecco, ancora una volta, avevi creduto di poter dare una spallata al fato e invece quello ti ha beffato.
E' nella tua natura fare di queste prove e non saresti tu se non le facessi.

giovedì 6 agosto 2009

Giovanni Jervis e qualche ricordo

Ricordare Giovanni Jervis è come tornare al 1969 quando, studente spaesato (nel vero senso della parola, era uscito dal paese inoltrandomi nella città) di lettere alla Statale di Milano, preferivo le lezioni tutt'altro che accademiche di uno psicologo [di cui non ricordo il nome, forse un certo Caracciolo] che era riuscito a farsi dare un'aula al Politecnico e lì svolgeva i suoi happening seguitissimi ed assai divertenti. Ricordo quel autunno e inverno e poi la primavera del 1970 delle appassionate discussioni con due amici, nei giardini davanti all'università, che avevano come argomento principale la "normalità", questione centrale (almeno per noi neofiti rimasti tali) della nuova psichiatria con tutte le implicazioni sociali che si portava dietro.
Naturalmente il Manuale critico di psichiatria, che apparirà qualche anno dopo, non poteva che essere l'approdo di questi studi poco ortodossi: lì leggemmo il capitolo finale La normalita e la sua critica che avrebbe dato una sistemata a qualche idea senza toglierci dal nostro eclettismo.

Per di più quei tre giovani (uno ero io, un altro diventerà ingegnere civile e l'ultimo un ottimo magazziniere) che si trovavano al Politecnico erano stati presi da uno spirito missionario e pertanto avevano avuto la grande pensata di non tenersi tutto per sé, ma frettolosamente imbastito in proprio, nella profonda e sonnacchiosa provincia, un vero e proprio corso serale cercando di trasmettere il "verbo" appena rivelato nella grande università della Città. I destinatari di questa "opera di bene" erano altri disgraziati perditempo che non avevano nulla di meglio da fare che apprendere (di seconda mano per di più) i primi rudimenti di psicologia. Quale oscura motivazione li avesse portati a tanto non è dato sapere ancora oggi.

Rimane un po' di nostalgia per lo spirito assolutamente improvvisato ed "ambizioso" degli obiettivi che potevano animare tre giovani. Avevamo la sfrontatezza di guardare molto in alto.

mercoledì 6 maggio 2009

Tornare e (non) trovare

Un mio amico di Jesi, soffrendo di insonnia e di solitudine, lontano da Jesi per quarantanni aveva ricostruito a memoria tutta la città comprese le sbrecciature del cordolo del marciapiede davanti al portone di quella casa in quella strada. Spinto da un impulso improvviso una mattina prende la macchina, corre a Jesi e naturalmente, bastava pensarci, non ritrova quasi niente: strada, casa, marciapiedi spariti o deformati, demoliti, ristrutturati, restaurati, ripittati.
È scappato subito, non è mai più tornato a Jesi, e quando soffre d'insonnia, non sa più cosa pensare.

da Gianpaolo Dossena, Mangiare banane, il Mulino, p.54

Pensierino. Tornare e non trovare. Qualche post fa ho parlato di "tornare e trovare", una sensazione strana che mi ha preso rivisitando certi luoghi e scoprendoli "indifferenti" alla mia presenza anzi capaci (loro) di evocare sentimenti e sensazioni che pensavo perduti, sepolti dal tempo. Non so come spiegare: mi pare che in quei luoghi ritrovati ci sia una vita mia (non vissuta) che si muove parallelamente a quella che ho scelto e continua nella memoria a farsi e progredire come una possibilità non giocata.

giovedì 16 aprile 2009

Ricordi


Ci sono particolari, piccole cose alle quali la memoria si aggrappa e quando vengono ricordati aprono una finestra di immagini ed emozioni. Tutte le volte che scopro i miei occhiali orribilmente sporchi, penso a mia zia Carla. E' un gesto di affetto nei miei confronti. Ci vedevamo poco, lei abitava a Torino e le visite erano occasioni memorabili. Mi guardava sorridento e, scoprendo gli occhiali sporchi, me li sfilava e puliva accuratamente. Cara zia Carla, ti ricordo così.

lunedì 23 febbraio 2009

Cazzeggi mentali visitando la Fondazione Giò Pomodoro

Dietro una pesante lastra di metallo che rappresenta le sensazioni che l'artista ha provato tornando nel paese natio e trovandolo, dopo tanti anni, ormai abbandonato (destino quasi inevitabile per molti paesi delle montagne e colline) c'è scritto "Lo sai. Debbo riperderti e non posso"
Il ricordo è persistente, anche contro la volontà di cancellare ogni cosa. E' come se fosse inpresso indelebilmente dentro la materia come la scritta nel metallo.




All'Ingresso del labirinto (questo è il titolo dell'opera) è stata messa una zeppa per tener aperto il pesante portale. Il labirinto è uno di quei simboli che si sono caricati nel corso della storia di così tanti significati che ora stentiamo a decifrarli. Il più comune è che sia una raffigurazione della vita con in suo cammino tortuoso e sconosciuto. Solo pochi fortunati raggiungono l'uscita. Però, c'è un però anche qui, c'è sempre bisogno di una umile zeppa per tenere aperta la porta.

I venti di Mario Vargas Llosa

 Il protagonista di questo libretto di Vargas Llosa si reca una mattina con l'amico Osorio ad una manifestazione contro la chiusura di u...